Darko l’irriducibile
Per alcuni è un poeta, per altri un matto. Darko Rundek, frontman dei leggendari ‘Haustor’, e animatore di ‘Radio-brod’, il battello della pace che trasmetteva musica dall’Adriatico durante la guerra dei Balcani, continua a regalare emozioni, nonostante i capelli bianchi
C’è chi lo definisce un poeta e chi un matto. La fama da idolo del punk conquistata negli anni ’80 con la leggendaria band Haustor, il battello della pace ‘Radio-brod’ che trasmetteva musica dal mar Adriatico durante la guerra nei Balcani, l’esilio a Parigi. E poi: la nostalgia, la conversione alla world music e l’indiscutibile successo di critica e classifica ottenuto insieme alla sua Cargo Orkestar. Oggi Darko Rundek, il rocker di origine zagabrese dai capelli ormai bianchi, gira l’Europa in tournée e a Lubiana è stato accolto da un pubblico pieno di riconoscenza per la sua musica e di non poco rimpianto ‘jugonostalgico’.
"Croazia senza confini" recitava il titolo del manifesto comparso nelle strade della capitale slovena ad annunciare il concerto di Darko Rundek & Cargo Orkestar previsto alla Cankarjev Dom per il 3 aprile.
Spettatori della sua generazione, giovani dall’aria intellettuale, coppie in cerca di un momento di revival hanno preso posto nella sala carica di aspettative della prestigiosa casa di cultura lubianese. I nove musicisti di svariate provenienze che formano il bastimento cosmopolita di Darko Rundek – croati, bosniaci, francesi e svizzeri – sono comparsi uno ad uno sul palco. E lui, da sempre teatrante oltre che musicista, intrattenitore per istinto, leader dalla sua forte presenza scenica, orgoglioso del suo volto da eroe del cinema, è stato l’acclamato protagonista di una serata fatta per l’emozione.
Lo show ha avuto inizio, e i presenti sono rimasti coinvolti da subito, in un crescendo di affiatamento e partecipazione, tra canzoni d’amore new wave diventate popolari durante la Jugoslavia di Tito, brani tradizionali dalmati rivisitati secondo le tendenze della musica etnica urbana, pezzi dalle sonorità innovative che miscelano testi in serbocroato con strofe in inglese, francese o spagnolo in un mix multilingue metropolitano.
L’esibizione dal vivo di Darko Rundek a Lubiana è stata un vero viaggio temporale tra storia e futuro, un vorticoso giro di giostra tra passato e presente, un suggestivo salto all’indietro tra suoni ed immagini appartenenti ad un lontano vissuto collettivo da condividere ancora, nonché un dialogo aperto e continuo con il pubblico, in serbocroato naturalmente, diventata per quella sera di nuovo la lingua universale.
L’imponente Cankarjev Dom, sempre pronta ad accontentare l’esigente pubblico della capitale slovena con proposte audaci, ci ha azzeccato in pieno con la scelta di inserire in cartellone questo cow boy della musica balcanica. D’altra parte, il londinese Tom Jackson, il più temuto critico musicale, l’ha definito sia per l’aspetto sia per la sua arte, come il "Klaus Kinski dal ritmo globale". Non ci si può sbagliare. I suoi dischi vengono venduti in milioni di copie e sono prodotti dalle migliori case discografiche al mondo.
Ma c’è anche che l’ex frontman degli Haustor è uno autentico, e la sua anima semplice è rimasta legata alla propria terra.
Nell’album "Mhm a-ha oh yeah da-da" del 2006, l’ultimo della sua produzione discografica, sottotitolato "Migrations Stories and Love Songs", Darko Rundek narrava la malinconia dell’esilio, la realtà della moderna metropoli contrapposta alle tradizioni balcaniche delle sue radici e l’utopia dell’amore che travalica ogni confine. Nella sua esibizione di Lubiana, il 52enne musicista che attualmente esibisce la residenza parigina ha proposto diversi brani di quel disco.
Tra i primissimi, ‘Zvuk Oluje’, ossia Il Suono della Tempesta, che parla di migrazione e povertà: Zagreb sniva miran sam/ daleko je Amsterdam… tihe su oranice/ s druge strane granice/ …niko nema nikada/sto bi da mu pripada/ nema kruha nema vina … (Zagabria sogna, sono tranquillo/ Amsterdam è lontana… i campi arati sono silenziosi /dall’altra parte del confine/ nessuno ha mai /ciò che gli spetterebbe/ non ha pane, non ha vino) e ‘Put U Sumrak’, ovvero Il Viaggio al Crepuscolo, che racconta l’incertezza di chi è costretto a cambiare paese e vita: otisli smo iznenada/ ne znamo sto nosi sutra … i svako novo jutro dok nas budi/ polako zamesti ce trag / misli ne priznaju al srce sluti / da ovaj dugi let je pad (ce ne siamo andati all’improvviso/ non sappiamo cosa ci riserva il domani…e quando ogni nuovo giorno ci sveglierà/ cancellerà lentamente le tracce/ i pensieri non lo ammettono ma il cuore lo sospetta/ che questo lungo volo è una caduta).
L’intesa tra palco e platea era totale: appena l’ex chitarrista di Zagabria dava qualche spunto, la reazione era immediata, e più volte è stato lo stesso uditorio a provocarlo, a voler intervenire, oltre che rispondere a qualsiasi cenno con risate liberatorie ed espressioni d’affetto. A un certo punto Darko Rundek ha chiesto: «Quanti di voi hanno la mia età?» e prontamente un’alzata di mani ha confermato la voglia unanime di ascoltare qualcosa di datato.
Così, man mano che la Cargo Orkestar suonava le ballate più celebri degli Haustor, l’ambiente si faceva da brivido e la commozione diventava palpabile.
Già dalle prime note, la folla ha riconosciuto ‘Ula Ulala’, del 1988, inno della fuga d’amore verso la campagna, e un coro in delirio ha accompagnato la voce del talento del rock jugoslavo lungo tutto il brano, dall’attacco Reci kak se zoveš ti / (di’ come ti chiami tu) fino al travolgente ritornello podjimo na selo/ tamo jos ima mira (andiamo al villaggio/ là c’è ancora la pace).
Stessa intensità ha raccolto l’esecuzione di ‘Podne’ (Mezzogiorno), la canzone che descrive uno scenario agreste di un tempo indefinito: Seljaci /Bruse kose/ U hladu starih vrba… Topole/ U stroju/ Zdravo generale (i contadini /affilano le falci /al fresco dei vecchi salici… i pioppi /in fila/ salve generale…), emblema di una società ingenua e inconsapevole del male.
E poi, un susseguirsi di pezzi di oggi e di ieri: ‘Uspomena’, ‘Bi Mogu Da Mogu’, ‘Slick Senorita’, ‘Stojim i Gledam Se Kako Postojim’, ‘Apokalypso’, ‘Makedo’, ‘Šejn’, ‘Senor’, ‘Ruke’… di cui tutti quanti conoscevano le parole, le cantavano, le anticipavano, magari stonando.
E intanto, tra divertimento e pelle d’oca, scorrevano, proiettate in sequenza sullo schermo dello sfondo, immagini in bianco e nero che rievocavano lo stile di vita "Yugo". Chi mai avrebbe detto che la tanto europea Lubiana si sarebbe lasciata andare al sentimentalismo? Eppure non ci possono essere dubbi se, davanti alla fotografia della famosa Fiat Seicento della Zastava – l’automobile popolare, simbolo del benessere nella Jugoslavia autogestita – e di fronte al dito indice del musicista croato puntato in alto senza commenti, si sono alzate dalla folla molteplici voci per acclamare: «Fičo, Fičo!».
Da non crederci.
Era il 1993 quando, galleggiando in uno spazio quasi surreale al largo della costa jugoslava, a 200 chilometri dal massacro in Bosnia, Darko Rundek dirigeva l’emittente radiofonica "Radio-Brod, Diritto di Parola" a bordo di un battello che navigava le acque internazionali dell’Adriatico, e, osteggiato da tutti, mandava in onda, più ostinato di chiunque altro, il suo programma ‘Planet Ear’, da dove lanciava un appello affinché i popoli della sua terra finissero di uccidersi tra loro.
L’impegno per la libertà e per la pace è sempre stato in primo piano nella sua carriera artistica.
Adesso, in tempi di riconciliazione, con la sua produzione discografica e i concerti che si rivelano puntualmente dei veri e propri happenings, Darko Rundek mantiene attivo il suo contributo personale agli ideali della fratellanza, della riscoperta di ciò che "prima" accomunava gli uni con gli altri, del superamento del conflitto.
Quando, per terminare il suo spettacolo, il carismatico cantante croato ha voluto introdurre l’ultimo pezzo della serata con le parole «I za kraju…» (e per finire…), subito la folla ha ribattuto gridando: «Hoćemo još!» (ne vogliamo ancora!) e, coerentemente, il bis conclusivo si è prolungato all’inverosimile.
Alla fine, tra gli spettatori c’era chi non si decideva ad abbandonare la sala fissando il palco svuotato, chi si riuniva attorno al bar della Cankarjev Dom per scambiare impressioni davanti a un bicchiere, e chi si sparpagliava in piccoli gruppi all’aperto, a intonare ancora qualche melodia degli Ottanta, per non lasciar svanire quello che già sembrava uno strano sogno della notte.
Eppure, i manifesti dalla scritta "Hrvatska brez meja" erano ancora là, appesi per le strade di Lubiana.