Dentro la crisi albanese

Le ragioni della crisi albanese, il ruolo dell’Unione europea, i legami con l’Italia e i paralleli con le rivolte in Nord Africa. Intervista a tutto tondo con Francesco Strazzari, docente di Relazioni Internazionali presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa

24/02/2011, Davide Sighele -

Dentro-la-crisi-albanese

Tirana, isaleal/flickr

Sei un profondo conoscitore della situazione in Albania, sia per i tuoi interessi accademici ma anche per i numerosi viaggi fatti in quel Paese. Come hai colto lo sfociare in violenza dell’impasse politica che si trascinava dalle elezioni politiche del 2009?

Fatico a vedere un disegno pianificato dietro alla deflagrazione, anche se non sono invisibili i fattori che hanno indotto ad un “salto di qualità” in un quadro di scontro protratto, privo di sbocchi e avvelenato da prove flagranti di corruzione. La violenza tende sempre a spostare il prezzo delle opzioni politiche, e immancabilmente catalizza un diverso ordine di attenzioni, andando a toccare la questione delle “regole del gioco” e marcando punti di non ritorno. Non da ultimo, una questione eminentemente politica viene ad essere distorta in un fatto di “sicurezza nazionale”.

Il 21 gennaio scorso vi sono state tre vittime. Su chi pesa di più la responsabilità di quanto accaduto? Sul governo di Berisha o sull’opposizione che ha promosso la manifestazione senza curarsi del fatto che avrebbe potuto avere risvolti anche violenti?

Le manifestazioni organizzate dall’opposizione si stavano svolgendo pacificamente da molti mesi ormai, e non credo ci fosse motivo per ritenere che il 21 gennaio le cose si potessero svolgere diversamente. Nel mese successivo si sono viste manifestazioni con decine di migliaia di persone in piazza, e nessuna violenza.

L’Albania è membro a pieno titolo di un patto politico-militare che si chiama Alleanza Atlantica. Tale membership, il cui conseguimento è stato legittimamente sbandierato dal governo Berisha come un evento epocale, ovvero l’ingresso nel club delle stabili democrazie occidentali, àncora l’Albania ad un solido sistema di valori e garanzie liberal-democratiche. Queste riguardano anche la sfera della governance e della sicurezza domestica, a meno che qualcuno abbia mai ritenuto che i rischi di instabilità in Albania sono dati dalla minaccia di invasione di qualche armata straniera, e non dallo spettro di guerra civile che già aleggiò durante la lunga crisi del 1997. Questo per dare maggior forza all’idea che il governo ha piena responsabilità nel garantire l’ordine pubblico e l’espressione del dissenso. L’appartenenza ad un club comporta dei costi in termini di accountability, trasparenza e rispetto delle regole che lo caratterizzano.

Un governo occidentale che, sfidato da una manifestazione promossa dal principale partito d’opposizione, reagisce all’assassinio di tre manifestanti accusando i propri servizi di sicurezza di tentato colpo di stato è un governo che ammette la propria infondatezza. Va notato che davanti ai morti l’opposizione albanese non ha inneggiato al martirio, né ha indetto “giornate di collera”, per menzionare uno schema che abbiamo visto in azione in una serie di paesi mediterranei in questi giorni. Sui nostri schermi abbiamo visto il leader socialista Rama cercare le parole in italiano per appellarsi civilmente all’Europa.

Dopo gli scontri di piazza all’impasse politica già esistente si sono sommati altri gravi conflitti istituzionali. Su tutti quello tra la procuratrice generale di Tirana, e il premier Berisha. La prima ha emesso degli ordini di arresto dei poliziotti che hanno sparato contro i manifestanti, eseguiti solo recentemente dalla polizia, il secondo l’ha accusata ripetutamente di aver tentato un golpe. Quali gli spazi per uscire da questa impasse rimanendo all’interno di dinamiche e regole democratiche?

Invece che glissare pudicamente su quelle che vengono percepite come “escandescenze balcaniche”, sarebbe interessante se venissero tradotte letteralmente le accuse schiumanti che il presidente Berisha ha scagliato contro i “nemici” che ha identificato un po’ ovunque. Questa traduzione andrebbe a beneficio dell’opinione pubblica internazionale e sarebbe nell’interesse delle migliori ambizioni dell’Albania a collocarsi in una dimensione europea e liberal-democratica.

Le violenze di piazza hanno prodotto un nuovo livello di scontro; si tratta di un’onda che ha investito in pieno tutte le istituzioni, dalla presidenza della Repubblica alla Procura generale: Ina Rama è stata duramente attaccata come lo sarebbe stato chiunque altro che si fosse trovato al suo posto, e si fosse proposto di attenersi al mandato prescritto dalla Costituzione. Non stiamo parlando di avversari politici, ma di personalità a suo tempo nominate con il gradimento dei berishani.

Questa dinamica di politicizzazione delle istituzioni non infonde ottimismo: uno scontro che non si è ricomposto per mesi e mesi non potrà certo ricomporsi ora, con qualche mercanteggiamento, in presenza di una commissione parlamentare sui fatti del 21 gennaio quale quella voluta da Berisha, sopra e contro le istituzioni preposte a fare luce. Gli esiti sono grotteschi e paralizzanti, con i servizi di informazione chiamati a rispondere ma che non possono farlo a chi non goda dell’attestazione di non essere spia straniera, certificazione che loro stessi sono chiamati rilasciare.

E’ evidente la necessità di attori internazionali capaci di determinazione nella mediazione e nel sostenere processi di riforma politici e istituzionali. Tali processi abbisognano di fiducia, e quest’ultima si basa sul rispetto di condizioni minime di legalità (le regole elettorali, l’accertamento delle responsabilità delle morti, il perseguimento dei reati di corruzione). In ultima analisi, la parola non potrà che tornare a chi la detiene in democrazia secondo i modi prescritti dalla legge, ovvero il popolo tramite elezioni.

Il rappresentante Ue Miroslav Lajčák , si è affrettato a Tirana, per contribuire a risolvere la crisi. Le istituzioni europee riescono a condizionare la politica albanese? Se sì in che termini?

L’UE ha un forte ruolo di leverage nei Balcani, e quindi anche in Albania, in vista di una futura integrazione a cui gli albanesi non vogliono di certo rinunciare. Bruxelles ha dunque carte e condizioni da spendere in corso d’opera, ed è evidente lo sforzo di Lajčák di coinvolgere al tavolo il Commissario europeo per l’Allargamento. In realtà, un ruolo di tale rilievo avrebbe fatto sperare in una reazione un po’ più affilata da parte della “ministra per la politica estera” Catherine Ashton, la quale ha auspicato “riforme pacifiche”. Registro come, ogni volta che si tratta di Albania, le diplomazie tendono all’afasia. Mi sembra che questo atteggiamento rifletta antichi pregiudizi derivanti dal “cliché balcanista”, figlio di una visione orientalista di ciò che avviene oltre Adriatico: l’osservatore occidentale cerca la distanza da un contesto al quale, in fondo, non ritiene di poter chiedere piena coerenza con i propri metri di giudizio.

Uno dei motivi alla base della crisi politica attuale sono le contestate elezioni del 2009. L’OSCE, che le monitorò, pur sottolineando numerosi aspetti problematici, dichiarò che era stato fatto un significativo progresso rispetto alle tornate elettorali precedenti. Come mai questa contraddizione? Fu un errore di valutazione dell’OSCE o strumentalizzazioni della classe politica albanese?

Mi sembra che il punto sia che l’OSCE ha incluso nel suo iniziale rapporto il monitoraggio del processo elettorale fino al giorno delle elezioni. I maggiori problemi però sono emersi successivamente, con il conteggio dei voti, le alleanze post-elettorali e via dicendo. Oggi l’OSCE dichiara che le condizioni in cui si svolgeranno le prossime elezioni saranno ulteriormente migliorate sotto il profilo tecnico, grazie a carte d’identità elettroniche, passaporti biometrici etc. Tutto questo può anche aiutare, ma andrebbe ricordato che le elezioni di maggio saranno locali, mentre il nodo del problema è il non riconoscimento della vittoria elettorale e della legittimità del governo a Tirana, tanto più dopo le dimissioni del vice premier Meta, accusato di tradimento, e filmato infine con le mani nel sacco di un appalto con tangente.

Molti commentatori albanesi hanno sottolineato come l’Albania di oggi non sia quella del 1997, indicando che vi è una parte della società civile, in particolare formata da giovani, che ha più consapevolezza dei valori europei, che comunica attraverso blog e social network con i loro coetanei in tutto il mondo, che insomma si scandalizza per quanto sta avvenendo nel loro Paese. Condividi quest’analisi? Se sì perché non sembrano avere rappresentanza politica?

L’analisi è condivisibile. Credo occorra mettere a fuoco meglio cosa sta accadendo nella struttura sociale dell’Albania, che vive una pressione per molti versi non più “risolvibile” attraverso la valvola dell’emigrazione verso Paesi che vivono anni di crisi economica, e il cui mercato del lavoro si chiude verso i giovani albanesi con studi e qualifiche. Questi ultimi sono sempre più insofferenti verso le regole non scritte della vita in Albania, a partire da corruzione e inefficienze diffuse. Nascono blog, forum e nuove forme di attivismo, spesso permeate da confusione ideologica.

Intanto nel paese aumentano tanto il costo della vita quanto le aspettative di benessere, mentre lo stato, piagato da clientelismo e malversazione, si mostra incapace di fornire un welfare in linea con il rispetto della dignità.

Certo anche tra i giovani è diffusa la presenza di retaggi di appartenenza ad una o all’altra parte politica che derivano da posizioni familiari, ma le carte vanno rimescolandosi. A prescindere da un giudizio sul merito dell’operato dei leader, Berisha appartiene al passato, e per quanto su consiglio di advisors esterni abbia tentato un paio di operazioni di maquillage, ripropone l’intero arsenale di logiche del ciclo politico della transizione post-comunista. Rama, pur non essendone alieno, e combattendo nella medesima arena politica, ha sconfitto il capo storico socialista, nonché antagonista di Berisha, ed è portatore anche di altri schemi, che tengono in considerazione il punto di vista generazionale e “urbano”.

In queste settimane emerge spontaneo un parallelo tra la crisi albanese e quella italiana: classe politica delegittimata, scontri con la magistratura, risposte scarse alla crisi economica. La ritieni una forzatura? Quali le differenze principali tra i due Paesi?

Qui si entra sul terreno di una comparazione assai difficile, considerate le evidenti diversità di storia, risorse e struttura fra i due Paesi, nonché la differente posizione internazionale. Ricordo quando l’Albania veniva considerata da alcuni commentatori come una sorta di “questione meridionale aggiunta” per l’Italia. Ciò premesso, se si guarda alla direzione di alcune macrodinamiche indotte dalla globalizzazione, così poco rispettose di confini nazionali, se ci si sofferma su alcune distinte pratiche che caratterizzano nel rapporto fra affari e politica sul piano locale, se si appunta l’attenzione sulla superficie dello schema di scontro istituzionale in atto, non mancano elementi di una qualche specularità: in entrambi i Paesi può essere fotografata la difficoltà del superamento di un ciclo politico legato a una leadership che agita ancora retorica del complotto comunista, mentre il paese attraversa una fase di difficoltà economica. Certo lo scontro in Italia è molto più articolato, meno meccanicamente trasmesso, e l’opposizione politica ben più diversificata. A ben guardare tuttavia in entrambi i casi la critica dell’opposizione ha per bersaglio in primo luogo le modalità di acquisizione, esercizio e mantenimento del potere, mentre le diversità sulle opzioni politiche di fondo (ad esempio l’agenda economica) sembrano eclissate.

L’Italia nella storia e attualmente ha relazioni privilegiate con l’Albania. Il silenzio rispetto ai fatti avvenuti a Tirana sono da spiegarsi a tuo avviso come un adeguarsi a una politica comune europea o ad altro?

Certo faceva uno strano effetto nei giorni delle manifestazioni leggere dispacci che rassicuravano circa le condizioni dei cittadini italiani in Albania. Le parole della politica estera italiana in questo momento tradiscono un certo imbarazzo, che tuttavia va messo nel contesto della perdita di una serie di punti di riferimento cruciali nel Mediterraneo, dove il governo italiano si è tradizionalmente appoggiato ad altrettanti uomini forti, diventati sempre più amici negli affari così come nella “guerra al terrorismo”, mano a mano che hanno reciso le proprie radici ideologiche inseguendo caricature sultanistiche e distinguendosi per violazioni dei diritti umani. Ricchissimi, li vediamo cadere uno dopo l’altro dopo aver sparato sulla folla, mentre Al Jazeera sottolinea che l’Italia si distingue fra gli europei, con il primo ministro italiano che dichiara di “non voler disturbare”, e il ministro degli Affari esteri che parla di non interferenza come di “rispetto della ownership”. In questo esatto momento in cui mi chiedi della politica estera italiana Tripoli è in fiamme e gli stranieri fuggono dai campi petroliferi. E’ presto per capire a fondo il senso e la direzione di questi sconvolgimenti, ma è chiaro che se – per dirla con il presidente statunitense Obama – “la Storia è in marcia” l’Italia rischia decisamente di trovarsi fuori dalla storia, o per lo meno a scivolare sul lato sbagliato della stessa. Come la si voglia vedere, storicamente il legame fra Italia, Albania e Libia, non è una pagina bianca… In questi momenti che l’Europa si rivela una risorsa, in quanto fornisce un alibi e schermature in molti sensi.

Vedi dei legami tra quanto sta accadendo nel Nord Africa e la situazione albanese?

Stiamo assistendo alla fuga rovinosa di dittatori che si ritenevano too big to fail, rispetto alla quale non mi risulta che nessun analista o teorico sia stato capace di previsione: dopo la Tunisia, l’Egitto e la Libia resisterò dunque alla ovvia, prudente tentazione di vedere ogni caso come particolare. Credo che emerga piuttosto nitido il ruolo del ‘”fattore transnazionale”, che si propaga orizzontalmente e trasversalmente, anche grazie all’istantaneità delle comunicazioni digitali, e che fa vacillare ordini fondati su false rappresentazioni della democrazia, adottata ad orpello decorativo e svuotata di ogni contenuto. Sistemi plebiscitari “modernizzanti”, tutti improntati alla supposta solidità del rapporto verticale fra popolo e capo supremo. Certo è assai probabile che in ogni singolo caso coesistano pulsioni di emancipazione e posizioni strumentali e reazionarie, ed è necessario prestare attenzione a cosa si sedimenterà, anche in termini di narrazione condivisa. Nei sommovimenti di queste settimane è formulata esplicitamente una richiesta di giustizia sociale e una domanda di rispetto delle libertà che sembrano demarcare il limite oltre il quale il conto degli abusi verrà presentato. Un po’ ovunque vacilla la legittimità di uomini forti improvvisamente spogliati del carisma: all’ultimo momento appaiono in televisione a promettere passi indietro e riforme a cui nessuno crede più, e il giorno dopo si ammalano in esilio.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta