Drago Hedl: affrontare l’impensabile

Raccontare l’indicibile, la morte di un figlio che ha deciso di togliersi la vita: con "Matija" Drago Hedl mette la sua anima a nudo di fronte alla tragedia più grande che può toccare ad un padre. Un libro che, insieme, parla della morte e della bellezza della vita

06/06/2025, Barbara Matejčić -

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Drago Hedl, Rijeka 2025 - Sanja Prodan (Art Kvart - CC 3.0 Croatia )

(Originariamente pubblicato da Nada )

“Pensavo di saper maneggiare le parole assai abilmente, pensavo che il lavoro che facevo me lo avesse insegnato. Però non riuscivo affatto a cogliere con la mente quello che dovevo dire. Non lo comprendevo. Come si fa ad esprimere a parole ciò che non si comprende? Come formulare la frase, come iniziarla se non si crede nel suo contenuto?”.

Si apre così l’ultimo libro di Drago Hedl, “Matija”, dedicato al suo unico figlio. È mattina presto, siamo a Osijek e lo scrittore deve suonare il campanello di casa della sua ex moglie, la madre di Matija, appena svegliata, e dirle che il loro figlio non c’è più. Dire l’impensabile.

Da quel momento, Hedl tiene un diario in cui la disperazione si intreccia con i ricordi impregnati di amore, ricordi che ripercorrono la vita di suo figlio, dal momento del concepimento agli studi e alla vita adulta fatta di sacrifici in America, passando per l’infanzia di quel ragazzo brillante ed esemplare.

Poi la morte. Matija Hedl, scienziato e biochimico dell’Università di Yale, a New Haven, si è tolto la vita nel 2018 all’età di 43 anni.

Il libro, edito da Telegram, è diviso in trentasette capitoli, tanti quanti i giorni trascorsi dalla morte di Matija all’arrivo della sua salma in Croazia, dopo un’estenuante lotta dei suoi genitori con la burocrazia americana.

Drago Hedl scrive da sempre. Laureato in lettere a Osijek, dopo una prima collaborazione con la rivista letteraria Revija, dal 1980 si dedica al giornalismo, indagando in particolare i crimini di guerra che hanno stravolto la storia contemporanea dei popoli jugoslavi. Il suo impegno giornalistico è stato premiato con numerosi riconoscimenti internazionali.

Drago è anche uno scrittore prolifico, con una spiccata predilezione per i gialli. Tuttavia, come afferma lui stesso, nulla è stato così doloroso e prezioso allo stesso tempo come scrivere “Matija”. Un libro importante, anche perché tratta un argomento che la nostra società ancora non sa come affrontare, mentre ogni anno solo in Croazia più di cinquecento persone decidono di porre fine alla propria vita.

Lei ha a più riprese dichiarato che con questo libro ha voluto aiutare le famiglie che si trovano o, purtroppo, si troveranno ad affrontare l’esperienza del suicidio di una persona cara. Assumendo una prospettiva più intima, cosa ha significato per lei il processo di scrittura?

Non è stato facile scrivere un libro sull’evento più terribile della mia vita – la morte improvvisa di mio figlio – perché ho dovuto rievocare tutti i dettagli di questa storia dolorosa, straziante.

Tuttavia, in occasione della presentazione del libro nello spazio culturale “Lauba” a Zagabria, in una sala gremita, mentre firmavo le copie due persone mi hanno raccontato di aver vissuto un’analoga esperienza nella propria famiglia. Poi una donna si è confidata con me, affermando che sua figlia soffriva di una grave forma di depressione, quasi non le parlava più, si era chiusa in se stessa, peggio di un guscio.

Dopo la presentazione del libro, una giovane coppia mi ha detto che da quel momento in poi ameranno ancora di più i loro figli, si prenderanno cura di loro e presteranno attenzione anche ai più piccoli segnali di potenziali problemi. Le reazioni di queste persone mi hanno aiutato, convincendomi che valeva la pena scrivere “Matija”. Dopotutto, il mio doloroso viaggio indietro nel tempo fino al giorno di quel tragico evento, avvenuto più di sei anni fa, il 14 ottobre 2018, aveva un senso.

Dopo la morte di Matija e durante la scrittura del libro lei ha attinto a qualche testo specialistico nel tentativo di comprendere e affrontare quanto accaduto?

Appresa la notizia della morte di nostro figlio, la madre di Matija e io eravamo completamente devastati e smarriti. Non sapevamo a chi rivolgerci. Non c’era nessuno che ci potesse spiegare come continuare a vivere, come trovare un senso nella vita che avevamo ancora davanti a noi, una vita senza Matija. Quindi, siamo stati costretti a cercare risposte da soli. E non le abbiamo trovate. Le lettere d’addio di Matija, quelle che ha lasciato a sua madre e a me, hanno risposto solo in parte ai nostri interrogativi.

Matija era una creatura meravigliosa, sapeva quanto avremmo sofferto, quindi ha cercato di alleviare il nostro dolore spiegando che la sua morte andava intesa come la ricerca della pace. Quella pace, che non era mai riuscito a trovare nella vita, l’ha trovata nella morte. È stato difficile accettare che per Matija morire era più facile che vivere.

Nel suo Predsmrtni dnevnik [Il diario di chi sta per morire], Igor Mandić scrive che dopo la morte di sua figlia è stato stigmatizzato come “padre di una suicida”. Uno stigma che spinge molte persone a nascondere il suicidio di un membro della propria famiglia, così quelle morti restano avvolte da un velo di silenzio, talvolta anche di menzogne. Scrivendo “Matija” lei ha cercato anche di rompere questo stigma e aprire un dibattito pubblico più ampio sul suicidio?

“Samoubojica”, l’unico termine utilizzato nella lingua croata per indicare una persona che si toglie deliberatamente la vita, è una parola pesante e accusatoria. Già solo pronunciandola è come se la decisione di una persona di andarsene da questo mondo si equiparasse ad un omicidio. La parte iniziale della parola, “samo”, sembra svanire sotto il peso della parte finale, “ubojica” [omicida in croato].

Evito di utilizzare questo termine. Semplicemente non riesco a collegare un’espressione che racchiude in sé un’allusione all’omicidio al gesto di mio figlio, alla sua decisione di lasciare questo mondo all’età di 43 anni, all’apice della sua forza intellettuale.

Purtroppo, molte famiglie (e qui la religione gioca un ruolo tutt’altro che insignificante) travolte da una tragedia simile – e non credo non ci sia tragedia più grande del suicidio di una persona cara – la vivono come una vergogna familiare, quindi cercano di nasconderla temendo di essere stigmatizzate dalla società.

Con questo libro, ho cercato, per quanto possibile, di sfidare la paura di essere stigmatizzati, rompere i tabù legati al suicidio e accettare la decisione di una persona di porre fine alla propria vita, perché solo quella persona sa quanto ha sofferto. Si tratta del diritto di scegliere, il diritto di prendere la decisione più difficile.

Lo scrittore austriaco Jean Améry era contrario alla tendenza a moralizzare il suicidio. Per Améry il suicidio non era una via di fuga, bensì una valida risposta alle sfide dell’esistenza, anche l’ultimo atto di libertà. Questa idea può essere di conforto?

Pur condividendo questa interpretazione, non la trovo confortante. Non credo ci sia amore più grande di quello per propri i figli. L’amore per i genitori o per la persona con cui si condivide la vita non può essere paragonato all’amore che si prova per un figlio. Ai figli si perdona tutto, anche quello che forse non perdoneremmo mai ai genitori o ai partner. Un genitore farebbe tutto per i figli, letteralmente tutto. E chi perde un figlio, resta frantumato per sempre.

Trascorreranno giorni, mesi, anni, forse arriverà anche qualche bel momento, ma il dolore non diventerà più sopportabile. È dentro di te, sei consapevole che ti accompagnerà per il resto della tua vita e che il tempo non lo allevierà. Quel detto secondo cui il tempo cura ogni ferita semplicemente non vale quando si perde un figlio. È un dolore irrimediabile. Infinito. È inutile cercare rimedi. Non ce ne sono.

Prima lei ha affermato di aver cercato risposte da solo. È riuscito almeno ad avvicinarsi ad una possibile risposta a quella che nel libro definisce la più difficile delle domande: perché? Il suo libro suggerisce che a giocare un ruolo significativo nella morte di Matija è stato l’ambiente di lavoro competitivo e spietato della prestigiosa Università di Yale, dove Matija ha lavorato per anni – sei giorni alla settimana, spesso dodici ore al giorno – in un laboratorio della Facoltà di medicina. A mio avviso, questo è un aspetto molto importante: sottolineare, come ha fatto lei nel suo libro, la responsabilità del datore di lavoro per la salute mentale del lavoratore…

Non so spiegare con certezza il gesto di Matija, però ho qualche indizio. Sapevo quanto duramente lavorava, quanto tempo dedicava al lavoro, quanto era responsabile. Era come una spugna che assorbiva tutto e difficilmente lasciava andare.

La parola Yale viene pronunciata con riverenza. Da questa università sono usciti presidenti, premi Nobel, grandi scienziati. È un luogo di straordinarie scoperte scientifiche. Avendo lavorato a Yale per undici anni, anche Matija ha contribuito alla scoperta delle cause e delle terapie del morbo di Crohn. Però Yale è una macchina insensibile, estranea a qualsiasi empatia, una macchina che non si ferma mai, vuole il successo e nient’altro.

Ha mai pensato di ricostruire più nel dettaglio la vita americana di Matija? Spesso i genitori non conoscono bene i figli adulti, soprattutto se questi ultimi trascorrono la maggior parte della loro vita lontani da casa. Nel libro lei scrive di non essere stato a conoscenza della sensazione di “terrore con cui Matija viveva, si svegliava la mattina, andava al laboratorio, scriveva articoli scientifici, tornava tardi a casa dove non c’era nessuno ad aspettarlo, nessuno con cui condividere i propri pensieri”…

Il libro “Matija” non è un tentativo di ricostruire dettagliatamente la vita di mio figlio in America. Era partito per gli Stati Uniti molto giovane, all’età di soli 17 anni, trascorrendovi più della metà della sua vita. Siamo sempre rimasti in contatto, però ci separavano migliaia di chilometri. Sapevo di lui solo quello che era disposto a raccontarmi. Non si è mai lamentato, limitandosi soltanto ad accennare ogni tanto al fatto di lavorare molto e duramente. Non ha mai cercato di scaricare i propri tormenti sugli altri.

So che aveva trascorso giorni felici a Chicago svolgendo una ricerca post-dottorato all’università. Amava quella città cosmopolita. So anche che era molto meno felice a Yale, dove era andato credendo che sarebbe stata soltanto una parentesi e che sarebbe tornato nella Città del vento. Tuttavia, quella parentesi è durata undici anni.

Matija era una persona solitaria. Ovviamente, ha avuto relazioni affettive e amicizie, però ha sempre cercato di contenerle, temendo che una relazione più seria, solida e impegnativa potesse compromettere il suo lavoro.

C’era in lui qualcosa di quell’indole solitaria di Tesla. Ho scoperto che soffriva di depressione troppo tardi, quando ormai se n’era andato. La solitudine, il duro lavoro, la depressione, uniti al suo straordinario riserbo, potrebbero fornire una risposta ad alcune delle domande. Probabilmente non mi basterebbero nemmeno cinque vite per dipanare tutti gli interrogativi. Ma anche se dovessi trovare tutte le risposte, non cambierebbe nulla.

Nel libro lei riflette sul suo rapporto con Matija, un rapporto tra padre e figlio abbastanza tipico della sua generazione. Come definirebbe questo legame?

Amavo moltissimo Matija ed ero infinitamente fiero di lui. Mi dispiace di non aver saputo dimostrare tutto quell’amore. Credo che anche lui avesse lo stesso problema. Mi voleva bene, era orgoglioso di me e, naturalmente, di sua madre, ma anche lui era timido nell’esprimere quell’amore. Eravamo fatti della stessa sostanza, ci risultava difficile esprimere a parole l’immensità dell’amore reciproco. Lo davamo per scontato, pensavamo che non ci fosse bisogno di parlarne, di sottolineare qualcosa di ovvio. Ora me ne pento. Mi dispiace per gli abbracci mai dati, per le parole mai dette.

Tornando a casa dopo il suo primo anno in America, Matija si era fermato a Londra, dove stavo trascorrendo un periodo di due mesi grazie ad una borsa di studio. Ero molto emozionato seduto su un treno della metropolitana diretto a Heathrow. Piangevo di gioia sapendo che avrei visto mio figlio dopo quasi un anno. Però una volta arrivato all’aeroporto, ero andato in bagno per lavarmi il viso in modo da rimuovere le tracce delle lacrime. E quando lo avevo visto, mi ero sforzato di non piangere di gioia.

Non riesco a spiegare questo bisogno di nascondere i sentimenti. Anche Matija si sentiva così, ne sono certo, lottava con le lacrime, cercando con tutte le sue forze di trattenerle.

Dal libro emerge spesso questa gioia inespressa e il suo amore per il figlio. Descrivendo un viaggio a Parigi che avete fatto insieme quando Matija aveva diciassette anni, lei afferma di essere stato felice di trascorrere qualche giorno con il figlio, senza però dirglielo. E poi si chiede: perché per gli uomini è così difficile riconoscere e condividere la felicità?

Il nostro viaggio a Parigi è stata una delle poche occasioni in cui Matija e io abbiamo trascorso un po’ di tempo insieme, solo noi due. È stato bellissimo stare insieme dalla mattina alla sera, chiacchierare, condividere le impressioni, godere delle bellezze di Parigi, mangiare, ridere. Ma nessuno dei due ha esplicitato questo sentimento affermando: “Stiamo così bene insieme, peccato che non ci vediamo più spesso”. Né io né Matija abbiamo detto: “Dobbiamo vederci più spesso, è davvero bello stare insieme”.

So che Matija era molto più vicino a sua madre, aveva sviluppato un atteggiamento tenero, protettivo e direi anche meno riservato nei suoi confronti. Anch’io ero così da giovane. Mia madre conosceva tutti i miei segreti, mentre il mio rapporto con mio padre – peraltro uno splendido padre – era diverso. Lo amavo, ma non sapevo come dimostrarglielo. Ricordo quei giorni d’infanzia, ero felice quando mi accarezzava la testa, baciandomi sulla fronte.

Sembra che per gli uomini sia più difficile condividere anche la sofferenza. Le ricerche dimostrano che gli uomini cercano aiuto più raramente e tentano il suicidio molto più spesso delle donne. Lei è venuto a conoscenza della depressione di Matija solo dopo la sua morte, grazie ad una lettera ricevuta dalla psicologa di suo figlio. Anche lei – come scrive nel libro – soffriva di depressione, però non lo ha mai detto a Matija. Qual è il motivo di questo silenzio? La vergogna? La paura di diventare un peso per gli altri?

Penso che Matija e io abbiamo affrontato anche le difficoltà allo stesso modo. Non eravamo capaci di condividerle, le tenevamo dentro, come anche l’amore che provavamo l’uno per l’altro. Dalla lettera che mi ha inviato la psicologa a cui Matija si era rivolto per chiedere aiuto, ho capito quanto mio figlio mi amava e con quanta franchezza ne parlava con la psicologa.

Ho scoperto anche quanto era orgoglioso del lavoro che facevo. Aveva bisogno di parlarne, ma non mi ha mai raccontato queste cose, così come io non gli ho mai detto quello che gli sto dicendo ora quando vado sulla sua tomba. Solo adesso stanno emergendo la mia tenerezza, sincerità, mitezza. Oggi sono capace di dirgli quanto lo amo e sarei felice se potesse sentirmi e vedere le mie lacrime, quelle stesse lacrime di cui mi vergognavo mentre lo aspettavo all’aeroporto di Londra. Darei tutto per poterlo abbracciare e dirgli tutto quello che non gli ho mai detto.

È difficile per lei parlare della morte di Matija ora che il libro è stato pubblicato?

Ho detto tutto nel libro. Mi sono messo a nudo, ho aperto la mia anima, ho confessato, mi sono pentito. Ho vissuto una catarsi. È più facile parlarne ora che tutto è già stato scritto. Matija ha meritato un libro, anche se spesso mi chiedo: Come reagirebbe se lo leggesse? Forse direbbe che sono troppo autocritico, che lui ha inteso alcune delle mie azioni diversamente da come le descrivo nel libro. Forse direbbe che sono stato troppo tenero e permissivo con lui e che anche lui ha fatto degli errori di cui non mi sono accorto.

Matija era davvero una persona eccezionale: un’erudizione immensa, un’ampiezza di vedute straordinaria, un intelletto perspicace, una capacità di empatia sconfinata, una curiosità e un’onestà infinite. Avere un figlio come Matija è stato un privilegio straordinario. La sua morte è un dolore impensabile.

Il dilemma che lei ha avuto – vedere o meno il corpo di Matija all’obitorio – assilla molte persone che temono quell’ultima immagine che rimarrà per sempre impressa nella loro memoria. Lei ha deciso di non vedere il corpo di suo figlio. Come valuta oggi questa decisione?

Mi sono chiesto, e continuo a chiedermelo: avrei dovuto dirgli addio all’obitorio, restare in piedi accanto al letto, vicino al suo corpo, piangendo o semplicemente rimanendo in silenzio. Mettergli una mano sulla fronte e accomiatarmi da lui silenziosamente. Non l’ho fatto perché ero debole e non riuscivo ad affrontare la realtà della sua morte. Non ne avevo la forza.

Non sarei capace di farlo nemmeno oggi, perché quell’immagine, l’immagine di mio figlio morto, mi perseguiterebbe. Ho scelto la strada meno dolorosa. Ogni volta che penso a Matija, e non passa giorno che non mi torni in mente, lo ricordo in tutta la sua vitalità, rievoco una nostra conversazione, una passeggiata, un pranzo insieme, un nuovo incontro, un addio. So che se n’è andato, ma in un certo senso continua a vivere, perché io lo ricordo vivo.

Lei è un giornalista e nel giornalismo esiste la regola per cui non si deve scrivere di suicidi per non incoraggiarne altri. Ritiene valida questa idea?

Non credo che la decisione di una persona di togliersi deliberatamente la vita possa incoraggiare gli altri a fare lo stesso. Comprendo la regola secondo cui i giornali non dovrebbero parlarne, perché bisogna pensare anche ai familiari della vittima.

“Matija” è molto più di un libro sulla morte di mio figlio. Nella sua postfazione, il geniale Miljenko Jergović scrive che “Matija” "parla di quanto sia bella la vita" e di “quanto tutte le cose belle della vita poi facciano male”.

La vita con Matija era bella, meravigliosa, per questo averlo perso fa così male, troppo male. Sono fiero di tutto ciò che Matija ha fatto durante la sua breve vita. La sua morte mi addolora e mi strugge, ma ha lasciato dietro di sé talmente tanta bellezza che durerà fino alla fine della mia vita.

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