Divjak, la leggenda vivente
Rispetto, affetto e cordoglio, per ricordare Jovan Divjak morto l’8 aprile a 84 anni. Un uomo che, per la sua scelta di difendere Sarajevo durante l’assedio, è diventato simbolo della resistenza alla distruzione della Bosnia Erzegovina multietnica
Šta bi dao da si na mom mjestu,
da te mrze i da ti se dive,
šta bi dao
Cosa daresti per essere al mio posto,
per essere odiato e ammirato,
cosa daresti
(dal brano "Šta bi dao da si na mom mjestu", Bijelo Dugme)
Cantavamo questi versi del poeta Duško Trifunović, insieme al gruppo rock dei Bijelo dugme (Bottone bianco) negli anni Ottanta, ignari che tra di noi esistesse una tale persona. Era il generale Jovan Divjak, "Čika Jovo" (Zio Jovo), come lo chiamavano tutti quelli che lo rispettavano e lo amavano.
Di origine serba, nato a Belgrado, la fonte della morte, come la capitale serba veniva percepita dai bosniaci, Divjak scelse di rimanere a Sarajevo durante la guerra degli anni Novanta. Aveva deciso di difendere i deboli dai potenti, proprio come gli antichi eroi delle fiabe.
La sua scelta gli aveva procurato ammirazione, odio e invidia. Ammirato dai sarajevesi, odiato come traditore dai connazionali, invidiato da coloro che nei momenti difficili si erano dimostrati meno coraggiosi o avevano fatto una scelta immorale.
Divjak avrebbe potuto scegliere di stare dalla parte dei "suoi", cioè dei serbi, e starsene "tranquillo", come avevano fatto tanti, lasciare Sarajevo e sparare dalle montagne sovrastanti verso la città assediata.
Ma ha preferito rimanere a Sarajevo, difendere la città e i suoi abitanti perché, come diceva a quelli che gli chiedevano di spiegare la sua scelta, "era mio dovere, morale e personale. Noi siamo chi scegliamo di essere e l’identità non è immutabile. La mia scelta è stata la Bosnia Erzegovina."
Il generale Divjak aveva fatto carriera nell’esercito jugoslavo JNA (Armata Popolare Jugoslava) e allo scoppio della guerra in Bosnia Erzegovina nel 1992 si trovava a Sarajevo come comandante della Difesa Territoriale.
La JNA, che aveva le sue radici nella leggendaria resistenza dei partigiani jugoslavi contro fascisti e nazisti durante la Seconda guerra mondiale, diventò in seguito il contrario di quello che era il suo compito. Nelle guerre degli anni Novanta, invece di difendere la popolazione si è messa dalla parte degli aggressori, i nazionalisti serbi.
Il generale Divjak lasciò la JNA e nel 1992 accettò di fare il vice Capo di Stato Maggiore del Comando Supremo delle forze bosniache. La nomina altisonante potrebbe apparire come promozione a un posto importante, ma all’epoca significava impartire ordini alla gente comune che si era raggruppata per difendere le proprie case e le proprie famiglie, essere a capo dei civili che combattevano contro l’aggressione e difendevano la Bosnia Erzegovina multietnica e multi-religiosa, letteralmente “in scarpe da ginnastica, e con un fucile per cinque persone”.
Il suo modo di agire durante la guerra gli procurò la stima dei combattenti bosniaci e l’affetto dei sarajevesi. Stima e affetto che crebbero con il prolungarsi della guerra dal 1992 al 1995.
Agiva in un modo tutto suo. Invece di stare chinato sopra una mappa militare e progettare le offensive, Divjak in persona correva sulla linea del fronte di Sarajevo nei lunghi 44 mesi di assedio.
Dove c’era un pericolo c’era anche lui, percorreva le trincee, incoraggiava i soldati, tranquillizzava i feriti, abbracciava i genitori che avevano perso i loro figli, utilizzava la sua posizione e i contatti con i visitatori stranieri per procurarsi le medicine che mancavano nella città assediata, protestava perché i paramilitari bosniaci maltrattavano i cittadini serbo-bosniaci, solo per la loro nazionalità, spiegava ai visitatori stranieri la sua scelta e cosa si stava difendendo in Bosnia e a Sarajevo: “Eravamo una forza multietnica, il nostro comandante era bosniaco, poi c’ero io, serbo, come vicecomandante e un altro vicecomandante croato. Sentivo che avevo l’obbligo morale di stare con coloro che erano in pericolo”.
Ma protestava anche perché aveva il sentore che gli altri compagni e membri dello Stato Maggiore non si fidavano di lui in quanto serbo. Voleva dimettersi e chiedeva di andare al fronte come un qualsiasi soldato.
A guerra finita un amico gli ha procurato la copia di alcuni documenti militari classificati “top secret”, a conferma che i suoi dubbi erano fondati. In un documento, di cui mi diede una copia, datato 31 maggio 1993, si informa lo Stato Maggiore della Repubblica di BiH che il generale Divjak protesta perché non lo fanno partecipare agli incontri ai quali, per la sua posizione, dovrebbe partecipare; che nell’ufficio riceve molte visite, prevalentemente di serbi: che si impegna ad aiutare le persone che gli chiedono aiuto, e che riceve più frequentemente le seguenti persone… e poi si elencano i nomi delle persone incontrate da Divjak.
Secondo questo documento il generale incontrava spesso, tra gli altri, la famosa scrittrice e filosofa americana Susan Sontag, che durante la guerra aveva soggiornato varie volte a Sarajevo mentre era sotto assedio. Susan Sontag nel 1993 aveva allestito a Sarajevo, con una piccola troupe teatrale locale, lo spettacolo “Aspettando Godot”, di Samuel Beckett, “un atto di coscienza più che un atto politico” secondo le sue parole.
Nel documento si raccomanda che venga compiuto ogni sforzo per dissuaderlo dalle dimissioni, poiché ciò potrebbe avere conseguenze politiche negative, ma che si doveva continuare a tenerlo sotto controllo.
Finita la guerra Divjak lasciò l’esercito senza mai ricevere un riconoscimento. Ma per la gente di Sarajevo lui, che durante la guerra era stato il simbolo della resistenza alla distruzione della Bosnia ed Erzegovina multietnica, diviene una leggenda vivente. La gente lo amava e lo stimava.
Per tutti, il generale diviene “lo zio Jovo”. “I cittadini mi hanno accettato come parte delle loro famiglie e quando andavo a trovare i miei soldati in diversi quartieri, di solito venivo accolto con applausi, il che mi dava una grande soddisfazione morale: ero nel posto giusto, al servizio degli altri”, diceva.
Ma questa cosa non piaceva a quelli che, durante la guerra, erano rimasti nascosti, ben accuditi e protetti, e che dopo la guerra, con la bocca piena di patriottismo pretendevano i meriti, le posizioni, oppure monetizzavano il proprio patriottismo. Lo invidiavano per la sua popolarità e lo odiavano perché si era dimostrato migliore.
“Appartengo a questa città. Vado a teatro, assisto ai funerali, ai matrimoni, ai compleanni… io vivo il ritmo di questa città”, mi aveva detto.
In Serbia, Jovan Divjak è stato odiato e considerato traditore per essersi messo con i bosniaci. Su mandato del governo serbo il 3 marzo 2011 fu fermato dalla polizia austriaca a Vienna. I serbi lo accusavano per presunti crimini di guerra nel cosiddetto caso “Dobrovoljačka”, del 3 maggio 1992.
Quel giorno del ’92 a Sarajevo, mentre bosniaci e serbi si scambiavano i prigionieri, qualcuno ha iniziato a sparare, ci sono stati morti da entrambe le parti. Nel filmato dell’accaduto si vede il generale Divjak che urla: “Non sparate!”. Il processo a Vienna accertò la totale infondatezza delle accuse mosse dalle autorità serbe verso Divjak.
Dopo la guerra Divjak si è dedicato alla passione che nutriva fin da giovane: l’educazione. Nel 1994, ha fondato l’associazione "Obrazovanje gradi BiH " (L’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina) e ne è stato per più di 20 anni il direttore esecutivo.
Aveva imparato dalla propria esperienza il valore dell’educazione. Proveniva da una famiglia povera, era stato cresciuto con sua sorella dalla madre, divorziata, mancavano i soldi, e per istruirsi Divjak aveva dovuto scegliere la carriera militare, così tutte le spese per la formazione sarebbero state a carico dello Stato.
In 25 anni la sua associazione ha sostenuto più di settemila bambini e ragazzi orfani di guerra, giovani volenterosi ma senza disponibilità economiche, e una parte delle borse di studio sono state riservate ai bambini Rom, discriminati ovunque, anche in Bosnia.
Divjak teneva un diario e da buon soldato scriveva ogni giorno, ma anche quello lo faceva a modo suo. Mi fece vedere che all’inizio di ogni pagina scriveva la data e una cifra misteriosa. Quel preciso giorno il 9 settembre 2016 aveva scritto 2183. Il numero, mi spiegò, erano i giorni rimanenti della sua vita perché, secondo una profezia, doveva vivere fino a 87 anni.
Se n’è andato zio Jovo, ma per i bosniaci si è solo spostato dal piccolo appartamento di Via Lugavina, a Sarajevo, direttamente nella storia che ha creato con il coraggio, con la forza morale e le scelte che fanno solo i Grandi uomini.