Dieci anni dopo: Balcani e Mediterraneo orientale al banco di prova della politica migratoria

A un decennio dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015, il Sud-Est Europa resta il punto nevralgico delle politiche migratorie europee. Un’emergenza temporanea si è trasformata in un laboratorio politico permanente, che intreccia solidarietà civile, deterrenza e logiche geopolitiche

08/10/2025, Daniela Ioniță -

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© Ajdin Kamber/Shutterstock

L’Europa che a Ventotene sognava un continente di pace e solidarietà oggi alza muri e associa la migrazione alla sicurezza. Nata su un’isola del Mediterraneo, ora dal Mediterraneo vuole difendersi: trasforma il mare in confine, la speranza in minaccia, la solidarietà in contratti con paesi terzi a cui delega azioni di confinamento e di violazione dei diritti umani. 

Il risultato è un’Europa più ostile verso la migrazione, che continua a ragionare e operare in termini emergenziali nei confronti di un fenomeno sociale strutturale che andrebbe affrontato come tale.

Negli ultimi dieci anni i flussi migratori verso l’Europa hanno seguito principalmente due direttrici: quella marittima attraverso il Mediterraneo e quella terrestre lungo le rotte balcaniche.

La rotta del Mediterraneo centrale, che coinvolge Libia, Tunisia, Malta e Italia, resta particolarmente attiva: secondo l’ultimo aggiornamento dell’OIM (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di migrazioni) al 15 settembre, si sono registrati oltre 48mila arrivi e 876 morti , un dato in crescita rispetto allo stesso periodo del 2024.

Parallelamente emergono nuove traiettorie, come il corridoio Libia-Creta, recentemente molto battuto , con partenze sempre più frequenti dalle aree controllate dal generale Khalifa Haftar e dalle sue milizie, che controllano la parte orientale della Libia.

Diversa la situazione lungo la rotta balcanica, dove i numeri mostrano un calo significativo negli anni. In Bosnia-Erzegovina, ad esempio, i passaggi irregolari sono scesi da 145.600 nel 2022 a 21.520 nel 2024, a causa del rafforzamento dei controlli e alla esternalizzazione dei confini sotto forma di cooperazione da parte dell’Unione Europea con le polizie di frontiera dei diversi paesi. Decisivo, in questo senso, è stato l’accordo operativo con Frontex , che ha reso possibili dispiegamenti congiunti lungo i confini.

La Grecia: il laboratorio europeo

Dalle isole dell’Egeo, diventate simbolo della crisi del 2015, Atene ha sperimentato per prima le politiche di contenimento volute da Bruxelles e poi riprese anche dall’Italia. Hotspot trasformati in centri di detenzione, esternalizzazione delle frontiere attraverso l’accordo con la Turchia del 2016 per bloccare le partenze e infine il dispiegamento massiccio di Frontex lungo i confini marittimi e al confine con la Bulgaria.

Le isole dell’Egeo restano – per chi solidarizza con le persone in movimento – il simbolo del fallimento europeo: Lesbo, Chios e Samos, che accolsero 850mila persone nel solo 2015, sono diventate prigioni a cielo aperto. Da allora il paese ha vissuto sulla propria pelle la trasformazione del Mediterraneo orientale in un muro liquido, fatto di respingimenti sistematici, sorveglianza militare e campi sovraffollati.

Luoghi, questi ultimi, che spesso diventano teatro di incidenti gravi, come Moria, un inferno creato dall’Europa andato a fuoco nel 2020: un centro che avrebbe dovuto ospitare tremila persone e ne ospitava 20mila, in condizioni disumane, senza servizi igienici adeguati, con file interminabili per il cibo e la totale assenza di assistenza medica sufficiente. Dopo l’incendio, 11.500 persone rimasero per strada, e l’Europa palesò la crisi umanitaria creata dalle sue stesse politiche.

Dopo Moria, si costruirono altri campi, a prova di fuga, maggiormente recintati e sorvegliati, lasciando corpi in confinamento perenne negli hotspot e nei centri di detenzione, oltre che aumentando i respingimenti grazie a Frontex ai confini con Bulgaria e Turchia per ridurre gli arrivi. 

La Grecia, in questo senso, ha anticipato e ispirato il modello che oggi l’Unione vuole estendere a tutta la sua frontiera esterna con il nuovo Patto su migrazione e asilo: più controlli, più barriere, più rimpatri, meno diritti. Secondo Bruxelles, gli investimenti europei – oltre 5 miliardi di euro dal 2015 – hanno migliorato infrastrutture, procedure e protezione dei gruppi vulnerabili nel paese, al punto da non riscontrare più “deficienze sistemiche” nel sistema greco.

Il commissario UE Magnus Brunner ha ribadito da Atene che “i rimpatri sono una priorità” e ha chiesto una rapida attuazione proprio del nuovo Patto, che entrerà in vigore nel 2026. 

La rotta balcanica e la militarizzazione delle frontiere

Dal 2016, con la “chiusura della rotta balcanica”, Macedonia del Nord e Serbia si sono trasformate in paesi cuscinetto, spesso scenario di respingimenti violenti. Testimonianze raccolte da ONG come Border Violence Monitoring Network parlano di pestaggi, uso di cani e confisca di telefoni e scarpe da parte della polizia e di milizie autonome.

Più a nord, Ungheria e Croazia hanno istituzionalizzato i respingimenti, nonostante le condanne della Corte di Giustizia UE. Video diffusi da organizzazioni come Bloody Borders documentano ferite, manganelli e umiliazioni.

L’UE negli anni ha rafforzato la cooperazione per l’esternalizzazione dei confini con i paesi della regione attraverso vari strumenti, come IPA III , che prevede di destinare oltre 350 milioni di euro alla gestione migratoria e al controllo frontiere; gli accordi sullo status di Frontex con Albania, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord e Bosnia Erzegovina, che consentono operazioni congiunte con Frontex; e infine l’Action Plan 2022 creato dal Consiglio dell’Unione Europea e l’EUAA (l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo) per i Balcani occidentali, che punta a velocizzare le procedure, rafforzare le capacità locali, contrastare il traffico illegale di esseri umani e potenziare i rimpatri. 

Con il progetto dei centri di detenzione e rimpatrio, costruiti in Albania con fondi italiani a seguito di un accordo tra i capi di governo dei due paesi, nell’area c’è un nuovo strumento di esternalizzazione. Costati centinaia di milioni di euro, i centri di Gjader e Shengjin dovrebbero servire per esaminare le richieste di asilo e rimpatrio fuori dall’Italia.

Il Tavolo Asilo e Migrazione, una rete di associazioni italiane impegnate nella tutela delle persone migranti, sottolinea che il modello Albania potrebbe comportare gravi rischi di violazione dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda il diritto alla protezione internazionale e il principio di non respingimento. 

Parallelamente a questo sistema sempre più chiuso e ostile, è emersa una rete di solidarietà diffusa, capace di sfidare le logiche di esclusione: attivisti e comunità locali sulle isole greche, nei villaggi serbi e bosniaci e lungo la rotta balcanica e ai confini della Fortezza Europa come come Blindspots , Collettivo Rotte Balcaniche , Collective AID , I Have Rights , No Name Kitchen e altre ancora, la società civile con navi di soccorso nel Mediterraneo con la civil fleet , hanno costruito corridoi umanitari improvvisati, distribuito cibo e cure, offerto riparo e supporto legale.

Sono reti che resistono alle politiche della Fortezza Europa e dei doppi standard di matrice neo-coloniale, incarnando un’alternativa e una visione possibile, in cui la libertà di movimento è un diritto imprescindibile.

Dimitris Angelidis (EfSyn, Grecia) ha contribuito alla realizzazione di questo articolo.

 

Questo articolo è stato prodotto nell’ambito di PULSE, un’iniziativa europea coordinata da OBCT che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali.

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