Djindjic: un omicidio politico
Un commento contro corrente in cui si sostiene che l’omicidio di Djindjic sia stato commesso a fini politici. Anziché concentrarsi sulla criminalità organizzata sarebbe più proficuo ricercare in quei centri di potere che ancora hanno presa sulla società.
Fino al 12 marzo i giornalisti in Serbia hanno svolto il lavoro della polizia, in modo preciso e dettagliato. Riportando nella cronaca quotidiana innumerevoli quantità di informazioni relative alla criminalità organizzata, alla mafia e al sottosuolo serbo. Ora che nel paese è stato proclamato lo stato d’emergenza immediatamente i media sono rimasti senza voce. Dai quotidiani più liberali a quelli di orientamento nazionalista, tutti pubblicano le medesime informazioni, in accordo con lo stato d’emergenza e quindi con la sovraintendenza del ministero dell’interno.
La cosa che più sorprende è l’assenza di una critica alla proclamazione dello stato d’emergenza. Condizione che grava non solo sul servizio informativo, privandolo della possibilità di riportare analisi e commenti sull’accaduto (ci sono giornalisti che negli ultimi due anni hanno seguito in modo puntiglioso tutte le vicende legate alla criminalità organizzata, ma che in questo momento non scrivono nulla), ma in modo determinante anche sulle libertà dei cittadini. Il decreto emesso da Natasa Micic, presidentessa del parlamento e al contempo facente funzione di presidente della repubblica, dopo che per ben due volte le elezioni sono fallite, al punto 1 dice che: "Con questo decreto vengono poste limitazioni ad alcune libertà e alcuni diritti delle persone e dei cittadini previsti dalla Costituzione della Repubblica di Serbia e vengono definite le competenze particolari degli organi statali durante lo stato di emergenza". Per poi proseguire ai punti 6, 7 e 8 proclamando che: "Viene vietato il diritto allo sciopero"; "È vietato organizzare e tenere assembramenti e altre adunanze pubbliche dei cittadini che secondo la legge sono soggetti alla comunicazione preventiva al Ministero degli Interni"; "Sono vietate le attività politiche e sindacali il cui obiettivo sia quello di ostacolare o impedire l’applicazione delle misure per il periodo dello stato di emergenza". Infine il punto 9 riguarda la impossibilità stessa della stampa di dare informazioni, ad "eccezione dei comunicati ufficiali degli organi statali competenti" (la versione integrale del decreto è stata tradotta da Notizie Est il 13 marzo 2003)
Come si può ben vedere la proclamazione dello stato d’emergenza limita fortemente alcune delle libertà fondamentali dei cittadini. Tuttavia ciò che più ancora sorprende è che non solo la maggior parte dei giornalisti non ha avuto commenti su queste misure di sicurezza, ma nemmeno la maggior parte delle organizzazioni non governative che da anni si battono per i diritti umani. Tutto sembra lecito in questo momento di fragilità statale e instabilità politica.
La tesi che immediatamente è stata data al pubblico riguarda il coinvolgimento della mafia, del "potente clan di Zemun", nell’omicidio di Zoran Djindjic. Una tesi affrettata, sposata dalla maggior parte dei commentatori di tutto il mondo, ma che lascia qualche dubbio sull’intera vicenda.
È opinione di chi scrive che l’omicidio di Zoran Djindjic abbia un movente politico. Quale motivo avrebbe il famigerato Milorad Lukovic Legija per assassinare il premier di governo? Da più parti si è insistito che Zoran Djindjic avrebbe rotto il patto con la mafia e per questo motivo ne avrebbe pagato le conseguenze (tra i vari si veda il commento dell’IWPR).
Ora, che Zoran Djindjic avesse relazioni con uomini controversi sembra risaputo. Ricordo per esempio di aver chiesto ad un giornalista di Belgrado, nel maggio dello scorso anno, di rilasciarmi un’intervista dopo che il suo settimanale aveva pubblicato uno scandalo che vedeva coinvolto il governo (ministero dell’urbanizzazione) e un controverso businessman di Surcin, padrino di Djindjic, tale Dragoljub Markovic, riguardo la costruzione di tratti stradali. Markovic proprietario di un’industria alimentare aveva ricevuto in appalto la realizzazione delle autostrade serbe, senza che venisse pubblicato alcun tender per l’appalto. La cosa mi incuriosiva e volevo saperne di più. Tuttavia il giornalista dovette rifiutare l’intervista su suggerimento del suo avvocato, perché nel frattempo si era trovato sotto processo, accusato dal governo di diffamazione, una delle più consuete accuse contro i giornalisti.
Ad ogni modo è bene notare quale è il modus operandi della criminalità organizzata nei Balcani o della criminalità organizzata in genere. Perché eliminare un premier di governo, quando si possono raggiungere accordi per legalizzare gradatamente le proprie attività. Più di una volta gli affari illegali col tempo si sono trasformati in affari legali. Dalle ruberie legate alle attività criminali, al traffico di droga e di persone, si è passati al riciclaggio del denaro mediante aziende legalmente riconosciute. Insomma, i gruppi criminali si riciclano con e grazie a il processo di transizione (tra i vari si veda, F. Veiga, Mafiosos, politicos y espias, "El Periodico", Barcelona 15 marzo 2003).
Quindi ritorniamo a chiederci perché uccidere l’uomo che in questo momento in Serbia aveva tutto il potere concentrato su di sé. Perché è questo che Djindjic stava facendo: concentrare attorno alla sua persona il potere politico, confidando nel fatto che finché il governo stava in piedi non ci sarebbero stati problemi.
Vladimir Gligorov, professore all’Università di Vienna e uno dei più stimati analisti politico-economici, ha scritto sul numero del 17 marzo del settimanale belgradese "Ekonomist" uno dei pezzi più sobri pubblicati negli ultimi giorni.
Secondo Gligorov, "Il peso dell’omicidio politico è aggravato dal fatto che la Serbia non ha istituzioni politiche stabili. Djindjic ha concentrato il potere nelle sue mani e spesso ha sottolineato che non vi è motivo di preoccuparsi fino a quando il governo potrà fare il suo lavoro. Gli attentatori hanno preso di mira proprio lui perché era l’unico centro di stabilità. Ma non è stato questo il motivo dell’attentato, come forse alcuni vorrebbero dimostrare. Non è stata né la criminalità organizzata, né la corruzione. Indipendentemente da chi siano gli esecutori, è chiaro che si tratta di un atto politico con obiettivi t[]istici. Un atto che illustra in modo eloquente la profonda crisi politica nella quale si trova la Serbia, crisi la cui origine non va cercata nella vittima dell’attentato stesso, bensì nell’indisponibilità delle strutture politiche ad affrontare la pesante eredità di guerra, politica e ideologica" (alcuni stralci del lungo testo originale sono stati tradotti e pubblicati sull’ultimo numero dalla rivista "Balcani Economia", a cui rimandiamo per approfondire le implicazioni economiche del dopo attentato).
Gligorov avanza inoltre un’altra considerazione, quando afferma che "un omicidio politico ha sempre delle serie conseguenze. Ma di gran lunga maggiori quando accade in un paese nel quale la responsabilità politica non è istituzionalizzata, nel quale, si potrebbe dire, non governa il diritto. E nel quale il potere politico è concentrato nelle mani di un solo uomo. Il quale ha molto potere politico, ma poco potere effettivo".
Cosa vuol dire con quest’ultima frase il professor Gligorov? Credo che in questo si possa trovare una sorta di spiegazione del movente dell’attentato. Zoran Djindjic da quando è salito al potere con la creazione della DOS ha cercato in tutti i modi di estromettere gli avversari politici, primi tra tutti il partito di Kostunica (DSS). Ciò si è potuto vedere quando ha cacciato i parlamentari del DSS dal parlamento e quando la presidentessa del Parlamento Natasa Micic ha evitato di indire nuove elezioni presidenziali, preferendo implementare la nuova Carta costituzionale che sta alla base della neonata unione di Serbia e Montenegro. Queste manovre gli sono costate una notevole dose di impopolarità e parecchie critiche da parte dei suoi avversari politici. Il capo gruppo parlamentare del DSS nel gennaio scorso, a seguito della mancata indizione di nuove elezioni presidenziali, aveva persino accusato Natasa Micic di "introdurre lo stato di emergenza nel paese", sottolineando come l’accusa fosse una opinione personale e non del partito ("Glas Javnosti", 25 gennaio 2003).
Nelle mani di chi è il potere effettivo allora? Semplicisticamente si potrebbe dire la mafia. Tuttavia dire che la mafia ha il potere effettivo del paese è come dire niente. Piuttosto ci sarebbe da chiedersi dove inizia la mafia e dove finisce la politica.
La criminalità organizzata ha iniziato i suoi traffici tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Milosevic aveva la capacità di concentrare su di sé un enorme potere e di co-gestirlo con la criminalità organizzata. Con l’uscita di scena di Milosevic, al tempo unico centro di potere, i centri di potere si sono moltiplicati. È vero che il 5 ottobre 2000, data storica per la politica serba, è stato determinato da un accordo tacito tra questi centri di potere e l’opposizione all’ex presidente. Come conferma Milorad Lukovic Legija (ex comandante della JSO, ossia Unità per operazioni speciali) nella lettera aperta che ha inviato alle redazioni dei quotidiani, in risposta alle accuse del controverso businessman di Surcin Ljubisa Buha Cume, si dice chiaramente che una parte dei servizi di sicurezza ha fatto in modo che non venisse sparso sangue serbo durante il rovesciamento di Milosevic. Tuttavia Legija non si presenta come un potente mafioso, ma bensì come un patriota, come un difensore della patria serba. Ciò che più gli rode è la caparbia del governo serbo nel volersi allontanare da questo sentire nazionalistico. La lettera di Legija esprime un portato politico e una lagnanza per come le cose sono andate a loro sfavore. Accusa i leader di governo di volersi sbarazzare di loro, dei difensori della patria. Tali li credono anche i molti che hanno votato Vojislav Seselj alle elezioni presidenziali, che ci si ricorderà gli valsero circa il 30% dei voti.
Ci si ricorderà inoltre della rivolta dei "berretti rossi", ovvero dell’Unità per operazioni speciali (JSO) nell’ottobre del 2001. La rivolta scoppiò a seguito della cattura di due ricercati dal tribunale de L’Aja, i fratelli Banovic. Tuttavia la rivolta aveva avuto un’intenzione determinata, ossia mettersi in conflitto con il ministero dell’interno, che in teoria la dovrebbe controllare. I berretti rossi sono considerati da parte di molti come i salvatori della patria serba, prodi guerrieri che hanno saputo difendere il popolo serbo, anche se c’è più di un sospetto che si tratti di squadre che hanno commesso a più riprese crimini di guerra durante le guerre degli anni novanta. I berretti rossi si sono risentiti per la consegna di due suoi membri, dal momento che c’erano accordi col potere politico al fine di evitare questo tipo di operazioni contro di loro (si veda R. Chelleri, Una quieta rivolta armata, in Notizie Est, 18 novembre 2001).
Per capire l’omicidio di Djindjic crediamo sia importante capire cosa effettivamente è accaduto il 5 ottobre 2000. Quali accordi sono stati pattuiti tra i difensori della patria e i politici. D’altro canto viene di fatto da pensare che tutta la bagarre che c’è stata sui media nel mese di gennaio riguardo la criminalità organizzata sia un tentativo di spostare l’attenzione in vista dell’omicidio politico del premier.
In breve: nel mese di gennaio c’è stata più di una bufera sui media a seguito delle dichiarazioni di Ljubisa Buha detto Cume. Quest’ultimo aveva apertamente accusato Milorad Lukovic e Dusan Spasojevic (attualmente i presunti responsabili dell’omicidio Djindjic) di essere colpevoli di oltre 30 omicidi accaduti in Serbia e Montenegro negli ultimi anni, tra cui il rapimento di Ivan Stambolic, ex presidente della repubblica, al tempo destituito da Milosevic, il tentato omicidio di Vuk Draskovic e l’omicidio di quattro membri del suo partito sulla magistrale di Ibar. La risposta di Lukovic sta nella lettera aperta di cui abbiamo già parlato. Buha sembra spostare l’attenzione sulle attività illegali, focalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica sulla criminalità organizzata. A ragione o torto, Buha sembra essere risentito per il ritrovamento di oltre 3 kg di eroina nel suo centro commerciale ed inizia a rilasciare dichiarazioni ai media, con tanto di intervista per TVB92, contro Lukovic Legija e Dusan Spasojevic. In seguito accusa persino il procuratore Rade Terzic di essere colluso con la mafia, e via di seguito (si vedano i quotidiani serbi dal 25 al 28 gennaio 2003)
Si potrebbe azzardare che con tutta questa serie di dichiarazioni ci sia stato lo spostamento dell’attenzione dell’opinione pubblica sulle vicende di mafia, grazie ai media. Vale a dire, circa due mesi prima dell’attentato al premier serbo, la stampa si è concentrata sulla criminalità organizzata e sulle accuse reciproche di personaggi sospetti. Ciò che viene da pensare è che le dichiarazioni e le reciproche accuse tra personaggi controversi del sottosuolo serbo abbiano preparato ancora una volta la gente della Serbia al fine di digerire il boccone amaro dell’omicidio di Djindjic.
Perché non chiedersi piuttosto perché la polizia non sia riuscita a risolvere gli innumerevoli casi che vedono coinvolti a più riprese personaggi controversi, presunti businessman che si sono arricchiti con attività illegali, ma soprattutto i numerosi omicidi eccellenti che si sono succeduti sulla scena belgradese. E non da ultimo perché in Serbia non funzionano i tribunali, perché a distanza di anni non sono stati fatti passi avanti nel chiarimento dei cadaveri dei camion frigoriferi ritrovati in Serbia?
Chi ha ucciso Djindjic lo ha fatto in un momento ben preciso. Nel quale appunto la comunità internazionale non ha tempo di preoccuparsi del caos della Serbia, alla vigilia di una sempre più vicina guerra all’Iraq. Djindjic è stato ucciso nel cortile del palazzo del governo, davanti alle sue guardie del corpo. Senza che nessuno si preoccupasse dei possibili attentatori appostati sui palazzi di fronte e oltretutto dopo aver subito poco tempo prima un altro attentato. È probabile che senza l’aiuto di qualcuno dall’interno un’azione simile non sarebbe riuscita.
Qualcuno sta cercando di piegare il potere politico in base alle proprie intenzioni, che potremmo riassumere così: frenare le riforme in atto nel paese, congelando tutto in uno status quo (e in questo lo stato d’emergenza sembra essergli tremendamente congeniale), rigettare le richieste del TPI de L’Aja, riabilitare l’ideologia nazional-populista che tanto male ha portato in questo paese.
Vedi anche:
LO STATO DI EMERGENZA IN SERBIA: TUTTI I PARTICOLARI
Un commento: Djindjic ha rotto il patto, ne ha pagato le conseguenze