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Dopo la pioggia

Un quadro degli ultimi vent’anni di ex-Jugoslavia e Albania, tra problemi ancora ben lontani dall’essere risolti e un inquietante parallelismo con l’attuale quadro europeo. Un futuro incerto col timore di ritrovarsi abbandonati al proprio destino. Una recensione. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

10/01/2012, Vittorio Filippi -

Dopo-la-pioggia

(angrodZ/flickr)

Di solito dopo la pioggia ritorna il sereno, il bel tempo, talvolta fa pure capolino l’arcobaleno. Nel caso della ex Jugoslavia e dell’Albania, però, non si sono seguite le consuete tendenze della meteorologia. Nel senso cioè che, dopo il grande temporale, il cielo non si è rasserenato. O perlomeno non si è rasserenato del tutto. E’ rimasto sempre incerto, inaffidabile, qualche volta ancora minaccioso.

La metafora è tratta dal film del macedone Milcho Manchevski, uscito alla metà degli anni Novanta ed intitolato “Prima della pioggia”. Il film, che ebbe il Leone d’Oro a Venezia, ben descriveva il clima di violenza (a cui non ci si può sottrarre come in un gorgo irresistibile, sosteneva Manchewski) che contraddistingueva in quegli anni i Balcani, quelli definiti della transizione.

Ora il temporale, cioè le guerre intra-jugoslave ed i sussulti albanesi, si è da tempo concluso, pur persistendo ancora tensioni e problemi scoperti, ma ciò che è venuto dopo non ha portato né l’arcobaleno né un bel tempo duraturo e convincente. La transizione continua, si fa infinita con tutte le sue incertezze e le sue incongruenze.

Il libro, curato da D’Alessandri e Pitassio, due storici specializzati nell’area balcanica (il primo è anche segretario dell’Associazione italiana di studi del sud-est europeo), vuole fare il punto di questi ultimi vent’anni di storia in cui i Balcani hanno conosciuto stravolgimenti e frammentazioni tali da creare una vera cesura storica tra il prima e il dopo.

Il volume, ricco di fonti bibliografiche ed alquanto corposo (più di 500 pagine), presenta una nutrita serie di contributi scientifici, italiani e stranieri, che toccano diversi ambiti tematici. Si passano in rassegna i bilanci storiografici, si evocano alcuni punti di politica interna (tra cui quello, curioso, degli ex-comunisti in Croazia e Slovenia: dove sono politicamente finiti dopo quasi mezzo secolo di potere e di ideologia?) ed estera (tra cui il ruolo della Russia nella crisi jugoslava e quello attuale dell’Europa e dell’integrazione che propone), si parla di comunicazione e di cultura (lingue, letterature, media: con interessanti finestre su lingua ed “etnolingue”, sul potere anche manipolatorio dei mass media e sul prolifico cinema postbellico ex-jugoslavo), si affronta il punto delle istituzioni culturali (in particolare la scuola nella Bosnia una ma etnicamente trina e l’insegnamento delle lingue in Albania), non dimenticando infine i delicati tasti della religione (in particolare il ruolo dei musulmani e dell’Islam) e dell’emigrazione (serba ed albanese verso l’Italia).

Ovunque ci si giri, si incontrano ben poche questioni risolte e molti cantieri aperti: aperti all’incertezza, forse a nuovi disordini. Kosovo, Bosnia e Macedonia con le sue difficoltose relazioni greco-albanesi sono esempi calzanti per comprendere quanto – nella citata metafora – il clima balcanico rimanga cupo, pur “dopo la pioggia”.

Certamente i numerosi trattati ed accordi prodotti (Dayton, Ohrid, Kumanovo, Belgrado) e la prospettiva di integrazione europea hanno finora avuto una grande forza di stabilizzazione e di normalizzazione dell’area. Tuttavia, i primi risentono delle loro contraddittorietà, mentre la seconda paga l’indebolimento che la crisi finanziaria e monetaria e le tensioni che ne conseguono sullo stesso progetto di Unione Europea. Tensioni che potrebbero rilanciare nazionalismi, intolleranze, protezionismi nel cuore stesso dell’Europa, che si accompagnano ai timori derivanti dalla globalizzazione e dalla post-modernità (immigrati, pluralismi dei pensieri, relativismi culturali, …). Il tutto, nota Stefano Bianchini nel suo interessante intervento, porterebbe al rinserramento nella (presunta) omogeneità e sicurezza degli Stati-nazione. Lo sfacelo della Jugoslavia ebbe origine proprio con la crisi economica internazionale che poi comportò protezionismi economici e narrazioni nazionaliste.

Il rischio maggiore, oggi, è che i Balcani si ritrovino soli e senza una governance internazionale, essendo l’Europa ed il mondo assai affaccendati su di una crisi economica gravida di rischi. Anzi, è l’Europa stessa che – smessi i trionfalismi un po’ ingenui seguiti alla caduta del muro di Berlino – rischia di balcanizzarsi. Cioè di rinunciare ad un progetto unitario, comune. E di destabilizzarsi in modo oggi imprevedibile. E’ sintomatico che Belgio (dove ha sede la “capitale” della UE) e Bosnia siano Paesi non solo fratturati in diverse comunità, ma incapaci di governo da lunghissimo tempo?

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