“Duemila anni”: oblio, persecuzione e memoria degli ebrei di Romania

Un romanzo e un autore caduti nell’oblio, e ora riscoperti: con "Duemila anni" Mihail Sebastian racconta le persecuzioni della Romania sotto il regime fascista di Antonescu

24/09/2018, Diego Zandel -

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Famiglia di ebrei rumeni, ritratto

Ci sono scrittori che improvvisamente riappaiono dall’oblio, o dal nulla, scomparsi anni e anni addietro, pur avendo avuto una loro importanza, almeno in patria, quand’erano in vita. Sarebbe interessante scoprire la genesi di queste riscoperte. E’ il caso dello scrittore romeno Mihail Sebastian, del quale l’editore Fazi ha pubblicato una delle sue opere maggiori “Da duemila anni”, nella traduzione di Maria Luisa Lombardo.

Chi è Mihail Sebastian? Le scarse note biografiche ci dicono che è lo pseudonimo di Iosif Hechter, nato a Brăila, in Romania nel 1907. Prima di diventare scrittore aveva studiato giurisprudenza e aveva esercitato la professione di avvocato, ma poi la passione per lo scrivere divenne così forte da dedicarsi esclusivamente ad essa, in particolare nel campo della drammaturgia teatrale. Ma scrisse anche romanzi e partecipò, finché poté, alla vita culturale del suo paese.

Morì investito da un camion nel 1945, mentre aspettava il tram che lo avrebbe portato all’università di Bucarest dove insegnava, pochi giorni dopo l’entrata dell’Armata Rossa che avrebbe rovesciato il paese fino a un anno prima tenuto in mano dal maresciallo Mihai Ion Antonescu, falangista, ovvero fascista, che diede il via a una feroce campagna antisemita nel corso della quale trovarono morte migliaia di ebrei.

E Iosif Hechter, alias Mihail Sebastian, nome con il quale sarebbe passato alla storia della letteratura romena, ma anche come veniva comunemente chiamato, era ebreo, tanto da essere, come i suoi correligionari, oggetto di persecuzione, a un certo punto diventata tanto feroce da costringerlo a nascondersi e andare a vivere in sordide baracche.

“Da duemila anni”, uscito nel 1934, è forse il suo libro più importante e parla di queste persecuzioni. Perché, per restare al titolo, erano già duemila anni, negli anni in cui è ambientato il libro di Sebastian, che gli ebrei erano perseguitati. E il titolo non ha solo questa spiegazione ma anche, da come emerge dall’intero racconto, quella che spiega una certa rassegnazione, da parte del protagonista, uno studente ebreo, a subire le angherie in quanto ebreo.

Il romanzo è diviso in varie parti e le prime hanno la struttura del diario intimo che il protagonista tiene raccontando, quasi con distacco, ma con prosa elegante, l’atmosfera del tempo, quando lui, come gli altri, veniva preso di mira quotidianamente dai falangisti e picchiato. Lo fa con un passo narrativo che nelle parti successive si allarga dal diario al racconto disteso e che testimonia doti letterarie non comuni per cui viene da chiederci ancora una volta le ragioni di una così tardiva sua riscoperta.

Pensavo a un autore minore, ma sono andato a rispolverare i miei libri di Mircea Eliade, un gigante della cultura romena, studioso di religioni e narratore, coevo di Sebastian, al contrario di lui esponente del regime falangista, fino a rappresentarlo in sedi diplomatiche come addetto culturale a Londra e poi a Lisbona, ammiratore del dittatore Salazar. E nelle sue straordinarie “Memorie”, Mircea Eliade nomina spesso Sebastian, insieme al quale condivideva le giornate, entrambi esponenti della società degli scrittori che provvedeva, grazie alla volontà del generale Condeescu, al loro sostentamento, tanto da seguirne il feretro al suo funerale.

C’è da chiedersi come due uomini dalle posizioni così diverse come Mircea Eliade e Mihail Sebastian potessero convivere. Tanto più che “Da duemila anni” non fa sconti alla violenza antisemita. E’ vero, la posizione degli ebrei in quei frangenti non è unanime. Ci sono, tra loro, i sionisti e gli anti-sionisti (“Non vedete che tutto quest’affare non è altro che una macchinazione inglese, una trappola capitalista che andrà a discapito degli arabi, degli indigeni massacrati e dei proletari ebrei delle colonie che verranno sfruttati crudelmente in nome dell’ideale nazionale? La Gran Bretagna ha bisogno di un uomo di fiducia che gli sorvegli il Canale di Suez ed è per questo che si inventa la fiaba del ‘focolare nazionale ebraico’”, gli dice, tra l’altro, un amico ebreo marxista).

Le discussioni, i dubbi s’intrecciano nel corso del romanzo, negli incontri tra gli studenti, mentre lui vive nel mito del professor Ghită Blidaru di cui va ad ascoltare le lezioni, a dispetto dei picchiatori falangisti che gli bloccano il passo. Eppure non demorde nel suo insistere, a un certo momento protetto dallo stesso professor Blidaru, ponendosi in una sorta di limbo tutto personale, nella quale restare immune da quanto vede intorno e subisce. “Per il momento, durante la lezione di oggi, ho ricevuto due pugni e ho preso otto pagine di appunti. Dopo due pugni non è affatto male.”

Alla fine del romanzo si ha questa forte impressione dell’ambiente nel quale Mihail Sebastian ha saputo calare il lettore: ambiente violento, manesco, in una cornice di grande cultura, di grandi discussioni intellettuali, di personaggi controversi, portatori ciascuno di visioni diverse in cui si mescolano anche opposte tensioni tra l’orgoglio o la vergogna di essere ebrei, il manifestarlo o il nasconderlo, e l’antisemitismo circostante a cui le distinzioni e i conflitti e le inquietudini che attraversano la coscienza dei singoli ebrei, che sembrano essere gli unici esseri pensanti, non interessano, perché per loro sei solo un ebreo e meriti di morire.

Al che, avendo riletto per l’occasione Mircea Eliade che col tempo e il rifugio negli Stati Uniti ha riveduto le sue giovanili posizioni, c’è da chiedersi quanta mistificazione ci sia nello giustificare, ieri come oggi, le violenze contro una parte dell’umanità. Scrive infatti Eliade nelle sue Memorie, riportandosi con queste all’epoca in cui il fascismo romeno dominava il paese: “Il Movimento legionario aveva una struttura e una vocazione di setta mistica e non di movimento politico (…) lo scopo supremo del Movimento legionario non era neppure la redenzione individuale attraverso un eventuale martirio ma la ‘resurrezione della nazione’ conquistata grazie a un ‘accumulo di torture e di sacrifici sanguinosi’”.

Ben inteso, inflitte invece agli ebrei, come il romanzo di Mihail Sebastian ben testimonia, nonostante Eliade aggiudichi questi sacrifici ai “mistici” legionari.

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