Elezioni in Bosnia: nessuna sorpresa
Chi conosce la realtà dei Balcani e frequenta la Bosnia-Erzegovina non è rimasto sorpreso dalla vittoria dei nazionalisti, sia nella federazione sia nella entità serba. Un commento di Claudio Bazzocchi.
I risultati delle elezioni presidenziali bosniache ci consegnano un paese preda dei partiti nazionalisti. Chi conosce la realtà dei Balcani e frequenta la Bosnia-Erzegovina non è rimasto sorpreso dalla vittoria dei nazionalisti, sia nella federazione sia nella entità serba.
Chi scrive ha avuto modo di incontrare amici dell’SDP (il partito socialdemocratico), sia a Mostar sia a Sarajevo, che si mostravano molto preoccupati e pessimisti sull’esito delle elezioni di autunno. L’analisi che emergeva dalle loro preoccupazioni indicava nella sudditanza da parte dei partiti non nazionalisti al governo ai dettami di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che in questi anni hanno spinto per privatizzare i servizi sociali, imporre politiche economiche restrittive, senza un’idea di sviluppo autocentrato per il paese, la causa della possibile sconfitta.
Larghi strati della popolazione, non più garantiti da una solida rete di protezione sociale né dall’aiuto umanitario ormai in declino a sette anni dalla fine delle ostilità, si sono rivolti nuovamente alle signorie mafiose sul territorio legate ai partiti nazionalisti che, in nome dell’appartenenza etnica e dell’odio antioccidentale forniscono protezione sociale e politica ai ceti popolari su base etnica, con il contributo fattivo delle chiese locali.
Possiamo allora trovare qui un primo motivo utile a spiegare il rinnovato vigore dei partiti nazionalisti: l’essere riusciti a raccogliere il malcontento della popolazione per le politiche occidentali di cui i partiti al governo non sono stati altro che fedeli servitori, senza un’idea propria di sviluppo e di identità autonoma per il paese.
In secondo luogo dobbiamo considerare che a sette anni dalla firma degli Accordi di Dayton le politiche del sistema occidentale dell’aiuto umanitario sono clamorosamente fallite a fronte di uno sforzo gigantesco e di obiettivi che prevedevano la sconfitta dei nazionalismi e la ricostruzione del paese su basi laiche e multietniche. In Bosnia-Erzegovina la comunità internazionale ha impiegato risorse che vanno ben oltre lo sforzo del Piano Marshall, in proporzione dalle 5 alle 10 volte a seconda delle aree . Questo gigantesco sforzo non ha sortito gli effetti sperati. Ed anche questo non sorprende quegli analisti e quei commentatori che in questi anni hanno analizzato le politiche di ricostruzione della comunità internazionale nell’area.
È necessario partire, seppur brevemente, dagli Accordi di Dayton per capire il fallimento di tale sforzo finanziario di aiuto. Quegli accordi si basavano sulla convinzione delle cancellerie europee e degli Stati Uniti che le guerre balcaniche di fine secolo fossero il frutto di un odio endemico e di lunga data che poteva essere disinnescato solo con un compromesso fra i tre leader nazionalisti: Izetbegovic, Tudjman e Milosevic. La linea-guida che ha ispirato le diplomazie di quel tempo è stata allora, a proposito della Bosnia, quella della spartizione del paese in cantoni a predominanza etnica, anche a costo di enormi spostamenti di popolazione. In sostanza si diceva: tre nazionalismi irrimediabilmente in lotta tra loro producono un conflitto insanabile, tenuto a bada nei cinquant’anni precedenti solo dalla repressione comunista, che può essere ricomposto solo dal compromesso e quindi dalla spartizione del territorio. Era una linea che non ammetteva espressioni sociali e intellettuali contro la guerra, interessi materiali, questioni di sviluppo economico, giustizia sociale, riforma dello stato e delle istituzioni, ma solo una grande questione etnica che legittimava le leadership nazionalistiche – anch’esse interessate a non aprire il dibattito sulle suddette questioni – e faceva proprio il modo di procedere di Izetbegovic, Milosevic e Tudjman. La guerra nella ex-Jugoslavia è stata invece, secondo noi, una guerra in cui le classi dirigenti al potere dei vari stati sorti nel 1991, dalla Slovenia alla Macedonia, hanno utilizzato il conflitto per legittimare il proprio potere e spartirsi senza controllo democratico le spoglie della Jugoslavia e organizzare, tramite la guerra stessa, colossali traffici di armi, droga, valuta, carburante, esseri umani, ecc…
Quell’interpretazione della guerra ha rafforzato le élites nazionalistiche bosniache ed i loro protettori di Croazia e Serbia, tanto da essere chiamati a garanti degli Accordi a Dayton. Ha inoltre legittimato i nazionalismi riconoscendone implicitamente le aspirazioni, dal momento che le ha considerate degne di un accordo di compromesso.
Le nuove guerre sono così considerate come il prodotto di odi secolari o il risultato dell’avidità di pochi e corrotti leader. Tali guerre sarebbero causate da una combinazione di ignoranza, istituzioni deboli e scarsa attitudine al libero mercato e alla democrazia, considerate sempre inscindibili. La risposta del sistema occidentale è allora quella dell’intervento tramite un mix di "conflict resolution", sviluppo sostenibile e promozione della società civile. Le guerre sarebbero così un’aberrazione, un drammatico e temporaneo prezzo da pagare nella transizione verso lo sviluppo e la liberaldemocrazia. Le società colpite dalla guerra sono considerate comunque in transizione verso la liberaldemocrazia e la democrazia di mercato. Piuttosto che a un’analisi delle relazioni effettivamente esistenti sul terreno, ci si affida a scenari futuri desiderati e quasi inevitabili del processo di transizione. Quindi il paradigma di intervento dell’aiuto umanitario occidentale non si ferma a considerare gli attori locali e le nuove forme statuali e sociali da loro costruite, ma si concentrato sul cambiamento delle attitudini e delle mentalità delle popolazioni, affinché sappiano interpretare in modo adeguato il processo di transizione. La mancanza di analisi dei complessi politici emergenti nelle periferie della globalizzazione fa sì che gli interventi del sistema umanitario siano stati di tipo tecnico e uniforme, nei Balcani, come nell’est europeo, nel sud del Mediterraneo, come nell’Africa centrale.
Se il male di una società è transitorio e irrazionale, causato da pochi e riconosciuti motivi, allora le risposte del sistema umanitario occidentale saranno in ogni luogo simili e di tipo tecnico: democrazia liberale, diritti umani ed economia di mercato, aldilà dell’analisi specifica dei vari contesti locali. La soluzione è quindi sempre tecnica e non politica, e fa perno sul mitico rafforzamento della società civile, con il suo armamentario retorico: "capacity building", "empowerment", "training on sustainability", "transparency", "accountability" e così via.
Si sono così spesi nell’est europeo milioni e milioni di dollari per programmi centrati sulla società civile, che però non hanno dato i risultati previsti. Nei Balcani, per esempio, e la Bosnia lo sta a dimostrare, le società sono ancora ampiamente organizzate attorno all’appartenenza etnica e le autorità politiche locali sono in gran parte le stesse che sono state coinvolte nelle varie guerre che si sono succedute. Le soluzioni tecniche e apolitiche non hanno fatto così i conti con i veri problemi politici dell’area balcanica ed est-europea: le crisi, le guerre e la crescite delle economie-ombra e illegali sono una risposta socio-politica ed economica, per nulla transitoria anche se in continua evoluzione, alla marginalizzazione prodotta dalla globalizzazione nelle periferie.
La ripresa dei nazionalismi in Bosnia, ma potremmo dire la stessa cosa per tutta l’area – compresa la Croazia in cui l’HDZ si sta rafforzando giorno per giorno -, pone in modo forte un’altra questione irrisolta: su quali basi creare un’identità condivisa per uno stato giovane quale può essere la Bosnia-Erzegovina o altri dell’area balcanica? Le strade sono essenzialmente due: una fondata sull’identità etnica dei miti nazionalistici, l’altra basata su un progetto condiviso di società laica, in cui l’identità sia data dal processo di iniziative sociali e politiche per arrivare a tale società, e dai diritti sociali universali che la dovrebbero caratterizzare.
La prima strada, quella del nazionalismo, sarà sempre vincente se si opporrà ad essa la sterile e generica retorica dei diritti umani e del libero mercato che il sistema occidentale dell’aiuto umanitario ha proposto in questi anni per la ricostruzione del tessuto sociale e civile dei paesi balcanici. La filosofia dei diritti dell’uomo, nata peraltro all’interno di una cultura minoritaria nel pianeta – quella occidentale – elimina dalla pratica dell’intervento di solidarietà e cooperazione internazionale la questione del modo in cui una società si deve organizzare. Si possono vantare dei diritti se la società in cui si vive è democratica, e questa dovrebbe essere la questione centrale. Come ha scritto Pietro Barcellona, «la vera garanzia dei diritti è il modo concreto di essere della società, non la pura e semplice enunciazione di "principi astratti"». È ben strano che in Bosnia-Erzegovina la comunità internazionale non abbia pensato che proprio i diritti universali di cittadinanza, quelli sociali del welfare state potessero essere la base per la rinascita democratica del paese e per fondarne l’identità in senso laico e fortemente condiviso da tutti, così com’è stato per i paesi europei nel secondo dopoguerra dopo la catastrofe dei fascismi. Purtroppo non ci si è fermati a questo, si è fatto di più: si è progressivamente smantellato il welfare state, favorendo in tal modo le reti nazionalistico-mafiose di protezione sociale. Quasi nessuno, fra ONG e cooperazioni governative, per non parlare della Banca Mondiale, ha pensato che i diritti sociali universali, e quindi le politiche sociali, potessero essere un pilastro fondamentale delle politiche per il consolidamento della pace e per la democratizzazione del sistema politico e sociale bosniaco. Molte ONG hanno preferito porre molta più enfasi e molte più risorse sui programmi per la promozione di astratti diritti umani e per la creazione di sistemi di welfare privato, senza capire che in un territorio controllato da signorie mafiose e nazionaliste, che distribuiscono sicurezza sociale e protezione, possono essere proprio i diritti sociali e un sistema di welfare pubblico universale a scardinare le logiche di costruzione e mantenimento clientelare del consenso fra i cittadini.
Vorremmo proporre un’ultima riflessione per interpretare il risultato elettorale bosniaco. Potremmo provare a leggere il risultato all’interno dell’avanzata complessiva delle destre in Europa. Sappiamo che il candidato al cancellierato tedesco per il centrodestra, Edmund Stoiber, da poco sconfitto da Schröder, aveva stabilito nei mesi di campagna elettorale delle vere e proprie alleanze strategiche con i partiti razzisti e xenofobi dei paesi dell’Europa dell’est in funzione antiallargamento dell’Unione Europea ad est, progetto che caratterizza la presidenza di Romano Prodi. Sappiamo anche che Prodi è in questo momento molto solo nella sua idea di integrazione europea dei paesi dell’est, osteggiato sia dalle destre classiche, sia dalle destre xenofobe, al governo nella maggioranza dei paesi europei.
Dovremo quindi seguire nei prossimi mesi i movimenti delle destre europee di est e di ovest nella loro opera di ostruzione del processo di allargamento. La paura è che in questo momento alcuni governi e forze politiche dell’Unione Europea stiano scherzando col fuoco. Forse in qualche cancelleria europea l’altra sera hanno brindato…