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Dopo l’ indipendenza
La lentezza del processo di riconoscimento, il rapporto caotico tra le missioni Unmik ed Eulex, il rischio divisione. Un’intervista sul Kosovo all’analista politico statunitense Daniel Serwer
Daniel P. Serwer è attualmente vice presidente del Center for Post-Conflict Peace and Stability Operations. Dal 1994 al 1996 Serwer è stato inviato speciale e coordinatore degli Usa nella Federazione Bosniaca, dove ha mediato tra le leadership croata e musulmana bosniaca e negoziato il primo accordo raggiunto ai negoziati di pace di Dayton. Nel 1996-97, come direttore delle analisi su Europa e Canada del Dipartimento di Stato americano, Serwer, ha supervisionato lo studio sull’implementazione del trattato di Dayton, e quello sul deterioramento della situazione relativa alla sicurezza in Albania e Kosovo
Come vede gli sviluppi della situazione in Kosovo dopo la dichiarazione di indipendenza?
Credo che la leadership kosovara si sia mossa piuttosto bene, mantenendo la situazione sotto controllo. Dopo la dichiarazione di indipendenza ci sono stati festeggiamenti, ma nessun incidente con la comunità serba o con le altre minoranze, un fatto di certo positivo. Sfortunatamente, però, il processo di riconoscimento del nuovo stato non è risultato così veloce e facile, e al tempo stesso non si è riusciti ad ottenere una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Al momento quindi c’è confusione, e le cose non vanno tutte nella direzione sperata.
Come spiega il fatto che molti stati da cui ci si aspettava un rapido riconoscimento del Kosovo, come i paesi arabi, non l’hanno ancora fatto?
"Non lo so con sicurezza", è l’unica risposta che posso dare. E’ soprattutto una questione diplomatica. E’ poi sicuramente vero che la Serbia ha cercato in ogni modo di ostacolare questo processo, riuscendo ad ottenere qualche successo. Ma quello del riconoscimento può essere un processo molto lungo, e credo che bisogna avere pazienza ed insistere, ed alla fine arriveranno dei risultati, in particolare proprio dai paesi islamici.
Alcuni sostengono che l’atteggiamento degli stati arabi verso il Kosovo sia guidato soprattutto dall’anti-americanismo. E’ d’accordo con questa analisi?
Non saprei, potrebbe essere in parte vero, ma credo che sia un problema risolvibile attraverso sforzi diplomatici.
Come giudica oggi il rapporto tra le missioni Unmik ed Eulex?
Il caos è completo. Dal mio punto di vista la missione Onu dovrebbe già essere sulla strada del proprio ritiro, ma non può farlo, stretta com’è dagli Stati Uniti ed Unione Europea da una parte e da Russia e Serbia dall’altra. Quindi al momento resta attiva soprattutto nel nord del Kosovo, cosa in parte positiva, visto che è piuttosto evidente che Pristina non è in grado al momento di imporre la propria autorità su questa parte del paese, e c’è quindi bisogno di forze internazionali nell’area. Il problema è che queste forze dovrebbero essere quelle europee, e non quelle dell’Onu. Questa situazione cambierà solo col tempo, in modo graduale. Io non vedo possibili scorciatoie. Vorrei davvero che il Consiglio di Sicurezza riuscisse a chiarire la situazione con una nuova risoluzione.
Crede che questo sia davvero possibile, visto l’atteggiamento ostruzionista assunto dalla Russia?
C’è chi dice che l’impasse è destinato a durare a lungo. Io sono convinto che sia possibile arrivare ad una nuova risoluzione. Americani ed europei, però, dovrebbero perseguire l’obiettivo con grande aggressività, ed essere pronti a pagare un certo prezzo alla Russia. Bisognerebbe dire a Mosca: "Ok, avete vinto il primo round. Cosa volete per arrivare ad una nuova risoluzione?". Io non sarei pronto a pagare qualsiasi prezzo, ma credo che varrebbe la pena scoprire quale sia il prezzo che vogliono.
Ma qual è il prezzo che la Russia sarebbe disposta ad accettare?
Non lo so, ma bisognerebbe chiederlo. Ci sono cose che non credo andrebbero concesse a Mosca, come ad esempio libertà d’azione in Abkhazia. Ma ci sono altre concessioni che potrebbero risultare più ragionevoli. I russi non hanno esplicitato cosa potrebbero volere in cambio di un atteggiamento diverso sul Kosovo, ma sta diventando sempre più chiaro che non si sentono del tutto a proprio agio nel ruolo di principale difensore e protettore della Serbia. La situazione non è positiva nemmeno per loro, perché di fatto le decisioni sul Kosovo vengono prese fuori dal Consiglio di Sicurezza. Per Mosca sarebbe molto meglio far rientrare le negoziazioni all’interno del Consiglio, visto che proprio dentro le istituzioni dell’Onu la Russia ha un peso politico maggiore, mentre al di fuori di queste, alla lunga, si trova in una posizione di debolezza.
Dopo il recente incontro con la delegazione kosovara a Washington, il presidente americano George Bush ha dichiarato di essere contro ogni divisione del nuovo stato. Questo significa che esiste ancora un rischio divisione?
Il rischio esiste, ed siamo di fronte a una situazione potenzialmente pericolosa. La partizione è l’obiettivo di Belgrado, e la Serbia sta attualmente tentando di creare una realtà di divisione di fatto sul terreno, soprattutto mantenendo il controllo del Kosovo settentrionale. Nelle enclaves la situazione è diversa, e l’atteggiamento serbo cambia radicalmente a sud e a nord del fiume Ibar. Pristina e Belgrado dovrebbero davvero dialogare su questi nodi irrisolti, e soprattutto con quanto succede intorno a Mitrovica. Sono convinto che a riguardo anche la comunità internazionale abbia le sue responsabilità, ma devono essere innanzitutto Belgrado e Pristina a mostrare la volontà di sedere intorno ad un tavolo.
In un suo recente articolo, ha scritto del pericolo di un effetto domino in caso di divisione del Kosovo sul resto della regione…
Credo che il pericolo sia reale, ed al momento non vedo alcuna strategia che possa evitare una divisione de facto. Proprio per questo credo sia davvero importante che Pristina e Belgrado inizino a discutere seriamente, e sono convinto che una nuova risoluzione Onu non farebbe altro che rendere le cose più facili.
Anche se questo dovesse portare ad un cambiamento di confini nei Balcani?
In realtà abbiamo già cambiato lo status di molti confini nella regione balcanica. Questa cosa è già successa. La cosa importante è non spostare confini per accomodarli a differenze etniche. Questo è quanto abbiamo sempre rifiutato di fare, posizione che il presidente Bush ha ribadito, e che io considero corretta.
Lei sostiene con calore l’idea di colloqui bilaterali tra Pristina e Belgrado. Ma vista la posizione assunta fino ad oggi, crede che la Serbia sarebbe un partner costruttivo nel dialogo?
Se a Belgrado ci fosse ancora il governo guidato da Kostunica, probabilmente non sarei tanto convinto. Ma le cose sono cambiate, e oggi al governo ci sono politici che vogliono portare la Serbia nell’Unione Europea il più rapidamente possibile, politici sensibili ad incentivi diversi da chi non è interessato dalla prospettiva dell’integrazione.
Belgrado ha però ribadito che, se posta di fronte alla scelta "Kosovo o Ue", sceglierebbe comunque il primo…
Questa è la posizione presa dalla Serbia. Vedremo se sarà in grado di tenerla se posta sotto pressioni significative da parte europea perché cambi opinione.
Passiamo alla notizia dell’arresto di Karadžić. Come interpreta questo evento in questo particolare momento?
Credo che sia un passo avanti molto importante. L’arresto di Karadžić arriva con 13 anni di ritardo, ma anche adesso è importante, e segna una chiara differenza tra questo governo serbo ed il precedente. Nessuno riuscirà a convincermi che il precedente esecutivo non sapeva dove si trovasse Karadžić e che viveva una vita tranquilla a Belgrado. Adesso che è stato arrestato, come dicevo, possiamo parlare di passo in avanti, anche se rimangono molte cose da fare. Innanzitutto arrestare Ratko Mladić e consegnarlo all’Aja, e poi è necessaria una riforma dei servizi di sicurezza, che hanno protetto i latitanti ricercati per molto tempo. Io credo che il governo serbo abbia ben chiaro che questa mossa è indispensabile per la sua stessa sopravvivenza.
Con l’arresto di Karadžić il governo serbo, a quanto pare, ha voluto mandare un segnale per provare all’Ue di voler essere parte della famiglia europea. Crede che l’esecutivo di Belgrado sia stato sincero facendo questo passo politico?
Sì, senza dubbio. Di sicuro Belgrado sta cercando di provare a Bruxelles di aver preso con la massima serietà la questione. Per riuscirci pienamente, però, devono catturare anche Mladić, che sembra essere un osso più duro di Karadžić. Questo perché l’ex leader serbo bosniaco non aveva un particolare peso politico a Belgrado, mentre per Mladić il discorso è leggermente diverso. In ogni modo, il nuovo governo serbo ha preso decisioni molto chiare, sia nei confronti dei ricercati dell’Aja che della riforma dei servizi segreti. E il giudizio non può che essere positivo.