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Enrico Levati, disporsi alla meraviglia
Una giornata di riflessione in ricordo di Enrico Levati. Un testo su ciò che ci dice la tragedia jugoslava e sullo stare al mondo
(Testo originariamente pubblicato su www.michelenardelli.it)
Sabato scorso (29 ottobre, ndr) si è tenuta al Castello vescovile di Albiano nei pressi di Ivrea una giornata di testimonianze e di pensiero in ricordo di Enrico Levati, un caro amico con il quale abbiamo condiviso innumerevoli iniziative di solidarietà e di cooperazione internazionale a partire dal comune impegno verso la tragedia che negli anni ’90 sconvolse la Jugoslavia.
Enrico era uno straordinario tessitore di relazioni, in quella sfera nella quale riusciva ad includere con naturalezza la vita pubblica come quella privata. Uno spazio nel quale potevano trovare cittadinanza le tragedie del nostro tempo ma anche l’interesse per la vita delle persone che incontrava.
Ho conosciuto Enrico lungo le strade della solidarietà, nella reciprocità che impone di rispecchiarsi nell’altro, non un dare per ricevere ma quell’essere parte di un comune destino che ci inchioda alle nostre responsabilità. I ponti costruiti con le diverse sponde del Mediterraneo – che richiedevano attenzione e visione ben prima che la disperazione trasformasse questo mare nel cimitero che oggi conosciamo e che la paura e l’ossessione identitaria trasformassero la culla del nostro sapere nell’incubo dello “scontro di civiltà” – erano l’esito di una cooperazione diversa che non divideva il mondo fra donatori e beneficiari, ma che partiva dalla ricchezza dei territori, dalle persone e dalle loro esperienze di vita.
Tratti dai quali ripartire per valorizzarne le unicità. Amava la terra e la vita, Enrico. La terra madre che racchiude la natura e la conoscenza, in una relazione coevolutiva fra gli attori del territorio. Lo sguardo attento verso ciò che non si conosce e l’incanto verso la bellezza.
Ci incontrammo anche lì, nell’impegno in Slow Food, nell’attenzione per la maestria di un cuoco palestinese, per la sapienza di una contadina indigena o per la genialità di un artigiano bosniaco. Ancora lo vedo fra gli stand dei produttori provenienti da ogni parte del mondo al Salone del gusto, con quell’attenzione competente ed esigente verso gli amici che presentavano i prodotti di un modo diverso di rapportarsi alla madre terra.
Questo disporsi alla meraviglia, questo indagare curioso sulle cose del mondo non era diverso dal modo con cui Enrico entrava in relazione con le persone. Negli occhi degli altri sapeva leggere lo stato dell’anima, la fatica del vivere ma anche la gioia dell’incontro. Così, quando ti chiedeva “come stai” non era affatto un banale modo di dire ma una forma di interlocuzione che con reciprocità interrogava sulla vita, sul senso delle nostre esistenze, sull’angoscia della nostra finitezza. Un prendersi cura degli altri che non era altro, del resto, del suo stesso impegno professionale.
Enrico Levati se ne è andato da questo mondo poco più di un anno fa e per tenerne vivo il messaggio, insieme a Nevio Perna ed Agostino Zanotti, abbiamo immaginato una giornata di riflessione per continuare a sentire fra noi la presenza di un amico.
Così si è attivato ad Ivrea e nel Canavese un gruppo di lavoro che, nella spettacolare ambientazione del Castello di Albiano, ha costruito un momento molto partecipato nel quale le traiettorie di impegno e di vita si sono intrecciate con le riflessioni sul presente. Testimonianze che ci hanno fatto rivivere un contesto nel quale ci siamo messi in gioco e riflettere su quel che rimane. E proprio il dialogo fra passato e presente ha fatto di questo incontro non un rito celebrativo ma l’occasione per interrogarci sul valore dell’impegno civile, dell’eredità che porta con sé la vicenda umana di Enrico (e di quanti ne hanno condiviso il percorso) e di quel che può rimanerne in dote per le generazioni a venire.
Una giornata davvero molto bella, allietata dal sole e dal calore dell’accoglienza della piccola comunità che vive in questo luogo e che ha cucinato per noi l’antico frumento e le zucche, frutto di questa terra e del lavoro di queste persone.
In questa giornata mi è stato chiesto di portare una riflessione sul contesto balcanico, dallo scenario europeo seguito alla caduta del muro a quel che abbiamo saputo imparare.
Quello che segue è il testo che ho tratto dagli appunti del mio intervento:
C’è un’esortazione molto cara ad Hannah Arendt da cui voglio partire perché ben testimonia del senso di un impegno che negli anni abbiamo condiviso con Enrico: “essere presenti al proprio tempo”. Cosa tutt’altro che banale, che ci richiede di mettere a fuoco, di scavare dentro gli avvenimenti, di coglierne i segni del tempo. Farlo in un passaggio di profondi cambiamenti come quello segnato dalla caduta del muro di Berlino non era per niente facile, ma ci provammo.
Gli avvenimenti del novembre 1989 ci illusero che la fine del bipolarismo avrebbe aperto una nuova stagione non più improntata sull’equilibrio del t[]e ma sulla pace e sulla riconciliazione. Ernesto Balducci scrisse “L’uomo planetario”, immaginando un radicale ripensamento dell’uomo e della sua storia. Ben presto avremmo compreso che non sarebbe stato così, che la fine di una storia avrebbe certamente dato il via ad un’altra storia ma non necessariamente migliore di quella precedente. Quel che ci aspettava avveniva infatti all’insegna della parte peggiore dell’ideologia di chi la contesa novecentesca l’aveva vinta, del diritto naturale e dell’esclusione, ovvero del neoliberismo.
Nemmeno il tempo per capire quel che stava accadendo ed ecco che apparvero guerre di tipo nuovo, con caratteri in parte inediti rispetto alle tragedie conosciute nel corso del Novecento. E così facemmo fatica a comprenderle, anche perché le categorie interpretative che utilizzavamo precedentemente non funzionavano più.
Le nuove guerre
La prima guerra del golfo si presentò in nome della non negoziabilità degli stili di vita occidentali e nell’ipocrisia della difesa del diritto internazionale per avere il controllo sulle risorse strategiche. La superiorità tecnologica ne fece “una guerra stellare”, con i giornalisti al seguito che raccontavano la guerra dalla parte di chi la stava facendo e non certo di chi la subiva. Fu l’esordio della guerra per la democrazia e per la rimozione di dittatori che fino a quel momento erano stati i referenti dell’Occidente, gli organismi del diritto internazionale si eclissarono così come i Caschi blu. Nel nome del rispetto dei diritti umani si fece un grande uso dell’uranio impoverito e di armi chimiche. L’altro era la barbarie ed anche i luoghi e le testimonianze di una cultura millenaria diventavano obiettivi di guerra.
Da quel momento fu un crescendo di sperimentazione di nuove tecniche di guerra. Irrompevano nuovi attori, il t[]ismo, il crimine organizzato, le bande paramilitari, mettendo così in rilievo come la guerra non fosse più monopolio degli stati. Con la guerra, cambiava anche l’economia: traffici criminali di ogni tipo, non solo armi e droga, ma anche esseri umani, organi, riciclaggio di beni trafugati, oggetti d’arte, beni archeologici. Mentre i miliziani depredavano le case, le organizzazioni criminali svuotavano i conti correnti bancari o postali, distruggevano i catasti fondiari per appropriarsi dei beni delle persone cacciate o assassinate. Per uscire dai campi di concentramento (che riapparvero nel cuore dell’Europa come dell’Africa) si doveva pagare oppure firmare in bianco la cessione dei propri beni. Gli embarghi internazionali, facilmente aggirabili, rendevano paradossalmente ancora più redditizi i traffici illegali e i commerci dei beni di prima necessità. Cresceva il livello di violenza verso la popolazione civile e la violazione dei diritti umani, anche lo stupro divenne un’arma di guerra.
La guerra dei dieci anni
Dopo la guerra del Golfo, il Rwanda ed un’altra guerra nel cuore dell’Europa che in molti ritenevano impossibile. In quella Jugoslavia che per anni era stata il simbolo di una terza via e del “non allineamento”, divenendo durante la guerra fredda oggetto di attenzione di entrambi i blocchi, le “nuove guerre” si arricchirono di tratti nuovi: le seconde linee della vecchia nomenclatura misero i panni dei signori della guerra; la criminalità organizzata – che già proliferava nelle pieghe del vecchio regime – si saldò con il nazionalismo, la criminalità comune, le bande degli ultras degli stadi. Il nazionalismo e la religione divennero il paravento di interessi ben più prosaici. Uno “spazio europeo” per antonomasia come la Jugoslavia, insieme di minoranze e di diversità prodotto della storia europea, venne demolito insieme ai simboli dell’incontro fra oriente e occidente.
La Jugoslavia implose dunque per l’effetto combinato di una nomenclatura che voleva succedere a se stessa, di un Novecento non elaborato dal quale riapparvero radicate narrazioni familiari, dell’assenza delle istituzioni europee e della loro incapacità di comprendere quel che stava avvenendo e per il contestuale interesse delle maggiori potenze europee (e degli Usa) che nella deflagrazione di questo paese vedevano la possibilità di costruirsi nuove aree di influenza.
Faticheremo (e ancora fatichiamo) a comprendere la natura postmoderna di quel che stava accadendo dall’altra parte del mare Adriatico, il significato dell’attacco all’Istituto orientale e alla Vjiesnica (la Biblioteca nazionale) di Sarajevo. In pochi compresero che in quell’agosto 1992, mentre andavano in fumo milioni di libri e gli antichi manoscritti che testimoniavano la storia di quella città, bruciava l’Europa. Perché Sarajevo racchiude la storia dell’Europa, ne rappresenta la metafora.
Sarajevo, metafora di un’Europa che nasce fuori di sé
Per comprendere questa metafora è qui necessario aprire una parentesi, relativa ad un avvenimento poco conosciuto ma non per questo meno emblematico di questa città. Nel 1910 si tiene quello che in seguito si rivelerà l’ultimo censimento dell’Impero asburgico. Significa che in quel vasto territorio che va dal Tirolo fino alla Galizia passando per le principali città di quella “piccola Europa” – da Vienna a Budapest, da Praga a Pressburg (oggi Bratislava), da Trento a Leopoli, da Innsbruck a Kronstadt (oggi Brasov), da Trieste a Zagabria, da Lubiana a Sarajevo – i funzionari imperiali sono impegnati ad identificare attraverso la lingua parlata in casa e in strada (umgangsprache) la nazionalità dei loro cittadini. L’esito del censimento nella capitale bosniaca ci racconta di come si è andata costruendo l’Europa nel corso dei secoli. Risulterà infatti che la terza lingua parlata dagli abitanti di Sarajevo (dopo il serbocroato e il tedesco) era lo spagnolo. Si trattava dell’antico ladino tramandato nei secoli dalla popolazione ebraica sefardita considerato come lingua madre dal 13,4% dei cittadini di quella città. Vi erano giunti nei primi anni del 1500 dopo la cacciata dall’Andalusia (2 agosto 1492) grazie all’editto dell’Alhambra che pose definitivamente fine ad un’altra storia che qui non ho il tempo di ripercorrere, il califfato di al-Andalus Mi limito solo a ricordare che in Andalusia si diede continuità a quel “movimento di traduzione” (iniziato a Damasco nel VII secolo e successivamente proseguito con ancor più vigore a Baghdad) grazie al quale è arrivata fino a noi la conoscenza della filosofia greca, della matematica, dell’alchimia, dell’astronomia, ma anche della poesia e della canzone d’amore. E’ di questa storia di attraversamenti e di sincretismi religiosi che i nuovi barbari – moderni urbicidi – volevano far perdere le tracce, di un’identità europea che aveva ed ha le proprie radici nelle tante culture che l’hanno attraversata, compreso quell’islam endogeno che nacque dall’abbraccio fra l’eresia cristiana degli antichi bogomili e l’islam proveniente dal vicino oriente. Chiusa parentesi.
Che cosa abbiamo imparato?
E malgrado quello straordinario ponte di solidarietà che prese corpo negli anni ’90 fra le due sponde dell’Adriatico, fatto di aiuti e di relazioni profonde fra territori che ancora oggi prosegue nella cooperazione di comunità, si faticò a comprendere il significato di quella guerra che per dieci anni lacerò il cuore dell’Europa.
Ma di quale Europa stiamo parlando, se ancora oggi sentiamo autorevoli personaggi affermare che il vecchio continente si sarebbe tenuto al riparo dalla guerra per settant’anni? Affermazioni come questa ci dicono molto dell’idea che abbiamo dell’Europa (ridotta alla sua parte occidentale) e del grado di comprensione delle guerre che l’hanno percorsa dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Ci dice in primo luogo che l’Europa continua a non far parte dell’orizzonte dei suoi cittadini, di quanto sia ancora lontano quello sguardo europeo, quella visione “sempre in divenire”, di cui ci parla Zygmunt Bauman (Zygmunt Bauman, L’Europa è un’avventura. Laterza, 2006) e che prende il nome dalla principessa della mitologia greca, figlia di Agenore, re di Tiro, capitale della Fenicia, straordinaria metafora di un’Europa che nasce dall’altra parte del Mediterraneo.
E poi della mancata elaborazione della vicenda balcanica degli anni ’90 del secolo scorso, che anche per questo si riproduce ai suoi confini orientali, nel Caucaso che sempre nella mitologia greca «rappresentava l’estremo limite del mondo nel quale Prometeo era stato esiliato dagli dèi dopo il furto del fuoco» (Charles King, Il miraggio della libertà. Einaudi, 2014) o nell’Ucraina che per comprenderne le dinamiche moderne basterebbe risalire alla sua etimologia (u-krajina, sul confine). Territori ancora fortemente vulnerabili, perché in assenza di elaborazione «le guerre non finiscono mai» (James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2005).
Una sfera di cristallo sulla postmodernità
Interrogarsi su ciò che è avvenuto nei Balcani nell’ultimo decennio ci pone immediatamente un’altra domanda: che cosa abbiamo imparato dalla “guerra dei dieci anni”?
Al di là degli interventi umanitari e dei tanti progetti nei quali ci siamo impegnati nel corso degli anni per far rinascere la speranza di futuro nelle comunità con le quali ci siamo messi in relazione, per me i Balcani hanno rappresentato il caleidoscopio per comprendere il nostro tempo, una sfera di cristallo sulla postmodernità. Provo a rispondere dunque alla domanda, proponendovi qualche immagine.
La prima corrisponde ad un altro interrogativo: poteva essere evitata? Nel 1990 e nel 1991 l’ultimo presidente di turno della Federazione Jugoslava Ante Markovic propose a più riprese l’ingresso della Jugoslavia nella Comunità Europea e la risposta fu sempre negativa. Certo, non si può ricostruire la storia con i se e con i ma. E al tempo stesso affermo che probabilmente il coraggio dell’inclusione avrebbe permesso di tracciare una storia diversa. Come ebbe a dire Giuliano Amato in un suo rapporto sul dopoguerra balcanico, «l’Europa si fa o si disfa nei Balcani».
Seconda immagine. Ho già parlato della Vijesnica e del significato che assunse quell’aggressione alla storia profondamente europea di Sarajevo. La distruzione dell’Islam europeo corrisponderà qualche anno dopo al duro confronto in merito al riconoscimento o meno nel Trattato costituzionale europeo delle sue radici cristiano-giudaiche o all’adesione della Turchia all’Unione (che peraltro dal 1949 fa parte del Consiglio d’Europa). Le radici plurali dell’Europa ne sono l’essenza, tagliarle poteva corrisponde alla sua negazione. Forse anche per questo «il Novecento nasce e muore a Sarajevo».
Terza immagine, l’urbicidio. Termine coniato proprio intorno all’assedio di Sarajevo, per descrivere la volontà non di conquistare una città ma di piegarla, di piegare il suo carattere cosmopolita, gli intrecci culturali che custodiva. Nelle guerre moderne troveremo sempre più frequentemente vicende analoghe, che hanno portato alla devastazione di città come Aleppo o Baghdad, luoghi della storia e della cultura come Timbuktu o Palmyra, di simboli come Mostar o Pocitelj.
O, per altri versi, in un altro dei tratti della postmodernità: il conflitto fra città e campagna. Un’immagine che mi sta particolarmente a cuore per descrivere il contesto balcanico degli anni ’90 è la “balkanska krcma”, la locanda balcanica. Rada Ivekovic ne parla diffusamente descrivendo questi luoghi nel suo “Autopsia dei Balcani” come il contesto della volgarità, dell’odio verso gli intellettuali e le città, del fango balcanico, i luoghi in cui gli umori diventano rancore ed il rancore diventa progetto politico. Pensiamoci, ma non sono questi luoghi tanto diversi dalle osterie delle nostre periferie, dove cova il rancore verso il prossimo e che per anni non abbiamo saputo vedere.
Un’altra immagine di cui dovremmo fare tesoro e che l’ultima guerra balcanica ha evidenziato è quella degli “stati offshore”. Intendo stati immaginati come altrettanti “porti franchi”, funzionali ai traffici criminali di ogni tipo, alla ripulitura e al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite. Dopo la caduta del muro in Europa sono scomparsi tre stati (URSS, Jugoslavia e Cecoslovacchia) e ne sono nati ventuno di nuovi, in molti dei quali a farla da padrone è proprio l’assenza di regole. Del resto, nella Jugoslavia in fiamme, anche la pulizia etnica fu una forma di accumulazione primaria, terreno nel quale avveniva l’esproprio scientifico di beni mobili ed immobili, traffici illegali i cui proventi finivano attraverso banche greche e cipriote compiacenti nel mercato finanziario globale. Anche per questa ragione parlo del carattere postmoderno dei signori della guerra, delle bande criminali e delle mafie.
La deregolazione rappresenta l’altra faccia di tale assenza di regole. In questo caso abbiamo a che fare con la delocalizzazione delle imprese, che a sua volta ci parla della scarsa tutela del lavoro e dell’ambiente e, più in generale, dell’assenza di stato di diritto. Nel turbocapitalismo il costo del lavoro non è un problema, così lo stoccaggio dei rifiuti tossici, l’uso di prodotti altrove proibiti per le conseguenze sulla salute delle persone… Persino i sottomarini della vecchia flotta jugoslava vennero riciclati per il traffico di droga e l’Isola Calva (la famigerata Goli Otok, il gulag dove finivano i dissidenti del regime titino) venne utilizzata per l’industria del porno.
Un’ultima (non in ordine di importanza) istantanea. Nel passaggio dal comunismo reale al turbocapitalismo abbiamo assistito alla demolizione di uno stato sociale che quand’anche di non eccelsa qualità garantiva comunque una copertura di servizi essenziali che poi sono stati letteralmente cancellati. L’immagine che forse più mi ha colpito in questi anni è la proliferazione di farmacie che fà da contraltare alla scomparsa (o meglio all’impraticabilità) della sanità pubblica. Chi ha il denaro va a curarsi all’estero, chi non ne ha ricorre alla medicina del “fai da te” e le farmacie ne sono il simbolo. A saper vedere, questa è la tendenza di questo nostro tempo.
Ciò che è avvenuto in Jugoslavia e più in generale nell’est europeo dopo l’89 è stata dunque un’enorme (e drammatica) sperimentazione sociale che ci parla del postmoderno.
Costruire relazioni, per stare al mondo
Infine due ultime considerazioni. La prima riguarda i nostri mondi. Dicevo che negli anni ’90 si è costruito un grande ponte di solidarietà, fatto di interventi umanitari e di accoglienza. In questo contesto sono nate forme diverse di cooperazione che cercavano strade nuove rispetto a quelle di un circo umanitario che rincorreva cinicamente le emergenze. Un ponte di relazioni e proprio la relazione è l’essenza della cooperazione di comunità (Mauro Cereghini, Michele Nardelli, Darsi il tempo. Emi, 2008). Un entrare in dialogo nella consapevolezza che nell’interdipendenza non esiste più un “noi” e un “loro”, ma una condizione umana che ci insegna a stare al mondo. Questa è la nuova possibile frontiera di una cooperazione altrimenti in crisi, ridotta a progettificio e priva ormai di una propria autonomia, condizionata com’è dalla continua ricerca di finanziamenti per garantire la continuità di apparati altrimenti insostenibili. E che, anche per questo, ha smesso di osservare, di approfondire, di interrogarsi, di abitare i conflitti. Insomma di svolgere un ruolo politico. Dovremmo rifletterci.
La seconda è strettamente connessa alla prima. Abitare i conflitti significa indagarli, comprenderne le dinamiche di potere, provare ad immaginare nuove e diverse narrazioni rispetto a quelle delle parti in conflitto. E’ il complesso lavoro dell’elaborazione del conflitto, quello che la cooperazione internazionale si guarda bene dal fare ma senza il quale il tempo rimane sospeso, le guerre si portano dentro e il passato non passa.
Nella costruzione di relazioni, nel cercare di favorire il dialogo, nel dare voce a chi ha il coraggio di tradire la propria parte c’è l’essenza di un impegno che prescinde dai progetti, perché le relazioni profonde non finiscono mai.
Disporsi alla meraviglia, aprire occhi e orecchie, essere presenti al proprio tempo. Con Enrico possiamo dire di averci provato.