Dentro l’industria tessile georgiana: controllo
Robot che trasportano magliette Nike nella fabbrica mentre televisori con schermi al plasma incitano i lavoratori a lavorare più velocemente. Nella terza e ultima parte di un’inchiesta di OC Media sull’industria tessile in Georgia, la giornalista investigativa Tamuna Chkareuli si reca in incognito in una fabbrica hi-tech di Poti
(Pubblicato originariamente da OC Media il 02 marzo 2020)
Leggi la prima e la seconda parte dell’inchiesta.
Immagina di essere una donna di quarant’anni della città portuale industriale di Poti, in Georgia. Tuo marito lavora probabilmente al porto, forse alla dogana o nei trasporti. Hai due figli che vanno all’università o a scuola.
Hai dei debiti e lo stipendio di tuo marito non è sufficiente, quindi continui a risparmiare. Non esci – non che ci sia qualche posto dove andare, seppure lo volessi. Non vai in vacanza.
I tuoi unici passatempi consistono nel parlare al telefono con i tuoi parenti e nell’andare a trovare i vicini. Non vai da un medico da anni, nonostante quel persistente dolore al petto. Preferisci risparmiare su tutto perché i ragazzi hanno bisogno di un’istruzione. Magari riusciranno ad uscire da questa città, dove non ci sono prospettive per loro.
O magari sei più giovane, una di quelle ragazze che i genitori non potevano permettersi di mandare a Tbilisi o a Batumi per studiare; quindi ora sei bloccata a Poti.
L’unico lavoro che una donna come te può avere è nelle strutture ricettive o in banca. Ma quei lavori sono sottopagati e, in ogni caso, non parli inglese, dunque non verresti mai assunta. Gran parte delle tue amiche ha lasciato la città o si è sposata, e tu sei alla disperata ricerca di un cambiamento qualsiasi nella tua vita.
O magari vivi in uno di quei paesi vicino a Poti dove non c’è nessun posto di lavoro.
O sei una pensionata che sta faticando per avere un’entrata economica per non essere un peso sulla sua famiglia.
Non importa chi sei, fintanto che non hai opportunità ma vuoi lavorare. Stai iniziando a pensare ad andare in Turchia per lavori stagionali, quando altre donne come te hanno sentito parlare della “Grande fabbrica”.
Forse era un’amica, o forse una vicina, ad averti parlato di questo posto dicendo che assumeva tutti, letteralmente. Non c’era bisogno di esperienza.
Sei sbalordita. Può essere vero?
Raccogli il coraggio necessario per andare e chiedere un lavoro. Appena entrata, sei impressionata dal posto. Grande, pulito, organizzato. Ma ancora di più, sei stupita delle condizioni che ti hanno offerto – trasporti e cibo gratuiti e uno stipendio che “dipende interamente” – come ti ha detto il rappresentante della fabbrica, “dal tuo desiderio di lavorare”.
Senza parole, accetti.
Ti danno una serie di documenti e ti dicono velocemente cosa firmare e dove. Il responsabile delle risorse umane ti dà poi un foglio con scritto a caratteri molto grandi “Ho letto, compreso e accettato”. Devi copiare qui queste parole, ti dicono. Lo stipendio è un po’ basso, ma è sicuramente migliore di quello che hai ora. Firmi l’ultimo foglio.
Questo non è accaduto a me. Non esattamente così. Ma è accaduto alle mie colleghe, che mi hanno raccontato le loro storie. E quando ho fatto domanda alla filiale di Poti di Ajara Textile, ho finto di essere una di quelle donne.
Ajara Textile
Ajara Textile è una filiale della turca Abay Uluslararasi Tekstil Turizm ve Yatirim (Abay International Tessile Turismo e Investimenti), a sua volta una controllata di Aceka holding, una grande compagnia turca che opera nel settore tessile da più di sessant’anni.
Ajara textile ha tre sedi in Georgia: a Poti, Batumi e Bobokvati. Impiega circa 3000 persone.
La sede di Poti è stata sostenuta dal governo georgiano con un prestito di 9,2 milioni di lari (3,3 milioni di dollari) attraverso il programma Produrre in Georgia (conosciuto anche come Impresa Georgia). Ha prodotto le maglie delle nazionali polacca e croata per i mondiali di calcio del 2018, e quelle della nazionale italiana del 2012.
La giunta comunale di Poti ha dichiarato a OC Media che prima dell’apertura della fabbrica, alla fine del 2017, rappresentanti della società ebbero diverse consultazioni con l’allora presidente della giunta Aleksandre Topuria, che da quel momento abbandonò la funzione pubblica.
Topuria negò di aver avuto contatti con la società, dichiarando che il suo unico interesse fu quello di “creare più posti di lavoro” nella regione e che il suo coinvolgimento non andò oltre, “offrendo ai direttori turchi di aprire una filiale qui [a Poti] tramite un conoscente”.
Dopo le dimissioni, Aleksandre Topuria divenne il direttore generale di un’altra industria tessile di Poti in comproprietà turca.
Entrare nella fabbrica
Per entrare nella fabbrica in un giorno qualsiasi, un lavoratore deve passare per dei cancelli circondati su ogni lato da alte mura sormontate da un filo spinato; i lavoratori sono solitamente condotti all’interno con dei minibus dell’azienda.
Tra le mura, la fabbrica è controllata da guardie, uomini dalla faccia seria con tute grigie. All’interno le guardie sono invece donne, per consentire le perquisizioni nel caso in cui una lavoratrice si comporti in modo sospetto.
Sotto lo sguardo attento delle guardie, le lavoratrici passano per l’entrata principale, dotata di un piccolo lettore di impronte digitali. Lo scanner garantisce che solo i lavoratori della fabbrica entrino o escano dalla porta principale, ma funziona anche da timbratore del cartellino biometrico, registrando gli orari di arrivo e le assenze.
Si arriva poi allo spogliatoio, dove si indossa l’uniforme, solitamente una tuta blu o arancione, e si posa il cellulare in un armadietto – affinché non vengano scattate foto di segreti industriali.
Dopo lo spogliatoio si passa attraverso un metal detector; se suona, si viene perquisiti attentamente. Ad Ajara Textile lo spionaggio viene trattato molto seriamente.
A differenza di Geo-M-Tex, la fabbrica in cui mi ero infiltrata precedentemente, l’Ajara Textile era molto pulita, ordinata e tecnologica. L’edificio stesso è su un solo piano, un capannone grande abbastanza da contenere diversi Boeing 747.
La struttura è divisa in diverse grandi sezioni, ognuna designata per una fase specifica della produzione (cucito, taglio, eccetera). In ogni sezione ci sono file e file di tavoli dove le lavoratrici sono sedute di fronte alla macchina, ognuna delle quali svolge un’attività specifica molto rapidamente (ad esempio, applicare un ricamo a una camicia).
Tra i tavoli e in fondo alle sale ci sono grossi segni a terra, per i robot che pattugliano costantemente la fabbrica. Da quello che ho potuto vedere, scansionano i segni per orientarsi.
I robot servono per spostare nel modo più efficace grosse quantità di capi prodotti all’interno della fabbrica, assicurando che il tessuto grezzo sia trasformato in una maglietta in tempi brevi e costanti.
Le lavoratrici sembrano spaventate dai robot, non solo perché questi si muovono senza badare a chi potrebbe essere sul loro percorso. I robot, quando prendono i vestiti dai tavoli delle lavoratrici, non chiedono se la persona ha bisogno di un po’ di tempo in più, né rispondono alle richieste come “dammi solo un momento!”. Operano con un’efficienza fredda e meccanica al servizio di determinate quote di produzione.
Se una lavoratrice solleva lo sguardo, può vedere televisori al plasma appesi al soffitto della fabbrica. Questi cambiano continuamente i numeri, riportando le percentuali della quota di produzione che sono state raggiunte dalle lavoratrici in qualsiasi momento – in questo modo spingendole a tenere il passo o aumentare il ritmo.
Gli scarti
“Non è così male qui”, dissi a Inga, la donna che si occupava del mio apprendistato in fabbrica. La mia voce tremava ancora a causa di tutti i controlli di sicurezza che avevo dovuto attraversare per entrare.
“Parliamone tra un mese”, mi rispose. Inga lavorava nella fabbrica da un anno e mezzo e, non essendoci alternative migliori, ci si era abituata.
Aveva iniziato da apprendista come me.
Mi condusse nel luogo dove avrei svolto la formazione. Era l’area della fabbrica più grande e silenziosa. Iniziai presto a pensare alle persone che lavoravano lì come “scarti”.
Ajara Textile, come molte altre fabbriche nei paesi ex comunisti, organizza gli operai in “brigate”, gruppi di lavoratori che costituiscono un team produttivo. Quando una brigata diventa molto efficiente, viene solitamente smantellata di modo che gli operai si uniscano ad altre brigate e le velocizzino.
Sebbene questa possa sembrare una buona strategia per velocizzare la produzione, alcuni operai non vengono riassegnati ad una nuova brigata. Questi lavoratori sono gli "scarti". Ricevono incarichi minori, come cucire le etichette o rimediare ai piccoli errori. Nonostante la condizione di scarto sia temporanea, poiché prima o poi verranno formate brigate con tutti loro, rimane comunque una posizione indesiderata, poiché il lavoratore non riceve i bonus salariali che ricevono le persone nella brigata.
Gli apprendisti come me lavoravano fianco a fianco con gli scarti. Anche noi saremmo diventati parte delle brigate costituite con loro.
I piani di lavoro per queste nuove brigate sono sempre pronti prima che ci siano tutti i lavoratori necessari, bisogna solo riempire le postazioni. Così, dal momento in cui è iniziata la mia formazione, sono stata messa alla macchina con la quale avrei lavorato in seguito come parte di una brigata.
Dal momento in cui sono entrata in quella stanza, ho capito che ad Ajara Textile tutto e tutti avevano un loro posto.
Condotta e sanzioni
Il secondo giorno tutti i nuovi impiegati, inclusa me, sono stati chiamati nella sala riunioni. Lì abbiamo seguito un corso di formazione condotto da Achi Martalishvili, un uomo giovane ed energico delle risorse umane che ci parlava con tono gentile e ci definiva i suoi “cari amici”.
Ci ha dato informazioni sui nostri contratti e sulle regole interne dell’azienda.
Il contratto ad Ajara Textile prevede uno stipendio base di 300 lari (100 dollari) al mese, per 45 ore di lavoro a settimana. La paga oraria è dunque di 1,33 lari (0,47 dollari). I lavoratori ottengono una paga del 50% più alta per ogni ora di straordinario, mentre la raddoppiano se lavorano nel fine settimana o nei festivi. Secondo la compagnia, questi parametri sono stati determinati guardando ai “dati sugli stipendi degli impiegati nel settore in Georgia”.
“Dopo un mese di lavoro passerete al sistema di bonus”, ci ha detto Martalishvili.
Il sistema di bonus esiste sia a livello individuale che a livello di brigata.
A livello individuale esistono tre diversi bonus: un bonus per la condotta che può arrivare a 20 lari (7,20 dollari) al mese; uno “star” bonus di altri 20 lari per il superamento dei test di utilizzo di nuovi macchinari e un bonus di presenza perfetta di 10 lari (3,60 dollari).
Martalishvili ci ha descritto il sistema in modo raggiante. “Potete ricevere un extra totale di 50 lari praticamente senza fare niente”, ha detto.
Tuttavia, questa opportunità di guadagnare senza sforzi apparenti si trasforma in un metodo di sanzione. Ognuno dei tre bonus descritti è accompagnato da una serie di violazioni che ne riducono il valore. Ad esempio, una performance imprecisa nell’utilizzo dei macchinari abbassa lo “star” bonus, mentre le assenze abbassano il bonus di presenza.
Il bonus per la condotta è il più complesso, con una lunga lista di infrazioni che lo abbassano. Ognuna di queste infrazioni porta all’incirca alla sottrazione di 2 lari. Le infrazioni vanno dall’essere specifiche all’essere estremamente generiche, come mangiare o bere sul posto di lavoro, parlare con una collega mentre si lavora, non fare ciò che viene detto e ignorare un errore.
Peggio ancora, la lista delle infrazioni è menzionata sbrigativamente durante la formazione. Bisogna riuscire a memorizzarla, cosa quasi impossibile da fare. Come risultato, mentre sei al lavoro finisci per controllare ogni tua mossa in maniera eccessiva, cercando di non infrangere nessuna regola reale o forse solo immaginata. Tutto questo è mentalmente estenuante.
In confronto a questo, il bonus brigata è relativamente semplice.
Per ogni capo viene stabilita una certa quantità da produrre in un determinato periodo di tempo. Quando una brigata arriva al 60% della quota, tutti i membri ricevono immediatamente un bonus di 10 lari (3,60 dollari), mentre quando arriva al 100% il bonus è aumentato a 50 lari (18 dollari).
Il bonus brigata dipende tuttavia dai controlli di qualità, che sono diversi per ogni marca. Quando abbiamo lavorato sulle magliette Nike, ad esempio, sono stati scelti casualmente 30 capi prodotti da ogni brigata. Se fossero stati al di sotto dello standard, l’intero lotto sarebbe stato rimandato indietro.
Ogni lotto rimandato indietro diminuisce il bonus brigata.
Per alcune lavoratrici i bonus sono una percentuale significativa dello stipendio mensile.
Achi Martalishvili ci ha detto che ad Ajara Textile erano fieri della loro politica “no-fines”.
Dopo aver ascoltato il suo discorso abbiamo svolto due test di valutazione, uno sugli stipendi e uno sui rischi per salute e sicurezza, che abbiamo superato. Come faccio a saperlo? Martalishvili ci ha dato le risposte. Sembrava che volesse solo finire quei test.
Uno dei rischi per salute e sicurezza menzionati nel test era il pericolo di sviluppare problemi alla schiena durante il lavoro. Ci veniva suggerito di alzarci ogni tanto e fare un esercizio per tre o quattro minuti durante il lavoro per risolvere il problema. Quando ho iniziato a lavorare ho visto che nessuno faceva questi esercizi.
Nessuna delle lavoratrici sembrava intenzionata a perdere il bonus brigata per la produttività per qualcosa così futile come il benessere fisico.
Just do it
Per nove ore al giorno imparavo a inserire velocemente il filo nella macchina da cucire e a cucire linee dritte che sarebbero diventate di lì a poco la base delle magliette Dri-FIT della Nike , le stesse alle quali le lavoratrici a fianco a me stavano mettendo l’etichetta per essere poi impacchettate e spedite in Europa.
Le magliette che non superavano il controllo qualità erano contrassegnate “tamir”, “sistemare” in turco.
Ho scoperto in seguito che non tutte le magliette segnate come “tamir” erano rimandate indietro per essere sistemate. Alcune di queste venivano vendute alle lavoratrici della fabbrica.
Una collega mi descrisse il processo. Le scatole con i vestiti etichettati “tamir” venivano messe fuori, dietro la fabbrica, e alle lavoratrici era data la possibilità di acquistarli a un prezzo inferiore.
Mi raccomandò fortemente di non partecipare a questa “pazzia”.
“Si uccidono per quelle magliette”, mi ha detto.
Pazzia o no, per l’azienda sembrava un sistema brillante. Riuscivano a guadagnare doppiamente dagli stock fallati: innanzitutto, toglievano soldi alle lavoratrici per aver prodotto capi al di sotto degli standard; in secondo luogo, vendendo loro quegli stessi capi.
Dopo il mio tempo trascorso ad Ajara Textile, ho contattato l’azienda per avere un commento su questa pratica.
“Ogni tanto le lavoratrici possono acquistare ad un prezzo simbolico i capi che producono gli apprendisti nel periodo di prova”, hanno scritto. “In questo modo l’azienda incoraggia e sostiene i suoi impiegati”.
Lavorare ad Ajara Textile non era facile, tutte le operazioni richiedevano accuratezza e buon occhio; era importante persino il modo in cui si teneva il materiale – ma le lavoratrici erano all’altezza del compito. Rimasi sorpresa di quanto lavorassero velocemente ed accuratamente.
Tuttavia, nonostante le loro abilità, la velocità sembrava rimanere sempre un problema. Attraverso il rumore di centinaia di macchine da cucire e della musica eccessivamente alta (che secondo loro, era stata richiesta dalle lavoratrici stesse), potevo sempre sentire le urla dei supervisori delle brigate che intimavano ai loro subordinati di lavorare più velocemente.
Ogni tanto qualche lavoratrice si sentiva chiamare per nome e cognome dagli altoparlanti. Doveva “presentarsi immediatamente all’amministrazione”. Non sapevi mai il perché. Poteva essere per un richiamo a causa di una violazione disciplinare, per una richiesta o una promozione. Ma nessuno lo sapeva, neanche le persone che venivano chiamate.
Avevamo tre pause: dieci minuti al mattino e nel tardo pomeriggio, quarantacinque minuti per il pranzo. Le pause erano annunciate dal suono di una campanella.
Per la pausa pranzo ci affrettavamo ad andare nella mensa, dove ci veniva servita una zuppa di patate, qualche cetriolo e un pezzo di pane. Dopo pranzo le lavoratrici avevano un po’ di tempo per riposarsi, ma rimanevano nell’area della fabbrica, che includeva un piccolo parco e un laghetto.
Nelle pause più brevi le donne parlavano con le loro vicine o facevano telefonate (erano gli unici momenti in cui potevano farlo). Nessuna sembrava felice, ma se ne erano fatte una ragione. Alla fine era meglio di molti altri lavori in fabbrica disponibili nel paese, specialmente se si considerano le basse opportunità che offre Poti.
“Era molto difficile all’inizio”, mi ha detto una ragazza che lavorava a fianco a me. “Ma ora mi sono abituata”.
Mi ha persino incoraggiato, dicendomi che una volta unita a una brigata, avrei guadagnato di più. Anche se i ritmi di lavoro sarebbero stati più veloci, ne sarebbe valsa la pena. Lei era uno “scarto”, e come le altre nella sua condizione, sognava di essere di nuovo parte di una brigata.
La campanella di fine giornata suona alle 19:00. Prima di lasciare la fabbrica, tutte le lavoratrici si raggruppano vicino all’uscita dove gli addetti alla sicurezza controllano le borse. Ci vuole parecchio tempo dato che vengono controllate oltre mille persone.
Dopo essere state autorizzate a lasciare le fabbriche, molte delle donne si dirigono verso i minibus che le avrebbero portate a casa. A parte me, erano poche le donne che preferivano camminare.
Il fattore paura
All’inizio del 2018 una giovane lavoratrice, Sopio Gogoladze, lasciò il lavoro ad Ajara Textile dopo uno scontro con la direzione. Era arrivata con cinque minuti di ritardo alla sua postazione di lavoro dopo la pausa perché era andata in bagno.
Quando tornò alla catena di montaggio, ricevette un trattamento umiliante da parte del supervisore della sua brigata. Si lamentò con le risorse umane, ma Achi Martalishvili le disse che non aveva il diritto di usare il bagno senza permesso.
“Mi disse letteralmente che il supervisore aveva il diritto di comportarsi in quel modo se stavo rallentando la produzione”, mi ha detto Sopio. “Ha parlato con così tanta arroganza che ho deciso di licenziarmi. Non potevo accettare questo tipo di comportamenti”.
Sopio promise ad Achi che sarebbe tornata con rappresentanti del sindacato e giornalisti al seguito. Il giovane responsabile delle risorse umane rispose che non avrebbe mai trovato un lavoro con condizioni migliori di Ajara textile.
Sopio cercò di tener fede alla minaccia fatta ed entrò in contatto con Giorgi Diasamidze, un dirigente sindacale della Georgian Trade Union Confederation (GTUC). Lui le consigliò di riunire più colleghe e di iniziare ad organizzarsi e lottare come collettivo.
“Purtroppo, erano troppo spaventate. Solo una persona venne all’incontro di GTUC – un’addetta alle pulizie che aveva avuto problemi”, dice Sopio. “Ad un certo punto Ajara TV era interessata a riprendere le storie di tre lavoratrici, che avevano acconsentito a condizione che fossero filmate di spalle, ma nel giorno delle riprese non si presentò nessuna di loro”.
A Poti, dove tutti conoscono tutti, le persone in generale si astengono dal lamentarsi, perché questo potrebbe influenzare il loro futuro.
“La paura è il fattore chiave”, conclude Sopio.
Dopo le sue dimissioni, Achi Martalishvili ha dichiarato a un giornalista di Fortuna Plus che Sopio aveva “problemi psicologici”. Un suo vecchio compagno di classe, che faceva parte della sicurezza di Ajara Textile, le consigliò di smettere di parlare e disse che l’azienda voleva riassumerla.
“Mi disse che poteva parlare con i capi della sicurezza e che sarei stata messa in brigata e in una posizione di mia scelta, e che ‘avremmo trovato una soluzione’ per le persone che mi avevano offeso. Dovevo solo smettere di parlare”.
Lei rifiutò.
Dopo i suoi tentativi falliti di combattere contro l’azienda, le lavoratrici della brigata di Sopio ricevettero un solo bonus mensile di 40 lari (14 dollari). Fino ad oggi lei è l’unica impiegata di Ajara Textile ad aver denunciato la sua esperienza pubblicamente.
“So che siamo in Georgia e che dobbiamo chiudere gli occhi davanti a certe cose, ma lì non ero trattata come un essere umano”.
Il meglio che si possa ottenere
Scrivendo questa inchiesta, ho lavorato all’interno di diverse fabbriche georgiane del settore tessile e ho ascoltato le storie relative alle condizioni di molte altre fabbriche. Per me non ci sono dubbi, Ajara Textile è il meglio che si possa ottenere. Mentre molte altre fabbriche sembravano appartenere al diciannovesimo secolo, il lavoro ad Ajara Textile era come un viaggio nel futuro.
Ma a me è sembrato un futuro profondamente distopico.
Le mie colleghe ad Ajara Textile sembravano infelici. La pressione costante data dal raggiungimento delle quote, le regole che proibiscono di parlare anche se si sta seduti uno di fianco all’altro per ore, il costante monitoraggio di ogni singola azione. Persino il controllo delle impronte, che diventa una routine del processo di produzione.
Sembrava come se fossimo macchine dalla forma umana, niente affatto diverse dalle macchine da cucire.
Non penso che le mie colleghe volessero lavorare lì, ma non avevano scelta. Per dare da mangiare alle loro famiglie, per pagare l’affitto, per aiutare nella cura dei genitori, per offrire un’istruzione universitaria decente o per risparmiare abbastanza da avere la possibilità di un futuro migliore lontano da Poti, loro dovevano andare in quella fabbrica.
Dopo aver firmato il contratto, ci sono molti regolamenti interni da considerare.
“La violazione di un qualsiasi punto dei regolamenti interni è come violare il contratto”, mi ha detto Lela Gvishiani, analista al Centro per l’educazione e il monitoraggio dei diritti umani (EMC), con la quale ho parlato dopo il mio tempo ad Ajara Textile. “Molto spesso succede che le lavoratrici non abbiano la possibilità di analizzare attentamente questi documenti così corposi e di comunicare le loro condizioni”.
“Piuttosto che essere in posizione paritaria”, aggiunge, “il dipendente è indebolito fin da subito, prima ancora di firmare il contratto”.
All’inizio dipendente e datore di lavoro dovrebbero essere uguali ma “nel contratto [con Ajara Textile] non c’è la voce del dipendente”.
Ovviamente questo non avviene solo ad Ajara Textile.
La più ampia struttura legislativa in Georgia è infatti orientata a favorire i datori di lavoro, afferma Gvishiani. La Georgia è stata criticata da Human Rights Watch per la sua regolamentazione lassista del lavoro. Ad esempio, la Georgia ha un salario minimo di 7 dollari al mese, una legislazione in materia di straordinari piuttosto simbolica (non sono specificati i compensi per le ore di lavoro straordinarie), e un’agenzia di ispezione del lavoro che, al momento, è composta da quaranta ispettori per tutta la Georgia, – sebbene il piano sia di portarli a cento entro quest’anno. In tutto il 2019 gli ispettori hanno visitato solo due fabbriche tessili.
“Gli investitori non hanno alcuna responsabilità [nel produrre in Georgia], e noi non diamo direttive”, mi ha detto Nina Kakulia, responsabile delle relazioni con gli investitori del programma governativo Produrre in Georgia, volto a promuovere gli investimenti internazionali nel paese.
Il loro unico obiettivo, afferma, è di garantire agli investitori che il paese rimanga “investment-friendly”.
“Noi non effettuiamo monitoraggi”, aggiunge. “Manteniamo un dialogo aperto [con gli investitori] perché è molto importante sapere come si sentono nel paese dopo aver avviato un’attività e perché è fondamentale che sappiano che il governo è pronto ad aiutarli”.
Secondo Lela Gvishiani, questa attitudine è parte del gioco. “Nessuno fa controlli o chiede mai qualcosa ai datori di lavoro. Sono loro a comandare, e data la situazione occupazionale nel paese, anche solo avere un lavoro è un lusso. I datori di lavoro dettano le loro regole”.
“I dipendenti sono lasciati in balìa dei datori di lavoro”.
Questa è la terza parte di un’inchiesta nell’industria tessile georgiana. È stata preparata con il supporto dell’ufficio regionale nel Caucaso meridionale della Friedrich-Ebert-Stiftung (FES). Le opinioni espresse sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’opinione della FES.