Disinnescare il Karabakh

L’International Crisis Group ha recentemente denunciato il rischio di un ritorno alla guerra in Nagorno Karabakh. Le reazioni in Azerbaijan, tra nuovi scenari internazionali e impossibile status quo: intervista a Leila Alieva, presidentessa del Centro per gli studi nazionali e internazionali di Baku

01/03/2011, Andrea Oskari Rossini -

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Shushi/Shusha, Nagorno Karabakh (Foto © Onnik Krikorian, 2009)

C’è il rischio di una nuova guerra in Nagorno Karabakh?

Credo che la probabilità di un ritorno al conflitto aperto sia maggiore oggi di quanto non fosse in passato. Alla fine dell’anno scorso i negoziati sono arrivati ad un punto morto, e questa non è una buona notizia.

Quali fattori potrebbero oggi spingere l’Azerbaijan alla guerra?

Il mantenimento dello status quo non è favorevole all’Azerbaijan. Nel nostro Paese c’è un numero di rifugiati e sfollati stimato intorno alle 600/800.000 persone. Aspettano da vent’anni di ritornare alle proprie case. Inoltre il 16% del territorio è sotto occupazione. Non si tratta solo della repubblica autonoma, ma anche di altre regioni. Questi fattori esercitano una forte pressione sulle autorità azere.

Se ci fosse una nuova guerra, che caratteristiche avrebbe rispetto a quella di 20 anni fa?

I due Paesi sono ad un livello totalmente differente rispetto ad allora, hanno fortemente aumentato le proprie capacità militari e modernizzato i propri apparati. L’Azerbaijan, in particolare, ha investito molto sulla Difesa, anche se credo che al momento voglia utilizzare il proprio budget militare solo come fattore negoziale.

Per fare pressioni al tavolo delle trattative?

Sì, ma la situazione sta cambiando in fretta. I fattori esterni, quanto sta avvenendo oggi nel mondo, potrebbero rendere la situazione interna più fragile e portare alla guerra.

La Russia è il principale mediatore nel conflitto tra Yerevan e Baku. Come valuta il ruolo di Mosca?

Leila Alieva

Leila Alieva

Questo conflitto rappresenta una delle chiavi di volta della politica russa nella regione. Per Mosca, il cambiamento dello status quo significa il rischio di perdere influenza nell’area. Credo che il ruolo della Russia sia sempre stato quello di mantenere la situazione così com’è. Ha sempre dato armi a entrambe le parti.

L’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo?

L’UE ha reagito in maniera diversa a conflitti molto simili nella regione. Nel caso della guerra tra Russia e Georgia l’Unione ha reagito immediatamente, con una posizione molto chiara, e ha inviato propri monitor. Nel caso della guerra azero-armena, invece, sia l’UE che l’OSCE non hanno preso posizione, lasciando sostanzialmente alle parti l’onere di negoziare. Ma se non ci sono attori esterni che offrano principi come base per la soluzione, il processo può andare avanti all’infinito. Ed è quello che sta succedendo.

Qual è l’atteggiamento della maggioranza degli azeri nei confronti di questo conflitto?

Il Karabakh è sempre presente nel dibattito pubblico, non si può prescinderne. E’ estremamente attuale, l’irrisolta questione del Karabakh è una delle priorità per ogni politico. Naturalmente ci sono anche altre questioni, in questo momento la corruzione o i problemi sociali, la mancanza di democrazia. C’è però la questione dei rifugiati che riporta sempre tutto al Karabakh.

Qual è la situazione dei rifugiati?

Per quanto riguarda la prima ondata, quelli che provenivano dall’Armenia, da Yerevan, si tratta di persone che si sono in larga parte integrate e hanno trovato una loro posizione nella società azera. Per quanto riguarda invece quelli che provengono dai territori occupati, dal Karabakh e dalle altre regioni, la situazione è diversa. Lì c’è stata una politica della terra bruciata, non è rimasto nulla. La popolazione è fuggita tutta insieme, ma non si è integrata nella nuova situazione. Si sono dovuti trasferire dalle montagne a territori molto caldi, in pianura. Sono molto diversi, sia da un punto di vista culturale che sociale e demografico.

Cosa si può fare per prevenire il rischio di un nuovo conflitto?

Ribadisco, un esempio molto buono è stato il coinvolgimento dell’Unione Europea nel conflitto russo-georgiano.

La mediazione europea però non è stata troppo efficace…

Ma è importante che quel conflitto abbia ricevuto l’attenzione dell’UE. Nel nostro caso, invece, l’OSCE ha fatto in modo che il conflitto fosse contenuto all’interno di un quadro “né pace né guerra”, una situazione che non danneggia gli interessi dei principali attori della regione. Gli investimenti infatti continuano, così come i progetti. L’Europa o gli Stati Uniti non sono danneggiati, e neppure la Russia. Questo però non può andare avanti indefinitamente, è quanto segnala il rapporto dell’ICG. Servono dei cambiamenti, e questo è quanto il rapporto non dice.

Quali?

Secondo l’ICG gli attori esterni dovrebbero fare pressione sulle parti per trovare una soluzione. Giusto, ma gli attori esterni devono avere un incentivo per farlo, e questo manca. Credo che questa situazione necessiti di soluzioni creative, originali.

Ad esempio?

Dobbiamo spostarci da un paradigma pre-moderno ad uno post-moderno. Le discussioni storiche sui confini ci bloccano, ci portano indietro. L’Unione Europea può offrire il superamento di questo paradigma, con il processo di integrazione, mettendo al centro la questione della qualità della vita. Sia l’Armenia che l’Azerbaijan hanno problemi molto grossi sotto il profilo della situazione politica interna. Diritti umani, democrazia, libertà dei media, corruzione. Tutto però si è bloccato a causa della guerra. Gli attori esterni dovrebbero aiutare le parti a spostare il conflitto su di un piano in cui i confini giocano un ruolo meno importante. Questo a sua volta può aiutare una dinamica di rinnovamento politico interno. Se i confini perdono rilevanza, se per la gente del Karabakh diventa meno importante essere legalmente soggetti a Baku o a Yerevan, possono esserci delle opportunità di soluzione.

Stiamo parlando di un processo di integrazione del Caucaso meridionale nell’Unione Europea?

Sì.

Al momento non sembra essere in vista…

Anche il solo percorso di avvicinamento può essere di aiuto, con innovazioni nel regime dei visti, l’assenza di dazi doganali… È nell’interesse dell’UE coinvolgersi. Esiste ad esempio una dimensione multilaterale nella sua Partnership Orientale, ma questa non funzionerà fino a quando Bruxelles non assumerà un ruolo nella soluzione del conflitto. Due Paesi che sono in uno stato di guerra non coopereranno, questo è ovvio.

Leila Alieva è presidentessa del Center for National and International Studies di Baku

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