Durazzo, porta dell’Albania

Una passeggiata per le vie di Durazzo fa emergere la ricca storia di questa città, dove passato e presente si affastellano e si intrecciano in modo inestricabile

07/06/2016, Fabrizio Polacco -

Durazzo-porta-dell-Albania

Vista sul porto di Durazzo - foto F. Polacco

La grossa aquila bicipite in bronzo che s’innalza al centro della rotatoria mi segnala che sono arrivato a Shesh Shqiponjë (piazza dell’Aquila), il terminal del pullman che mi porterà a destinazione. Dopo alcuni giorni passati nella capitale albanese, infatti, sono curioso di visitare un’altra città ben più antica e ricca di storia, quella che qui si chiama Durrës, la nostra Durazzo.

Chi arriva in aereo nel ‘Paese delle Aquile’ (Shqipëria, nome ufficiale dell’Albania) atterra in effetti non lontano da Tirana: e allora quel che vede scendendo è una conca verdeggiante, circondata a oriente dai monti – alti, piuttosto ripidi, primi avamposti della complicata orografia balcanica – e intervallata ad occidente da ondulate, piacevoli colline. Per questo motivo la capitale albanese, anche se non dista neppure una quarantina di chilometri dal mare, ha un’atmosfera e un clima quasi continentali.

E invece è dalla baia di Durazzo che si dovrebbe cominciare una prima visita in Albania: perché in fondo è stata sempre lì la vera porta di questo paese. O del mare Adriatico. O addirittura la ‘Porta dell’Illirico’, come in effetti è stata denominata questa città portuale nel corso della sua lunga, affascinante storia. Mentre il pullman fila verso il mare coi sedili affollati, vista la stagione, più da pendolari e da studenti che da turisti, ripercorro nella mente quel che mi aspetto dalla visita a Durazzo, solo per averne letto qualcosa dai libri: un anfiteatro romano, un museo archeologico, un foro bizantino, ecc, ecc.

L’odierna Rruga Egnatia a Durazzo (foto di Fabrizio Polacco)

Ma la differenza tra un viaggio virtuale e quello vero è anzitutto la sorpresa; e io la mia prima, piccola sorpresa, ce l’ho quando, appena giunto alla meta, scendo dal mezzo e attraverso la prima strada trafficata della città. Leggo una tabella bianca in mezzo all’incrocio: sono sulla Rruga Egnatia. E’ la via Egnazia, l’antica strada romana che collegava l’Italia e l’Occidente con l’Oriente, proseguendo poi per Salonicco e fino a Costantinopoli: in pratica, per chi lungo i secoli è sbarcato nelle banchine di questo porto ancor oggi molto trafficato (vi passa circa l’85 % delle importazioni ed esportazioni del paese), si tratta della prosecuzione al di là del mare dell’Appia Antica. Per me poi, che al principio della Via Appia, alle porte di Roma antica, sono nato, è quasi come prolungare al di là del mare le passeggiate adolescenziali dei lunghi pomeriggi estivi.

Durazzo (ma in antico si chiamava Epidamnus o Dyrrhachium) era uno dei due punti di partenza di questa arteria vitale per l’impero: l’altro era Apollonia, una sessantina di chilometri più a sud. Ma Apollonia è oggi solo un sito archeologico, mentre Durazzo – la vedo e la ascolto finalmente intorno a me – freme disordinatamente ancor oggi di vita e di commerci. Non per nulla un tempo era chiamata, un po’ per celia, la ‘Taverna dell’Adriatico’. A definirla così era il poeta Catullo – quello dei ‘mille baci’ a Lesbia – uno che di bella vita se ne intendeva. E anche un commediografo romano, Plauto, vi ambienta una vicenda curiosa: due gemelli siracusani identici tra loro, separati in tenera età e mai più congiunti, si ritrovano senza saperlo nei quartieri attorno al porto, generando così una gustosa ‘commedia degli []i’: titolo che sarà utilizzato da Shakespeare quando riciclerà il divertente soggetto.

Insomma, qui a Durazzo numerosi viaggiatori, marinai e commercianti provenienti da ogni dove, e in sostanza l’Oriente e l’Occidente, si incontravano. Oppure, talvolta, si dividevano.

Come quando Cesare iniziò da qui il duello decisivo con il rivale Pompeo: una estenuante partita a scacchi fu combattuta allora dai due eserciti, tra il mare e il lungo promontorio, parallelo alla costa, sul cui crinale fu fondata la nostra città.

O ancor più quando, dalla morte di Teodosio in poi (395 d.C.), l’impero romano si fratturò definitivamente in due parti, orientale ed occidentale: e la linea di demarcazione passava subito a nord di Durazzo. Prese così inizio quella separazione tra due Europe, quella dell’Est e quella dell’Ovest, che si trasformò presto nella divisione tra ortodossia e cattolicesimo, tra mondo greco-orientale-slavo e mondo latino-occidentale: una frattura che ancor oggi si tenta faticosamente di ricucire. Attraverso progetti come il Corridoio Transeuropeo numero 8, ad esempio: che dovrebbe collegare il ‘tacco d’Italia’ con il Mar Nero, avviando il suo tracciato balcanico appunto da qui, dal porto dell’antica Dyrrhachium. Tutto questo – ovvio – solo se l’Europa non andrà di nuovo in pezzi: un po’ come accadde alla morte di Teodosio.

Ma per tornare al nostro incrocio stradale: nessuno è davvero certo che proprio questo che oggi porta il suo nome, ingorgato dalle auto tra cui tento di attraversare, fosse il tracciato iniziale della antica Egnazia. Secondo una suggestiva ipotesi, invece, il punto d’inizio sarebbe stato sempre in città, ma più vicino al mare, dove è oggi uno dei resti archeologici più interessanti di Durazzo: il cosiddetto ‘Foro’ o ‘Macellum‘ bizantino. Quando vi giungo, scopro che anch’esso in fondo era una sorta di incrocio-rotatoria: circondato però da colonne, che in buona parte ancora biancheggiano snelle e silenziose tra condomini e uffici, proprio dietro la piazza della Bashkia, del Municipio: che è, invece, il ‘salotto buono’ dell’odierna Durazzo.

L’anfiteatro romano di Durazzo (foto di Fabrizio Polacco)

Il centro cittadino si trova ai piedi della propaggine meridionale del promontorio su cui Durazzo fu costruita: un pendio piuttosto ripido, che i Romani sfruttarono per erigervi quello che fu, secondo alcuni, il più grande anfiteatro dei Balcani (l’asse maggiore della sua ellisse è di 120 metri). E’ questo ‘Colosseo’ albanese che per prima cosa mi reco a visitare seguendo i marciapiedi della odierna Egnazia e poi tagliando per la piazza del Municipio, lastricata in pietra e ingentilita da moderne fontane. A differenza degli altri anfiteatri che conosciamo in Italia o nelle remote province dell’impero, questo era soltanto in parte elevato in muratura, poiché quasi tutto il suo emiciclo settentrionale si addossava al pendio roccioso del promontorio. Oggi è come un’oasi di pace in mezzo all’attivissima città, agevolmente visitabile e aperto anche nei giorni festivi, quale è quello in cui vi arrivo. Anche qui, una sorpresa: le case che pure lo circondano, al contrario di quanto pare di vedere in vecchie foto, non insistono proprio sulle sue gradinate, ed anzi le coronano in modo tutto sommato gradevole. Invece, quello che è quasi completamente andato perduto è il suo circuito in alzato, quello meridionale, dalla parte che digrada verso il mare.

Mentre esploro nell’ombra le gallerie di servizio del grande edificio romano, per metà murarie e per metà scavate nella roccia al di sotto delle antiche gradinate, mi soffermo ad ammirare i mosaici precedenti all’anno Mille di una chiesetta bizantina: sfruttando uno di questi ambienti ormai inutilizzati, venne installata tra le loro imponenti rovine. I volti frontali e gli occhi spalancati di dignitari, angeli e santi paiono accogliere senza turbarsi colui che li visita, rimandandolo ad una religiosità trascendente e quasi senza tempo. Alcune tombe della stessa epoca rivelano che il sito, come usava allora nei pressi dei luoghi santi, venne sfruttato anche come cimitero.

Mosaico della cappella bizantina nell’anfiteatro di Durazzo (foto di Fabrizio Polacco)

Quando torno all’aria aperta dell’arena, ad attirare la mia attenzione è un torrione possente e circolare che si erge al di sopra dell’emiciclo, ben oltre l’ala delle abitazioni. E’ coronato da una ringhiera, e alcuni ragazzi vi sostano con le gambe giù a penzoloni ad ammirare il panorama. Oggi le scuole fanno vacanza, e, sullo sfondo del cielo, quegli studenti in libera uscita sembrano beati d’essere circonfusi di vento e di sole: che finalmente ha iniziato a splendere, dopo i primi giorni che ho trascorso nella ‘continentale’ Tirana.

Una torre belvedere sull’antica fortezza di Durazzo (foto di Fabrizio Polacco)

Suppongo che da lassù si domini davvero la città ‘con uno sguardo’: così come Aristotele, nella sua ‘Politica’ affermava doversi ‘abbracciare’ una pòlis ellenica degna di questo nome. Ciò significava non solo dominarne in un colpo d’occhio – e quindi controllarne dall’acropoli – l’abitato ed il contado circostante: ma anche poterne conoscere personalmente e direttamente, date le ridotte dimensioni delle città-stato greche, tutti i cittadini: e quindi, continua il filosofo, poter meglio assieme ad essi confrontarsi liberamente ed alternarsi al potere, in quelle che furono le prime forme di autogoverno della storia.

‘Abbracciare con lo sguardo’ l’antica Epidamno, che fu appunto una colonia greca fondata tra il 628 e il 624 a.C., risulta per me più difficile del previsto. Pur se la torre mi appariva vicina in linea d’aria rispetto all’anfiteatro, non vi è una strada diretta o una scalinata che vi salga. Le casette cresciute disordinatamente lungo le pendici della rocca hanno privatizzato ogni accesso, e solo dopo alcuni tentativi infruttuosi trovo chi mi indica la strada giusta: una via asfaltata, che con un amplissimo curvone in salita arriva a prendere poi il torrione alle spalle. Da una passante che mi dà l’informazione vengo affidato ad una combriccola di giovani locali che proprio lassù si stanno recando: così almeno mi fanno capire in uno stentato inglese. La salita è erta, a riprova di quelle etimologie che davano il nome Durrhachium collegato al greco antico rhachìa, ‘litorale pietroso, scoglioso’, quindi alla ‘rachide’: una sporgenza o ‘spina dorsale’. Arrivati alla curva da cui poi svoltiamo all’indietro per avvicinarci al ciglio dell’altura, e lì accedere al nostro belvedere, mi accorgo che la strada prosegue dal lato opposto, diritta verso un altro punto spettacolare del promontorio: quello su cui troneggia la elegante dimora liberty fatta costruire da re Zog, colui che dovette cedere l’Albania agli italiani nel 1939.

La lunga ascesa verrà premiata quando, sempre seguendo i miei occasionali accompagnatori, giungo con loro sopra l’agognato torrione. A qual punto, l’intera città e l’ampio golfo su cui fu fondata sono ai miei piedi. Lo sguardo spazia quasi a 360 gradi, e resto ammirato dalla bellezza del sito. I grattacieli sorti negli ultimi decenni in modo disordinato e secondo bizzarre fantasie architettoniche non riescono a nascondere l’impianto straordinario dell’antica fondazione. Un’ampia baia sull’Adriatico, un bacino portuale sicuro, un’acropoli ben difendibile e un po’ di campagna fertile intorno, con un piccolo fiume che l’attraversa. E’ la topografia tipica delle antiche colonie elleniche.

Ma va detto che gli Elleni non costruirono sul nulla: prima di essi, assieme ad essi, qui c’erano gli Illiri, popolo diviso in tante tribù (le vie di Durazzo ne rammentano ancora il nome, come quella dei Taulanti) fiere e bellicose, ma insieme pronte anche a fondersi e a commerciare coi nuovi arrivati: che, come spesso accade per i profughi attuali, erano quasi tutti maschi. E pure gli albanesi di oggi sono del resto fieri di ricordare che non sono, come i loro più immediati vicini, slavi, e neppure greci; ma, più o meno direttamente, Illiri. Nel Museo Archeologico sorto in prossimità del lungomare nel 2002 (proprio in Via dei Taulanti) si possono ammirare  i cippi marmorei che ne ricordavano i nomi, come segnacoli sulle tombe. Sono tutti scritti in greco antico: gli Illiri, come altri popoli balcanici, non avevano un proprio sistema di scrittura; ma l’onomastica non è affatto greca. E così, ancor oggi possiamo chiamare con gli stessi suoni di oltre due millenni fa i vari Plator, Eortais, Boiken, Teuta…

Anche i miei giovani accompagnatori adesso mi si presentano: con quella bella varietà di nomi, di diversa origine etnica e linguistica, che caratterizza ancor oggi le carte d’identità albanesi. Hanno finalmente estratto dalle loro sacche dei grossi bottiglioni di birra, e me la offrono, proponendomi un brindisi inatteso qui sopra la terra e il mare dell’Albania: rendendo inconsapevolmente omaggio al nomignolo affettuoso di questa città, la Taverna dell’Adriatico. Mi illustrano i luoghi circostanti, gli edifici antichi e moderni; mostrano con orgoglio una grande bandiera albanese che garrisce tesa su un ciglio lì vicino, e non hanno pace finché non la fotografo. Con espressioni più da tifo calcistico che propriamente politiche mi dicono che no, loro non tiferebbero affatto né per i loro vicini serbi, né per quelli greci.

Panoramica di Durazzo (foto di Fabrizio Polacco)

E’ certo che, come i loro immediati confinanti, anche gli albanesi non difettano di orgoglio nazionale, un orgoglio che talvolta si trasforma in acceso nazionalismo. Qui a Durazzo, poi, non va dimenticato, nacque nel 1272 il primo Regnum Albaniae, proclamatovi da Carlo d’Angiò: evento che portò così ufficialmente alla luce del sole un nome, quello dell’Arberia (poi Albania) che ritroviamo anche nel nome della lingua Arbëreshë, ancora parlata dagli albanesi ‘storici’ installati da secoli in Italia meridionale: da quando vi giunsero, profughi, dopo la morte di Skanderberg, l’eroe della lotta anti-ottomana.

Saluto e lascio ai loro festeggiamenti i miei giovani accompagnatori, e ridiscendo verso il mare lungo quanto resta delle mura bizantine, poi veneziane, e infine ottomane. Torri pentagonali sono intervallate, nei punti salienti, da grandi torrioni circolari. Si raccontava che le antiche mura medievali di Durazzo fossero talmente spesse e robuste che quattro cavalieri, affiancati ed armati di tutto punto, potevano cavalcare agevolmente sugli spalti. Del resto, in questo centro dell’Adriatico era nato uno dei primi imperatori romani d’Oriente, uno che di sistemi difensivi se ne intendeva: Anastasio I, che recinse di un vallo di sessanta chilometri la penisola tracica più orientale al fine di proteggere dai barbari la capitale imperiale, Costantinopoli.

Arrivo sul lungomare: nonostante il vento freddo che tira da nordovest, vi si avverte un’atmosfera più rilassata, quasi vacanziera. Al di là dell’orizzonte marino, il porto di Brindisi dista, come scrivevano i geografi antichi, ‘mille stadi’. Sembrerebbero tanti: ma se si pensa che un antico ‘stadio’ corrisponde a circa 180-190 metri, la distanza che un corridore percorre in una manciata di secondi, ecco che si capisce perché tanta storia sia passata di qui. E questi chilometri, visti da un aereo in volo sembrano davvero un piccolo balzo: una manciata di minuti appena oltre il tacco d’Italia, poco più in là di Brindisi e appena più su del Salento.

Due grossi guerrieri in cemento che si affrontano in duello lungo la passeggiata, frutto di chissà quale rievocazione storica delle imprese degli Illiri, ospitano sul loro piedistallo una famigliola intenda ad un pic-nic. Venditori di palloncini colorati, aquiloni tesi all’aria, automobiline elettriche per bambini e tanti gruppi di adolescenti intenti allo ‘struscio’ dei giorni festivi sfilano davanti ai caffè e ai ristoranti del lungomare, che osano esporre all’esterno i primi tavolini di una stagione che certo verrà.

Sculture moderne sul lungomare di Durazzo, detto Vollga (foto di Fabrizio Polacco)

Qui nella greca Epidamno, 2400 anni fa, un banale contrasto politico insorto tra aristocratici e democratici – che evidentemente non riuscivano ad ‘alternarsi al potere’ – degenerò dapprima in una guerra civile; poi in rispettive richieste di aiuto militare alle due madrepatrie della città: che erano Corcira (l’isola di Corfù) e Corinto. A loro volta, visto che nessuna riusciva a prevalere sull’altra, le due maggiori contendenti chiesero aiuto alle rispettive alleate, ancor più potenti di loro: Atene e Sparta. Ne nacque un conflitto generale di quasi trent’anni, che i libri di storia riportano con il nome di guerra del Peloponneso. Fu la guerra che segnò la catastrofe di Atene e, in sostanza, il declino del mondo classico.

Le impressioni, i ricordi, il passato e il presente si affastellano e si intrecciano in modo inestricabile, passeggiando con il cuore leggero a primavera per le vie di Durazzo.

 

 

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