Dubbi e rimozioni
”Non siamo riusciti a mettere una parola fine al comunismo in modo chiaro, e questo è fonte di confusione, ma anche di frustrazione”. L’89, la rivoluzione ambigua, i romeni e l’Europa: intervista a Mircea Vasilescu
Mircea Vasilescu, nato nel 1960, è professore associato alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bucarest, caporedattore del settimanale "Dilema Veche" e del mensile "Dilemateca". Tra le sue pubblicazioni "Lubite cetitoriule. Lectură, public şi comunicare în cultura română veche" ("Caro lettore. Lettura, pubblico e comunicazione nella cultura romena classica"), Paralela 45, Bucarest, 2001; "Mass-CoMedia", Curtea Veche, Bucarest, 2001; "Europa dumitale. Dus-întors între noi" şi ei", Editura Polirom, Bucarest, 2007.
Ha tradotto in romeno François Furet, "Penser la Révolution Française" (Bucharest, Humanitas, 1992); Michel Foucault, "Les mots et les choses" (Bucarest, Univers, 1995) e "Histoire de la follie à l’âge classique" (Bucarest, Humanitas, 1996); Sergio Romano, "Cinquant’anni di storia mondiale" (Bucarest, EFCR, 1999).
Per l’Europa il simbolo condiviso dei fatti dell’89 è la caduta del muro di Berlino. In quel momento, però, la Romania viveva una situazione di particolare isolamento, anche nei confronti del blocco ex-sovietico. Come ha vissuto il paese questo avvenimento storico?
Nel momento in cui il muro è caduto, il processo di riforme democratiche era partito in quasi tutti i paesi comunisti dell’Europa orientale. In Romania, invece, tutto sembrava bloccato, tanto che in concomitanza con la caduta del muro, a Bucarest si teneva il XIV° congresso del Partito comunista romeno. Le notizie di quanto accadeva a Berlino, censurate dal regime, arrivarono attraverso Radio Free Europe, oppure col passaparola, da parenti e amici che vivevano all’estero. Quei giorni di inizio novembre ebbero senza dubbio un peso simbolico importante anche da noi, ma credo che il sentimento più diffuso, allora, fosse quello della delusione: vedevamo il mondo intorno a noi cambiare drasticamente, mentre in Romania tutto restava immobile.
Eppure, appena un mese più tardi, anche il regime di Ceauşescu sarebbe crollato. E’ possibile affermare che "la caduta del muro" per la Romania è rappresentata dalla prima manifestazione di piazza, quella di Timişoara del 16 dicembre 1989?
Sì, per la Romania quel momento rappresenta la rottura, ma anche la sorpresa, visto che pochi, credo, si aspettavano che ci potessero essere manifestazioni di piazza di quella portata. Nonostante l’ennesimo tentativo di censura, la notizia di quello che accadeva a Timişoara filtrò, preparando il campo alla "scena finale" con cui scese il sipario sul regime: la manifestazione di Bucarest del 21 dicembre, seguita dalla fuga di Ceauşescu e di sua moglie il giorno dopo, e dalla loro esecuzione il 25 dicembre.
Lei era a Bucarest in quei giorni? Qual è il suo ricordo personale di quei momenti?
Sì, ero a Bucarest. Ricordo la gioia delle persone, centinaia di migliaia, scese in strada. Una gioia diffusa e visibile. Poi naturalmente ricordo la confusione scoppiata con la comparsa dei misteriosi "t[]isti", le sparatorie e i morti, la "piccola guerra civile" per le strade della città, ancora oggi circondata da un alone di mistero e di dubbi, nonostante il lavoro di una commissione speciale del parlamento e di molte indagini giornalistiche. Chi provocò i più di mille morti che segnarono la rivoluzione? Chi erano i t[]isti? Perché nessuno di loro è mai stato individuato? Non c’è alcuna conclusione o verità ufficiale sulla realtà di quei giorni.
Le due letture più accreditate di quegli eventi parlano da una parte di "rivoluzione spontanea", dall’altra di "colpo di palazzo", promosso dalle seconde linee del Partito comunista per accreditarsi come nuova classe dirigente. A vent’anni di distanza, in Romania si è arrivati ad una lettura condivisa di quegli avvenimenti?
Oggi, purtroppo, la società romena ha in gran parte accantonato e rimosso le domande relative a quei giorni. Non si è arrivati ad alcuna interpretazione veramente condivisa, e permangono visioni polarizzate e distanti su quanto successo nel dicembre ’89. Dal mio punto di vista entrambe le teorie restano valide, e non si escludono a vicenda. Probabilmente alla "rivoluzione spontanea", che c’è stata, senza ombra di dubbio, si è affiancato un colpo di stato nato all’interno dello stesso Partito comunista romeno e appoggiato dai servizi segreti sovietici e di alcuni paesi occidentali.
E le istituzioni come hanno rielaborato la rivoluzione? Oggi questa svolge il ruolo di "mito fondante" della nuova statualità romena?
Sì, per le istituzioni il 21 e 22 dicembre vengono visti come punto di riferimento, come data di nascita ufficiale per il nuovo stato democratico romeno. Questo viene ribadito con varie forme di celebrazione civile, basti pensare che quasi tutte le città romene hanno oggi almeno una via o una piazza intitolata al 21 dicembre.
Tornando al 1989, perché secondo lei la Romania è stato l’unico paese del Patto di Varsavia a conoscere una transizione politica violenta?
Perché il regime in Romania è stato più duro che altrove, ma anche perché qui più che altrove la popolazione era sfiduciata e impaurita. Il modello di controllo sociale e politico in Romania non era molto diverso dagli altri paesi ex-comunisti. Qui più che altrove, però, i servizi segreti, la Securitate, erano riusciti a creare l’immagine di essere in grado di esercitare un controllo assoluto su tutto e su tutti. In Romania, poi, tranne alcuni casi isolati, non ci sono stati episodi di dissidenza e lotta organizzata al regime. Quando alla fine la popolazione ha deciso che le cose non potevano andare avanti, non c’era una alternativa politica pronta a traghettare il paese verso un nuovo sistema, e quindi l’insoddisfazione e la voglia di cambiamento hanno trovato sfogo nella violenza.
Qual è stato il ruolo degli intellettuali romeni in quegli anni di cambiamento?
Il contributo degli intellettuali è iniziato già negli anni ’80: i pochi episodi di dissidenza registrati in Romania hanno avuto infatti per protagonisti proprio degli intellettuali, come il poeta Mircea Dinescu e il filosofo Andrei Pleşu. Poi naturalmente, subito dopo il crollo del regime, gli intellettuali sono stati molto attivi nel dibattito sulla direzione che avrebbe dovuto prendere il paese, svolgendo il ruolo di coscienza civile soprattutto attraverso la stampa, che nei primi anni di transizione ha avuto un impatto molto forte sulla società. Alcuni hanno anche intrapreso la strada della politica attiva. Nel 1992 venne fondato un partito pieno di intellettuali il Partito dell’Alleanza Civica, presieduto dallo storico letterario Nicolae Manolescu. Nel 1996, poi, l’ex rettore dell’Università di Bucarest, Emil Constantinescu, è divenuto presidente della Repubblica. Da quel momento, però, l’influenza degli intellettuali nella vita pubblica e politica del paese è andato scemando, e quasi tutti sono tornati a fare il proprio mestiere. Oggi molti intellettuali fanno gli opinionisti sui quotidiani, ma direi che le loro voci non riescono più ad incidere come facevano una volta. In Romania ora i giornali si leggono poco e il pubblico segue molto la televisione, dove gli intellettuali di spicco non sono invitati quasi mai.
Qual è oggi il rapporto della Romania con la figura di Nicolae Ceauşescu?
All’inizio degli anni ’90 bastava citare il suo nome per scatenare in Romania polemiche molto accese, ma poco fondate su fatti storici. Oggi le cose sono cambiate, e di quel periodo si riesce a discutere con più calma. Esiste un fenomeno, anche se piuttosto limitato, di nostalgia, ma soprattutto c’è molta confusione nel giudizio sulla figura di Ceauşescu, soprattutto perché non si è riusciti a definire con precisione il suo reale ruolo e le sue responsabilità storiche. Per le nuove generazioni, poi, si tratta di una figura che fa parte di un mondo lontano, incomprensibile e in qualche modo grottesco. Mio figlio, che ha 16 anni, ride quando vede i filmati di Ceauşescu. "Ma è ridicolo, come poteva quest’uomo essere un dittatore?", mi chiede.
Quanto ha contribuito l’ affrettata condanna a morte di Ceauşescu alla confusione che resta oggi sulla sua figura storica?
Sulla necessità di quel processo e di quella condanna a morte affrettata si discute ancora oggi. Di certo un processo "vero" a Ceauşescu avrebbe avuto una grande importanza simbolica, e avrebbe aiutato a separare in modo più chiaro il passato dal presente di questo paese. Ma al di là del processo al dittatore Ceauşescu, in Romania è mancato un "processo al comunismo", che fosse almeno morale, se non politico e giuridico. Nel dicembre del 2006 l’attuale presidente Traian Băsescu ha condannato in parlamento il regime comunista come "illegittimo e criminale", basandosi su un rapporto elaborato da una commissione presieduta da Vladimir Tismăneanu, professore di Scienze politiche all’Università del Maryland. Questo atto, però, è rimasto senza alcuna conseguenza pratica, nonostante alcune misure fossero state caldeggiate dalla commissione stessa. Anche il progetto di legge sulla lustrazione, elaborato nel 2005 dal Partito liberale, non è neppure mai arrivato in parlamento.
Lei ha scritto che una delle forze motrici che ha guidato la società romena durante gli anni difficili della transizione è stata la "voglia di normalità". Secondo lei, con l’ingresso del paese nell’Ue, questa agognata normalità è stata raggiunta?
La nostra storia ha dimostrato che la società romena ha una grande capacità di adattamento, una tesi sostenuta anche dal filosofo Mihail Ralea, negli anni ’30, che l’ha elevata addirittura a suo tratto più caratteristico. Dopo i primi e confusi anni della transizione, la prospettiva europea è stata presto accolta come la strada da seguire. Da quel momento le cose sono migliorate in fretta, sia nella prospettiva di democratizzazione che dal punto di vista economico. Possiamo dire che l’ingresso nell’Ue abbia portato, almeno in parte, la "normalità" di cui parlavo. Oggi abbiamo una società e istituzioni che somigliano a quelle europee occidentali, c’è libertà di parola e di movimento. Lo stesso vale per la vita di tutti i giorni: i romeni hanno scoperto la "normalità" del consumismo, che a tratti è sfrenato, forse anche per compensare gli anni di razionamento e miseria degli anni finali del regime.
Ma è questa la normalità che sognavano i romeni a partire dalla rivoluzione del 1989?
Sì, almeno per buona parte della popolazione. Questo non significa però che la società non si porti dietro ombre e problemi irrisolti. Come dicevo, non siamo riusciti a mettere una parola fine al comunismo in modo chiaro, e questo è fonte di confusione, ma anche di frustrazione. Pesano ancora le troppe domande irrisolte sul perché sono morti in tanti nel dicembre ’89, ma anche l’aver visto in questi anni molti ex agenti della Securitate divenire i nuovi capitalisti, o riciclarsi nell’establishment politico. Naturalmente è esagerato dire che "non è cambiato nulla" e che "a comandare sono sempre gli stessi", eppure questo è un sentimento diffuso che oggi permea buona parte della società romena.
C’è chi legge oggi l’esperienza del regime comunista come un "corpo estraneo" nel percorso storico della Romania, un’esperienza da rimuovere totalmente, per quanto possibile. Qual è la sua posizione al riguardo?
Credo che, nonostante il giudizio storico negativo sul regime, sia impossibile cancellare quarant’anni di storia, quarant’anni in cui la società è cambiata profondamente, così come sono cambiate le vite di tante persone. La vera questione aperta è la capacità di andare oltre un giudizio in bianco e nero su quel periodo storico, che viene spesso rivisitato come del tutto positivo o negativo. L’evoluzione del regime comunista è invece un fenomeno complesso, che ha conosciuto fasi diverse, come il duro periodo stalinista degli anni ’50 e il relativo ammorbidimento del periodo 1965-73, in cui le espressioni artistiche e di dissenso hanno goduto di una qualche forma di timida libertà.
Una caratteristica peculiare del regime comunista in Romania è stato il grado di intervento sull’organizzazione non solo sociale e politica, ma anche spaziale e urbanistica. Come gestisce oggi la Romania l’eredità di quell’esperimento, di cui l’enorme "Palazzo del Popolo" (oggi "Palazzo del Parlamento") a Bucarest è sicuramente il simbolo più noto?
Vista la mancanza di un giudizio storico sul comunismo e la confusione di cui parlavo, la tendenza è quella di appropriarsi di quell’eredità, tentando in qualche modo di modificarne la valenza simbolica. Oltre al parlamento, ad esempio, oggi il "Palazzo del Popolo" ospita anche il museo d’arte moderna, nel tentativo di riciclare il "mostro" e nobilitarlo per scopi lontani da quello per cui venne progettato. La creazione del palazzo ebbe un impatto devastante sulla città. Per fargli spazio venne demolito il 20% degli edifici di Bucarest, in una delle sue parti storiche di maggiore bellezza e valenza storica. Il progetto, oltre a una cifra spaventosa di denaro, costò la vita di molte persone impegnate nella sua costruzione. Oggi però tutto questo viene dimenticato in fretta. Nel dibattito degli anni ’90 c’è chi propose di demolirlo. La cosa però, anche volendo, sarebbe molto difficile da realizzare, se non impossibile, vista l’enorme massa dell’edificio.
A venti anni dal 1989, secondo lei esiste ancora un muro tra Europa orientale ed occidentale?
Credo che non esista più il "grande muro" tra est e ovest. Esistono però ancora piccoli muri tra le due parti del continente europeo. Ad esempio, ci sono chiare differenze nello sviluppo economico. Alcuni paesi dell’Europa orientale si sono lentamente avvicinati agli standard dell’ovest, ma non abbastanza da impedire massicci fenomeni di migrazione, che hanno portato a problemi di ordine sociale e politico, come quelli relativi alla comunità romena in Italia. C’è poi un modo diverso di fare politica. In Occidente c’è più stabilità, anche grazie ad una tradizione ed esperienza democratica e ad una capacità amministrativa che nei paesi dell’Europa orientale sono meno radicate. In tutti o quasi i paesi ex-comunisti la politica viene collegata a fenomeni di corruzione, e questo ha portato ad un generale clima di sfiducia verso le istituzioni, fenomeno che viene riflesso, in alcuni paesi, nei bassi tassi di affluenza alle urne. Concludendo, direi che tra est e ovest pesa ancora l’eredità del nostro passato recente, che è diverso. Credo che dobbiamo ancora fare degli sforzi per riuscire a comunicare e ad elaborare insieme le diverse esperienze che abbiamo vissuto da una parte e dall’altra della Cortina di ferro.
E’ possibile una celebrazione comune europea dei fatti dell’89?
Secondo me, nonostante il peso delle diverse eredità storiche di cui parlavo, esiste un punto comune su cui gli europei possono celebrare insieme gli eventi del 1989, e cioè il trionfo della democrazia e della libertà. In fondo, il percorso di costruzione di un’unica Europa è diretta conseguenza di quella vittoria.