Divorzio all’albanese
Un documentario sulle separazioni forzate nell’Albania di Enver Hoxha. La storia di donne imprigionate, costrette all’esilio e ad abbandonare le proprie famiglie solo perché straniere. Intervista con la regista, Adela Peeva
Adela Peeva si è laureata all’Accademia per il Cinema, il Teatro e la TV di Belgrado. Dal 1973 al 1990 ha lavorato al Documentary Film Studio di Sofia. Nel 1991 ha creato la propria casa di produzione, "Adela Media". Divorzio all’albanese (Razvod po Albanski, Bulgaria 2007, 66′), presentato recentemente al Festival Internazionale del Film Documentario di Amsterdam (IDFA), ha ricevuto una nomination per la categoria European Film Academy miglior Film Documentario 2007, Prix "ARTE"
Di cosa parla "Divorzio all’albanese"?
Della più lunga dittatura in Europa, quella di Enver Hoxha, e di come quella dittatura interveniva nella vita privata delle persone. In particolare il film parla dei matrimoni tra uomini albanesi e donne straniere. C’erano molti di questi matrimoni misti in quel periodo, giovani albanesi andavano a studiare all’estero, in altri Paesi socialisti, alcuni si innamoravano e tornavano a casa con una moglie russa, polacca, bulgara… Ma nel 1961, dopo che Kruščëv denunciò i crimini di Stalin, Enver Hoxha interruppe le relazioni con tutti i Paesi del Patto di Varsavia. In seguito affermò che tutti gli albanesi sposati con donne di quei Paesi dovevano divorziare, e le mogli lasciare l’Albania. Molte non se ne andarono e finirono in prigione accusate di sabotaggio o spionaggio.
Come è venuta a conoscenza di questa vicenda?
Stavo girando il mio film "Di chi è questa canzone?", e mi trovavo a Korça, in Albania. E’ venuto da me un anziano e mi ha raccontato la storia di sua moglie, una bulgara, che aveva dovuto lasciare il Paese in quel periodo. L’uomo aveva rivisto la figlia, che al tempo aveva 5 anni, solo dopo la caduta del muro di Berlino, quando ne aveva ormai 35. Gli ho chiesto se c’erano altri casi come il suo, e il giorno dopo sono venute altre 5 famiglie…
Quando ha iniziato il lavoro?
Ho girato nel 2004 e 2005, poi nel 2005 e 2006 abbiamo lavorato al montaggio.
Quanto materiale ha raccolto su questi casi?
Ho filmato diverse famiglie, ma il documentario si compone della storia di tre matrimoni. Nel primo caso, quello di un albanese e una polacca, entrambi erano stati condannati a morte. La condanna fu poi trasformata per l’uomo in 25 anni di carcere, mentre la donna fu liberata grazie all’intervento del governo polacco. Barbara alla fine rientrò in Polonia, ma era ormai tardi perché la durezza degli interrogatori e le droghe somministratele avevano ormai minato la sua salute mentale.
C’è poi la storia di una donna russa, rimasta in carcere per 10 anni. In quel periodo il marito divorziò da lei risposandosi con una albanese, per dimostrare la lealtà al regime. Anche il figlio, medico, ripudiò pubblicamente la madre in quanto "nemica del popolo" nel corso di una riunione di giovani comunisti, rifiutando di vederla anche dopo la sua liberazione. Ora la donna vive a Mosca ed è lì che ho raccolto il suo racconto.
Il terzo caso è quello in un certo senso più a lieto fine, nel senso che entrambi i coniugi, lui albanese e lei russa, rimasero in prigione per 12 anni ma alla fine sono riusciti a ricongiungersi anche con i figli, che nel frattempo erano stati affidati.
Infine ho raccolto le storie dei loro aguzzini. Ho deciso infatti di inserire nel film anche l’intervista con un ufficiale della Segurimi i servizi segreti del regime [ndr, al tempo incaricato degli stranieri], della donna che li aveva interrogati e che ora dirige una compagnia privata a Tirana, e del procuratore che aveva sostenuto l’accusa nei tre casi.
Nessuno dei tre sembra rendersi conto di aver commesso dei crimini…
No, nessuno di loro mostra rimorso, tutti e tre sono convinti di aver solo fatto il proprio lavoro.
Come è possibile?
Mi fanno spesso questa domanda, o anche domande più dirette tipo: "Perché questi criminali non sono stati condannati o anche giustiziati dopo la fine del comunismo?" In realtà questo non avviene solo in Albania, anche qui in Bulgaria ad esempio nessuno domanda agli ex appartenenti ai servizi segreti di chiedere perdono o di riconoscere i propri crimini e responsabilità.
Perché?
Perché queste sono ancora persone di potere, legate direttamente o anche indirettamente, tramite gli amici, al potere.
Le vittime invece mostrano sentimenti contrastanti…
Sì, ma nessuno chiede vendetta. In un certo senso è strano, dopo quanto hanno passato, io l’ho interpretata come una sorta di calma dopo la rabbia, una sorta di filosofia del sopravvissuto. Devo dire che ho trovato tutte persone di grande valore e dignità, in generale in pace con se stessi.
Dal punto di vista del rapporto con il passato, ha trovato delle differenze tra l’Albania e il suo Paese, la Bulgaria?
No, non c’è molta differenza. Anche nel mio paese i dossier non sono stati aperti, il premier ha addirittura fatto una dichiarazione in cui sosteneva che a nessuna persona normale può interessare una cosa del genere… La differenza è che in Albania il sistema stalinista è rimasto al potere più a lungo, fino all’85, mentre in Bulgaria dopo la morte di Stalin e con Kruščëv le cose sono in parte cambiate.