Di chi sono i media albanesi?

Tra pressioni politiche e capitalismo selvaggio, fare il giornalista in Albania è un mestiere difficile. Lo racconta Axel Kronholm, giornalista finlandese che ha dedicato la sua tesi di laurea alla libertà di stampa nel paese

18/03/2013, Marjola Rukaj -

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Ci sono circa 300 organi di informazione in Albania, un paese di più o meno 3 milioni di persone. Non è strano?

La maggior parte di questi organi sono piccoli e/o locali. L’anno scorso vi erano 26 quotidiani nazionali pubblicati in Albania, con una diffusione complessiva di non più di 70.000 copie. Oltre a questi vi sono un gran numero di stazioni radiotelevisive locali. Non è poi così strano se si considera il recente passato di dittatura ermetica dell’Albania. Dal momento in cui il mercato dei media si è aperto, insieme a tutta la società, un numero impressionante di mezzi di comunicazione sono spuntati in tutto il paese.

Come fanno a sopravvivere?

Dipende da quali media si intende. I media principali sono in grado di sopravvivere, più o meno, dovrei dire, attraverso la pubblicità che attirano per il fatto stesso di essere i più grandi. Ma una spiegazione per il gran numero di diversi giornali è che molti di essi sono parte di, e sostenuti da, un’altra impresa, per il quale quel giornale o televisione è un investimento, uno strumento di influenza. In sostanza, lavorano come organo di pubbliche relazioni per quella particolare attività e possono essere utilizzati sia per attaccare dei politici, che per corteggiarli con reportage a loro favorevoli. In un certo senso credo che rappresenti anche una questione di status per gli uomini d’affari.

Freedom House e Reporters Without Borders segnalano che la libertà dei media in Albania sta peggiorando di anno in anno.

I giornalisti e i mezzi di comunicazione in Albania fanno fronte a una costante pressione da parte del governo e delle imprese – spesso questi due elementi non sono così facili da separare – in modo che possiamo certamente descrivere come "rilevante". E nel 2011 diversi giornalisti sono stati aggrediti mentre seguivano le proteste violente di gennaio.

Come riescono ad influire governo e uomini d’affari sui mezzi di comunicazione?

In diversi modi. Nel modo più diretto, usando il denaro. Con il rischio di essere un po’ semplicistici, si potrebbe dire che acquistano i mezzi di comunicazione. Con la loro difficile situazione finanziaria, i media albanesi sono dipendenti dalla pubblicità. Il governo ha un budget pubblicitario per tutti i suoi ministeri – in totale circa 15 milioni di euro ogni anno. La maggior parte di questi fondi è dato a quelli che si potrebbero chiamare media filo-governativi, premiandoli per la loro linea e, al tempo stesso, punendo i media di opposizione che sbilanciano la concorrenza in favore degli oppositori. Questa pratica è stata descritta da quasi tutti i giornalisti – da entrambi i lati dello spettro politico – che ho intervistato per la mia tesi.

La pubblicità privata si basa su principi simili. È difficile separare politica e affari in Albania, sono strettamente interconnessi. Il panorama dei media qui è polarizzato lungo linee politiche, il che significa che se si dispone di un’azienda e la si pubblicizza con i media di opposizione, questo è visto come un sostegno attivo non solo al mezzo di informazione, ma all’opposizione politica stessa. I titolari delle società sono ben consapevoli di questo e sanno che chi sceglieranno come media-partner avrà un impatto sulle loro relazioni con lo stato.

C’è qualche tipo di censura o di autocensura in atto?

Non una censura in senso reale o classico della parola, con uno stato censore che controlla ciò che viene pubblicato. Vi è tuttavia un problema di auto-censura, che ha molto a che fare con le forme di occupazione precarie dei giornalisti e il mercato del lavoro informale.

La maggior parte dei giornalisti lavora per ore senza alcun tipo di contratto. Oltre al potenziale rischio di perdere il lavoro o non essere pagati, vi è la preoccupazione di pressioni fisiche. Per fortuna, gli attacchi ai giornalisti non sono fatto di ogni giorno, ma comunque si verificano e la sola idea di tale rischio rende l’ambiente di lavoro ancora più insicuro.

Naturalmente è difficile misurare qualcosa come l’autocensura, e l’unica cosa che ho potuto cogliere dai miei colloqui con i giornalisti albanesi è che lo vedono come un problema grave e che molti di loro praticano un’autocensura, in un modo o nell’altro. Freedom House ha descritto questo fenomeno come "comune", qualcosa che i giornalisti vedono come necessario per mantenere il posto di lavoro o avanzare nella loro carriera.

Quanto è importante il sindacato dei giornalisti (UAJ) in Albania?

Il mercato del lavoro informale è un problema in tutti i settori della società albanese, non solo nel settore dei media. Penso che gli albanesi avrebbero molto da guadagnare dal rafforzamento di sindacati e associazioni. Il UAJ fa un buon lavoro, ma purtroppo la sua influenza è limitata. Uno dei motivi è, naturalmente, il panorama polarizzato dei media, che rende più difficile per la professione lavorare insieme nel suo complesso verso un cambiamento sostanziale.

Molti giornalisti brillanti in Albania hanno lasciato il giornalismo o hanno lasciato il paese negli ultimi anni…  

Anche questo ha a che vedere con la situazione finanziaria dei media. È difficile trattenere il talento nella professione se non ci si può permettere di competere con gli stipendi che questi giornalisti brillanti possono ottenere avendo un altro posto di lavoro, spesso più sicuro. Naturalmente è uno sviluppo molto preoccupante. Ciò compromette ulteriormente il ruolo dei media come forza di cambiamento sociale. Perdere talenti significa anche che i giornalisti, in generale, sono più vulnerabili alle pressioni politiche.

Com’è dunque essere un giornalista in Albania, dal punto di vista economico?

Questo ci riporta alla questione del mercato del lavoro informale e ai rapporti di lavoro albanesi. Ilda Londo dell’Albanian Media Institute ha fatto uno studio molto interessante sui retroscena dei rapporti di lavoro nei media, nel 2007. In breve e in generale, posso dire che la maggior parte dei giornalisti hanno problemi con i ritardi di pagamento e con gli stipendi. Ritardi fino a 2 mesi non sono inauditi. Inoltre, i giornalisti non sono fiduciosi sulla sicurezza del loro impiego, come Ilda Londo ha dimostrato nei suoi studi, anche se stanno lavorando con un contratto, cosa insolita. Questa insicurezza senza dubbio favorisce l’autocensura, in cui i giornalisti devono essere consapevoli degli interessi specifici dei proprietari o degli editori dell’organo di stampa.

Vi è giornalismo investigativo in Albania?

 Penso che, nonostante gli ovvi pericoli, ci siano molti giornalisti coraggiosi in Albania, che si mettono in prima linea per portare storie importanti al pubblico. Solo nel corso degli ultimi anni, i giornalisti albanesi hanno denunciato ministri corrotti e scoperto massicce importazioni illegali di rifiuti tossici. Detto questo, ci sono ovviamente ancora molti soggetti che rimangono "off limits", per così dire, nel senso che parlarne comporta un grande rischio.

La criminalità organizzata ne è l’esempio più evidente. Ma c’è ancora una manciata di giornalisti coraggiosi che si occupano anche di questo tipo di storie. Ciò che mi preoccupa è che potrebbero esservi sempre meno investigazioni di questo tipo. Il giornalismo d’inchiesta è costoso e richiede molto tempo, ma non porta nessuna pubblicità. Al contrario. Inoltre, il giornalismo investigativo non è senza rischi per i singoli giornalisti. Questo non fa ben sperare.

E per quanto riguarda l’accesso ai pubblici registri e ai dati? È un problema per i giornalisti?

Sì, lo è. Naturalmente dipende da quale giornalista fa richiesta, e per quali documenti. Ma in generale, il diritto dei cittadini di accedere alle informazioni entro il tempo di attesa regolamentato non è rispettato.

 

Axel Kronholm è anche su Twitter

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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