Diritti di cittadinanza e libertà di movimento

Il documento introduttivo al seminario "Diritti di cittadinanza in un’Europa senza confini"

18/09/2003, Redazione -

1. Il quadro della situazione: verso una comune cittadinanza europea

L’ampio dibattito che ha accompagnato e tutt’oggi accompagna il percorso della Convenzione Europea ha tra i suoi punti importanti l’identificazione degli aspetti fondanti di una comune cittadinanza europea. Si tratta infatti di far emergere un nuovo concetto di cittadinanza in cui possano riconoscersi le diverse famiglie politiche, tanto nei paesi della "vecchia Europa" quanto in quelli di nuova o addirittura futura integrazione. E di superare così un modello statuale ormai in crisi, quello che fonda la cittadinanza sul principio nazionale, cioè su una identificazione tra Stato, nazione, territorio.
In passato, con il consolidarsi dello Stato e dell’ideologia nazionali, tale identificazione si è venuta definendo nell’immaginario sociale come un dato naturale e immutabile. E’ su questa identificazione "di sangue e di suolo" che si è fatto leva, nei Balcani, durante i dieci anni di guerre trascorse. Ed è su questa identificazione che ancora oggi si fa leva, nell’Europa dell’ovest, ogniqualvolta si propongono politiche migratorie miopi e restrittive.
Ma il principio che la cittadinanza si identifichi con la nazionalità è una costruzione storica, che nel tempo può cambiare. Oggi sta appunto cambiando in Europa, e questo mutamento può dare origine anche ad un diverso modo di concepire ed istituire la statualità. Tuttavia la prova che la nuova costruzione europea vuole superare ogni approccio nazionalistico – e garantire così la coesistenza pacifica tra i cittadini ad est così come ad ovest – sta nelle concrete politiche che saranno adottate dall’Unione Europea. Prime fra tutte quelle che riguardano le politiche migratorie e il diritto di movimento.
Una reale cittadinanza comune europea non si può avere se non con un’Europa dai confini permeabili, composta da nazionalità e culture eterogenee che trovano coesione nell’adesione ad alcuni principi e diritti fondamentali, costituzionalmente sanciti. E ciò vale anche per quelle aree d’Europa oggi escluse dal processo di integrazione istituzionale – come i paesi del sud est europeo – per i quali l’avvicinamento all’UE richiede un uguale nuovo approccio ai diritti di cittadinanza.

2. Alcuni elementi di analisi sulle politiche migratorie in Europa

2.1. La crisi del concetto di uguaglianza: la creazione di sistemi giuridici separati per i migranti

La politica dei singoli stati dell’Unione Europa e della stessa Unione negli ultimi anni ha dato vita ad un quadro assai problematico caratterizzato dai seguenti elementi:
1. Si è perseguita una sostanziale chiusura dei canali di ingresso regolare per lavoro dei cittadini extracomunitari, ovvero previsione di forme di ingresso regolare (cosiddetta regolamentazione dei flussi di ingresso) talmente ridotte in termini quantitativi e sottoposte a procedure burocratiche così complesse da rendere tali canali di ingresso del tutto inefficaci ed irrisori. Ipotesi diverse, che richiedevano di adottare una politica migratoria che permetta un incontro diretto tra domanda ed offerta di lavoro comprendente strumenti flessibili di gestione del fenomeno non sono state prese in adeguata considerazione. Si registra in ogni paese della UE un costante aumento della presenza di persone in condizioni di clandestinità o irregolarità di soggiorno che sono escluse dall’esercizio dei diritti fondamentali esposti ad ogni forma di sfruttamento e che costituiscono serbatoi straordinari per alimentare le varie forme di economia illegale.
2. La forte precarizzazione della posizione di soggiorno degli stranieri regolari riduce progressivamente la distanza tra "regolari" e irregolari" rendendo sempre più facile la caduta nella condizione di irregolarità. Tale situazione determina per gli stranieri condizioni di marginalità sociale e di scarsa integrazione e dialogo inter-culturale con le società di "accoglienza"vissute come ostili e spinge gli stessi stranieri regolari ad accettare situazioni di compressione fortissima dei propri diritti sociali, economici e sindacali fino alla realizzazione di vere forme di schiavitù.
3. L’assenza di canali e di procedure amministrative per la gestione degli ingressi regolari ha comportato che la grande criminalità internazionale abbia finito per assumere le funzioni che dovrebbero essere proprie degli apparati statali, ovvero organizza, regolamenta i flussi migratori per ciò che riguarda i viaggi verso i paesi di destinazione, sia, spesso, gestisce gli stessi canali di impiego degli stranieri nell’economia "illegale" ovvero controlla le innumerevoli nuove forme di grave sfruttamento e violenza sui migranti gestendone enormi profitti. L’enorme potere economico e politico assunto da tali organizzazioni dovrebbe indurre ad una profonda riflessione.
4. Gli aspetti più delicati sotto il profilo del possibile vulnus alla tradizione giuridica europea sono rappresentati da un lato dall’attribuzione alle autorità di polizia di poteri di controllo incisivi e largamente discrezionali che esorbitano del tutto dalla competenze proprie di prevenzione e repressione dei fenomeni criminali, dall’altro dalla creazione di forme di diritto penale "speciale" per gli stranieri, e dall’introduzione di forme di limitazione della libertà personale impensabili per i cittadini comunitari quali l’introduzione della cosiddetta detenzione amministrativa in assenza di reati e da una contestuale una forte compressione del diritto alla difesa effettiva.

2.2 Politiche migratorie e allargamento dell’UE: il rischio di nuove divisioni

La geometria variabile dell’allargamento ha implicazioni notevoli per i fenomeni migratori: da un lato determina tempi e necessità diverse, per i singoli paesi, di adattamento della propria legislazione in materia di libera circolazione delle persone e di giustizia e affari interni. Dall’altro l’espansione diseguale dello spazio Schengen traccia un confine di natura inedita attraverso i Balcani, carico di conseguenze sia per i paesi inclusi, che si troveranno a reggere il peso della frontiera esterna dell’Unione, sia per i paesi esclusi, i cui cittadini sperimenteranno notevoli difficoltà di movimento verso territori cui prima potevano accedere liberamente. E’ in questo senso che si afferma che, aprendosi, l’UE crea nuove esclusioni: è il caso ad esempio dei cittadini di Serbia e Montenegro che prossimamente saranno sottoposti a obbligo di visto d’ingresso per l’Ungheria, ovvero il caso dell’introduzione dei regimi di visto tra Polonia e Ucraina.
La nuova introduzione di visti tra paesi confinanti che hanno fra loro rilevanti legami storici e comuni interessi economici crea nuove divisioni e nuovi muri, alimenta contrasti e ostacola la crescita economica complessiva nei paesi dell’Europa orientale, isolando pericolosamente proprio paesi che presentano una notevole fragilità nel consolidamento delle istituzioni democratiche.
Per Bulgaria e Romania, tra l’altro, come per i paesi del primo allargamento, l’ingresso nell’Unione non significherà automaticamente l’accesso a tutti i benefici della cittadinanza UE. La libera circolazione dei lavoratori, ad esempio, verrà sottoposta a una moratoria, che potrà protrarsi fino a sette anni. E’ forte infatti il timore di alcuni paesi europei di subire una vera e propria invasione da est. E ciò nonostante l’abolizione dell’obbligo di visto per l’ingresso nell’UE dei cittadini di questi due paesi non abbia provocato alcun flusso inarrestabile. Anzi, analisi più generali suggeriscono che la maggiore facilità di movimento attraverso i confini abbia rafforzato tendenze già in atto, come flussi circolari e migrazioni selettive (cfr. negotiating position on chapter 2 "freedom of movement of persons", Conference on accession to the European Union – Bulgaria – Brussels, 26 june 2001).
Dal punto di vista delle buone pratiche, il caso di Bulgaria e Romania dovrebbe costituire perciò un precedente di indubbio interesse in relazione alle conseguenze e ai vantaggi di una politica liberale e flessibile di gestione delle frontiere da parte dell’UE, non irrigidita in uno sterile irrigidimento securitario.

2.3 Politiche migratorie e integrazione regionale del Sud Est Europa: come superare lo stato etnico

L’iniziativa del Patto di stabilità per il Sud Est Europa in materia di immigrazione e asilo (MAI) punta alla creazione di politiche migratorie e di asilo su base nazionale: la promozione della cooperazione regionale, che in tutti gli ambiti del Patto è presentata come la premessa indispensabile dell’adesione all’UE in senso pieno, sembra cedere il passo proprio nel campo delle politiche migratorie a una concezione più tradizionale e meno evolutiva della sovranità nazionale e dei confini. I singoli paesi presentano indubbiamente situazioni peculiari, ma la promozione attiva di uno spazio regionale aperto, se veramente si va nella direzione di un’integrazione piena di quest’area nelle istituzioni europee, potrebbe essere una politica decisamente più lungimirante della costruzione di microsistemi basati sui confini usciti dalle guerre dello scorso decennio.
In sintesi, nella politica dell’Europa in campo migratorio verso i paesi dei Balcani, sia prossimi all’ingresso nell’UE sia esclusi dall’allargamento, le preoccupazioni di natura sicuritaria sembrano ancora prevalere sulla possibilità di un ampio ripensamento del concetto di cittadinanza europea, in termini inclusivi, che associ al processo di allargamento un’idea di Europa più profonda. La storia recente dei Balcani, e i problemi che la regione ha tuttora di fronte, suggeriscono che sia possibile adottare un’idea di frontiera diversa, in una prospettiva di integrazione, e non di contenimento. cit. da Migraction Balcani
Un segnale interessante in tal senso è la recente sospensione del regime dei visti d’ingresso tra Croazia e Serbia Montenegro. Ma molto si potrebbe ancora fare per creare una vera zona di libero movimento, che preceda ed affianchi un’analoga zona di libero scambio per i beni di produzione regionale.

2.4 Visti, migrazioni, trafficking: quando l’eccesso di barriere crea illegalità

Negli ultimi anni il Sud Est Europa ha vissuto un coinvolgimento sempre più diretto col fenomeno del trafficking e dello smuggling, sia come luogo di provenienza che di transito. La questione del mercato di esseri umani dai/nei Balcani – schiavitù moderna nel cuore dell’Europa – non può essere concepita e fronteggiata soltanto attraverso il paradigma delle azioni individuali di vittime e carnefici. Occorre allargare lo sguardo e il raggio d’azione fino a comprendere il contesto più generale in cui il fenomeno avviene, segnato da problemi economici, da sospensione della tutela dello stato nei confronti dei cittadini e da politiche migratorie restrittive. In questo contesto, come già evidenziato in 2.1, la limitazione alla libertà di movimento delle persone consegna i migranti, determinati a cambiare vita ad ogni costo, nelle mani delle organizzazioni criminali. Adulti e bambini, uomini e donne, impossibilitati per legge ad attraversare le frontiere, tentano la fuga dal proprio paese, affidandosi alla rete di organizzazioni illegali che consentono l’oltrepassamento dei confini in cambio di ingenti somme di denaro. Ciò comporta la necessità di:
a) evitare che le vittime diventano semplici violatrici delle vigenti leggi sull’immigrazione e come tali siano deportate o rimpatriate addivenendo invece ad una politica europea di protezione delle vittime di tali traffici e ad una riflessione maggiormente approfondite dei legami tra fenomeni diversi ma che hanno forti connessioni tra loro quali il traffiching e lo smuggling. Sia la vigente legislazione italiana in materia sia le conclusioni della recente Conferenza Europea di Bruxelles (settembre 2002) sono segnali interessanti in questa direzione che vanno tuttavia maggiormente sviluppati;
b) considerare come la relazione tra il traffico di esseri umani e l’immigrazione chiami in causa le mancanze ed i gravi errori delle politiche migratorie attuate dai paesi europei, quantomeno in termini di inadeguatezza del sistema dei visti e delle condizioni di ingresso nei paesi dell’Europa dell’ovest.

3. Politiche d’asilo: tra il bisogno di armonizzazione ed i rischi di proposte regressive

3.1. Il processo di erosione del diritto d’asilo

In tutti i paesi della UE è in atto un allarmante processo di"erosione" del diritto d’asilo. I principali assi di tale processo sono:
3.1.1. L’attuazione, a volte "de iure", spesso "de facto" di aperte azioni di contrasto alla possibilità "fisica" del richiedente asilo di accedere alla procedura di asilo. Esse si attuano attraverso:
– azioni di "refoulement" di potenziali richiedenti asilo, classificati come "clandestini";
– applicazione degli accordi di riammissione dei migranti irregolari anche a stranieri che fuggono da situazioni di persecuzione e violenze ma il cui accesso alla procedura di asilo viene inibita;
– interpretazioni sempre più estese della nozione di "paese terzo sicuro".
3.1.2. La riduzione delle garanzie procedurali e delle forme di tutela giuridica dei richiedenti asilo realizzata principalmente attraverso:
– interpretazioni eccessivamente restrittive della Convenzione di Ginevra del 1951;
– affermazione di crescenti interferenze derivanti da valutazioni di "opportunità" sull’esame delle domande di asilo;
– restrizione delle previdenze assistenziali per richiedenti asilo e rifugiati;
– restrizioni della tutela giurisdizionale, fino ad una vanificazione dell’effettività dell’accesso alla tutela stessa;
– uso largo di forme di trattenimento o di vera e propria detenzione dei richiedenti asilo;
– attribuzione sempre maggiori di competenze agli organi di pubblica sicurezza in ogni fase della procedura di asilo (accesso, trattenimento, esame di merito), a fronte di una sempre maggiore restrizione dei poteri di controllo da parte delle organizzazioni indipendenti;
– largo utilizzo, nella gestione dei servizi di assistenza, di organizzazioni "umanitarie" che dichiarano di non occuparsi della "tutela giuridica" delle persone, bensì solo degli aspetti relativi alla stretta assistenza materiale e creazione di un clima di sospetto e di ostilità nei confronti degli enti di tutela "poco collaborativi".
La grave situazione sopra descritta sta portando ad un sostanziale snaturamento del processo di armonizzazione europea delle normative sul diritto d’asilo, ovvero sta dando luogo al fenomeno conosciuto come "armonizzazione verso il basso" attraverso:
a) definizione di standard minimi comunitari del tutto generici, in particolare per ciò che riguarda gli standard minimi di tutela giuridica;
b) presenza di larghe possibilità di deroga da parte degli Stati, dei principi sottoscritti in sede comunitaria;
c) mancanza di strumenti internazionali di controllo affidati ad enti indipendenti dal potere esecutivo dei singoli stati, e mancanza di controllo da parte di istituzioni della unione europea, in primis il Parlamento Europeo.

E’ necessario ripensare al diritto d’asilo in Europa tramite un approccio che sia in grado di sapere "leggere" tale fenomeno all’interno del più grande tema delle migrazioni internazionali. Tale necessità di fondare un nuovo approccio non mira affatto a svuotare il diritto d’asilo dalla sua specificità, bensì mira proprio a garantirla. In particolare va spezzato l’attuale circolo vizioso costituito da: " chiusura dei canali di ingresso regolare per migranti/utilizzo strumentale dell’asilo come mezzo per entrare nel territorio europeo/compressione crescente del diritto d’asilo"attuato al fine di impedire l’utilizzo strumentale delle istanze di asilo. Tale circuito vizioso sta producendo, come si è visto, un profondo degrado giuridico che sta portando alla sostanziale cancellazione di un diritto cardine del pensiero giuridico europeo quale il diritto d’asilo. La tutela dei principi inderogabili del diritto d’asilo e il superamento della chiusura dei canali legali di ingresso per migranti in cerca di lavoro sono fenomeni strettamente connessi che impongono di operare un "rovesciamento" dell’attuale impostazione dominante nella politica europea.

3.2. Il "trattenimento" dei rifugiati nel paesi dell’Europa Orientale

Nel preoccupante quadro sopra delineato, tra le proposte dei paesi UE per la gestione dei flussi migratori, merita particolare considerazione l’idea avanzata dalla Gran Bretagna di creare in Romania, Albania e Croazia centri di accoglienza transitori – finanziati dagli stessi stati membri dell’UE -, dove detenere ‘in attesa di giudizio" migranti e profughi che desiderano stabilirsi in uno dei paesi dell’Unione Europea. L’istituzione di un ‘limbo’ ai limiti dell’Unione Europea, al quale destinare gli sfollati che fuggono da zone di crisi prima di essere accettati o rifiutati dai Paesi del vecchio continente, rischierebbe infatti di riversare nei paesi dell’area balcanica un numero elevatissimo di migranti E’ questo il tipo di cooperazione che l’UE intende avviare con i futuri paesi membri? Quale identità della comune casa europea, quale idea di confine, prefigura questo tipo di proposta per la gestione di complesse questioni politiche come quella dei fenomeni migratori?
Sul piano giuridico la proposta pone infine insuperabili problemi per ciò che riguarda il rispetto dei principi fondamentali del diritto d’asilo previsti dalle normative internazionali ed in primis dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sul riconoscimento dello status di rifugiato.

3.3. Rifugiati e sfollati: una questione ancora aperta, una questione europea

I drammi prodotti dalle guerre degli scorsi dieci anni sono purtroppo tuttora presenti, e tra questi pesa in particolare quello di rifugiati e sfollati. Magari non lo si avverte apertamente, dopo anni dalla fine dei combattimenti, ma è un nodo che non può restare irrisolto.
In Croazia solo un terzo di chi è stato costretto a lasciare il Paese nella prima metà degli anni ’90 è oggi effettivamente rientrato. In Bosnia Erzegovina circa la metà dei due milioni di profughi causati dalla guerra ha fatto rientro nelle proprie case. Questo fa sì che il paese di oggi sia diverso da quello all’indomani della firma degli Accordi di Dayton, ma molti sono ancora i passi da compiere. Tuttora aperta poi è la ferita del Kossovo, dove è molto difficile operare per il rientro dei 230.000 sfollati. Senza dimenticare, infine, ‘gli esodi dimenticati’, come quello causato dagli scontri in Macedonia della primavera-estate del 2001: qui circa 10.000 sarebbero ancora gli sfollati interni.
Il rientro di ciascun profugo e sfollato nella propria casa, o la sua sistemazione definitiva in un luogo di sua scelta, è tuttora un passo fondamentale per la stabilità nella regione e per sconfiggere la logica della pulizia etnica. Oggi è quanto mai necessario che l’Unione Europea, e la comunità internazionale nel suo complesso, continuino ad investire risorse sui rientri, nonostante l’attenzione dell’opinione pubblica si sia spostata su altri luoghi di conflitto. Il modo per valorizzare le ingenti risorse spese giustamente in questo campo nell’ultimo decennio, non è certo interrompere un processo che così faticosamente si é riusciti a far partire. Perché non ci può essere Europa veramente unita se centinaia di migliaia di persone saranno ancora costrette a vivere fuori dalle proprie case.

4. Le proposte possibili

Alla luce di questo quadro, per dare concretezza alla costruzione di un’Europa che sia una terra ospitale e libera essenzialmente dalle proprie paure, proponiamo alcune possibili tracce d’azione:
– supportare la campagna del "Citizens’ Pact for the South Eastern Europe" per l’abolizione del sistema di visti all’interno del sud est Europa e tra quest’ultimo e l’area Schengen;
– studiare la possibilità di aree sperimentali di libera circolazione senza visti tra regioni limitrofe, e lo sviluppo di forti relazioni di cooperazione transfrontaliera (si pensi, ad es. all’area della regione pannonica, che comprende il triangolo di città collocabile tra Osijek in Croazia, Tuzla in Bosnia e la capitale della Vojvodina Novi Sad);
– promuovere il riconoscimento istituzionale del dirito d’asilo in mabito europeo e l’adozione di politiche omogenee in tal senso che possano avitare qualsiasi discriminazione (un primo passo in tal senso sarebbe quello di scartare fin da subito l’ipotesi dei "campi di transito" ai confini dell’Unione;
– creare un metwork europeo di associazioni che lottino contro la mafia e l’economia criminale;
– stimolare la Comunità internazionale ed innanzitutto l’UE a continuare a finanziare il rientro dei rifugiati e degli sfollati interni e monitorare e fare pressione sulle istituzioni locali del sud est Europa perchè favriscnao e non ostacolino I processi di rientro ed integrazione.

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