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Danubio: un bilancio a due voci
Mauro Cereghini è coordinatore dell’Osservatorio sui Balcani. Domenico Sartori è giornalista del quotidiano L’Adige. Entrambi hanno viaggiato lungo il Danubio. Un loro dialogo.
di Domenico Sartori
Vienna-Belgrado via Danubio è stato un viaggio che ha attraversato cinque Paesi e sette città alla ricerca dell’Europa che c’è e che non c’è ancora. Dieci intensissimi giorni sul grande fiume, uomini e donne di oltre una decina di nazionalità, esponenti della società civile e del terzo settore, amministratori locali, qualche sindacalista che si sono scambiati esperienze, emozioni, agende carichi di impegni. Un ponte ricostruito sul fiume che troppi ne ha visti abbattere durante l’ultimo, tragico decennio del Novecento. Un lavoro che prosegue, da Sarajevo (aprile 2002) quando venne lanciato l’appello «Europa senza confini», con il sostegno di Romano Prodi, fino a Belgrado e oltre.
Il prossimo anno a Tirana?
«È solo un’ipotesi» risponde Mauro Cereghini, direttore dell’Osservatorio sui Balcani di Rovereto e artefice (assieme all’ideatore Michele Nardelli) dell’impresa sul Danubio, con il quale tracciamo un primo bilancio dell’iniziativa «andare a sud, a Tirana sarebbe una bella provocazione. Ma durante il viaggio c’è stato anche chi ci ha proposto di arrivare al Mar Nero, sempre via Danubio. Valuteremo il da farsi con i partner locali».
Un viaggio tra la gioiosa attesa delle giovani associazioni di Bratislava che avviano le prime iniziative di commercio equo e solidale in Slovacchia, l’entusiasmo delle battaglie ambientaliste a Budapest, l’inquietudine e la desolazione di Vukovar, la «Stalingrado croata» ancora mezza distrutta dall’assedio del 1991, la vivacità dei consolidati rapporti tra le città, come tra Novi Sad (Vojvodina, Serbia) e Modena, o tra Trento e Prijedor in Bosnia, l’esempio forse più originale di cooperazione decentrata, la sofferenza della frenetica Belgrado, ultramoderni centri commerciali e anziani che s’arrabattano alla ricerca di cibo tra i cassonetti dei rifiuti, le speranze coltivate dalle numerose agenzie per la democrazia locale, i tentativi di sviluppo autosostenibile e l’economia in mano agli uomini del business, arricchitisi con la guerra e sulle sue macerie.
Quale primo bilancio, dunque?
«Aver condotto in porto la barca» dice Cereghini «con un carico così ricco di persone ed esperienze diverse, che non hanno fatto una scampagnata, ma un percorso politico è una grande soddisfazione: è l’aver fatto capire che è possibile fare politica e diplomazia dal basso, non solo iniziative mediatiche od umanitarie».
Cosa resta dopo dieci giorni di viaggio e confronti?
«Stiamo predisponendo l’agenda di lavoro per il futuro, che elenca gli ambiti di impegno (eliminazione dei visti e diritti di cittadinanza, cooperazione decentrata e autosviluppo…) emersi tra Vienna e Belgrado. Intanto, resta un fatto simbolico-politico forte. Pezzi di società civile italiana ed europea da una parte e, dall’altra, pezzi di società civile del Sul Est Europa si sono incontrati per la prima volta. Abbiamo portato Legambiente nei Balcani, e subito sono nate le prime iniziative comuni con associazioni ambientaliste locali. E lo stesso abbiamo fatto con Civitas, la fiera del terzo settore di Padova, che ha partecipato al viaggio. A Belgrado, un rappresentante del Parlamento europeo ci ha detto: "Non pensavo che dopo dieci anni ci fosse ancora tanta gente che si interessa dei Balcani". È un dato politico importante perché, ora che c’è da pagare il prezzo dell’ingresso dei nuovi dieci paesi, sarà ancora più difficile parlare di Balcani, nonostante a Salonicco, in giugno, sia stato fatto un passo importante con la dichiarazione che l’Europa non sarà completa finché non si sarà riunificata con quei paesi».
I Balcani non sono più di moda: altre sono le emergenze internazionali che si impongono. In questo contesto l’Osservatorio di Rovereto lancia l’idea dell’Europa dal basso, dei cittadini, delle città, dei territori che costruiscono reti e alleanze: un’utopia?
«No, perché le reti di città e i rapporti tra le comunità già esistono. E poi perché pezzi minoritari delle istituzioni, ma pure la stessa Commissione europea, proprio su queste alleanze puntano. Vero, invece, che la crisi irachena è stata un duro colpo verso l’Europa e verso la prospettiva di riunificazione: non a caso gli Stati Uniti hanno fatto campagna acquisti di alleati nelle zone periferiche, anche in Serbia ed Albania. Purtroppo, va aggiunto che, sulla strada della riunificazione con i Balcani, con l’attuale presidenza italiana si sta perdendo un semestre».
Da Vukovar a Belgrado, più di un osservatore ha posto il problema del ruolo della società civile nei paesi cosiddetti «in transizione»: una società civile apatica, sfiduciata, individualista, orientata alla sopravvivenza, apolitica. Ecco la ragione delle perplessità di chi vi considera «utopici naviganti»…
«In effetti, il viaggio s’è diviso in due parti: una prima, gioiosa, musicale, di incontro tra realtà vivaci, già strutturate, come i gruppi ambientalisti; ed una seconda parte, quella di Vukovar, Novi Sad e Belgrado, più pesante, dove l’associazionismo soffre di più. Esiste una vecchia guardia legata al pacifismo che ha fatto opposizione alla guerra e che in alcuni casi lì s’è fermata, in altri s’è piegata al costruire progetti ed al fare cose: una de-responsabilizzazione in cui ha grosse colpe la comunità internazionale, che ha parlato più di soldi che di idee, di progetti più che di valori. Per cui le organizzazioni non governative, anche le nostre dell’aiuto umanitario (grandi assenti in questo viaggio), sono diventate esecutori di cose più che alleati su progetti politici. La depoliticizzazione del terzo settore, del resto, è un problema anche per l’Italia, mica solo per i Balcani. E l’altro ambito che s’è visto poco è stato quello dei new global: i pochi che fanno politica nei Balcani lo fanno in maniera ideologica, al punto da accomunare l’Unione europea agli Stati Uniti. Non è facile avere una visione diversa, quella dell’incontro. Non è facile, per usare la metafora di Riva del Garda, stare in mezzo alle contraddizioni, tra la Baltera ed il Palacongressi. Il viaggio è stato anche questo: fare un discorso pro e non anti, sia con le istituzioni che con la società civile».
Inquieta la variabile tempo: il viaggio simbolico-politico ha la lentezza del Danubio, chiede tempo e pazienza nella costruzione di rapporti dal basso. Ma da Vukovar a Belgrado s’intuisce che invece bisogna fare presto a ricomporre quest’Europa, perché la situazione socio-economica nei Balcani è pesante, rischiosa.
«Assolutamente sì. Dieci, quindici anni fa, l’Europa è mancata e non ha saputo prevenire ed intervenire nelle crisi e nella guerra. L’Europa ha ora una chance che non è infinita. Ci sono partite solo apparentemente chiuse: il Kossovo e la Macedonia rivelano situazioni di forte tensione. Per il nostro viaggio, persone del Kossovo non se la sono sentita di andare a prendere il visto in Macedonia o di entrare in Serbia. E la stessa Bosnia è una questione aperta. Ovvio, un processo di integrazione è complesso: qui deve intervenire la decisione politica e la fantasia, trovando forme flessibili, a tappe, ma presto». Ad esempio? «Un bel segnale sarebbe stato aver invitato i paesi dei Balcani, come ospiti ed osservatori, ai lavori della Convenzione europea, per dare un segnale che ciò che si va a costruire li vede in qualche modo partecipi. Concretamente, poi, si potrebbe investire molto più di quanto deciso a Salonicco, e trasformare gli investimenti europei nei Balcani da aiuti per la ricostruzione a fondi strutturali, al pari di quelli utilizzati per le aree depresse, considerandoli degli investimenti che l’Europa fa per se stessa, piuttosto che degli aiuti a paesi terzi».
Tra Pristina e Belgrado è stato riaperto un tavolo per trovare una soluzione per il Kossovo: l’impressione, un’altra volta, è che l’Europa sia la grande assente.
«Assente del tutto forse no. Il problema è che in Kossovo ci sono le Nazioni Unite. E l’Onu che le sta buscando da tutte le parti, non può uscire dal Kossovo con un’altra sconfitta. Ma al di là dell’attore in gioco, il problema è avere un progetto chiaro, che nessuno ha: né l’Europa, né l’Onu, né gli Usa. E siccome tutte le opzioni (indipendenza, autonomia…) presentano dei difetti, ci vuole un’idea che sparigli il gioco dall’alto, mentre dal basso va fatto un grosso lavoro per la riconciliazione, perché in quell’area non basta la presenza militare. Il Tavolo trentino in Kossovo dimostra che il lavoro è difficilissimo, ma che è questo impegno sul campo quello che occorre, evitando l’approccio economicista che butta sui territori tanti soldi, ma poche idee e poche relazioni, poca costruzione di ponti immateriali».
Gli Usa si sono rimessi in gioco. Ora considerano la Serbia paese privilegiato nei rapporti economici…
«Gli Usa giocano, in modo unilaterale, una partita per rompere sia una prospettiva regionalista interna nei Balcani, sia quella della riunificazione europea. Così sono riusciti a comprare l’appoggio della Serbia alla guerra in Iraq».
L’inquietudine del viaggiatore, soprattutto a Vukovar, è quella di chi si domanda: «È accaduto, può accadere di nuovo?».
«Se ci spostiamo più in là, nel Caucaso, in Cecenia, certe cose accadono ancora. Per quanto riguarda i Balcani, non potrebbe accadere di nuovo in quelle dimensioni. Nel 1991, la comunità internazionale era assente e neppure c’erano gli anticorpi interni. È però possibile che in Macedonia o nel Sud Serbia ci siano riprese della violenza. Ma la cosa più devastante è la situazione immateriale. Ricordo il Kossovo del ’96, prima della guerra: la polarizzazione sociale ed il muro tra le comunità che c’era allora è tuttora presente, così com’è presente nella Croazia dei non rientri. In Kossovo i bambini non imparano più le lingue dell’altro. La costruzione di muri sociali continua. Il viaggio tra Vienna e Belgrado è servito anche a questo, ad abbattere muri esistenti: il battello sul Danubio ha portato per la prima volta dei serbi a Vukovar e dei croati di Vukovar a Belgrado. Sono tanti i muri, anche in Europa: all’ambasciata ungherese di Vienna, ad Elidon, albanese, che chiedeva il visto, e che è stato fatto rimanere sulla porta, la funzionaria ha brutalmente chiesto: "Sei sicuro di non essere arrivato in gommone, in Italia?"».
Il viaggio sul Danubio nasce in Trentino, un Trentino aperto, che sa gettare sguardi sul mondo…
«Sì, il viaggio è stato il compimento di un percorso che vede un’importante presenza istituzionale e civile. Hanno aiutato la Provincia, la Regione, i comuni più grandi, c’era l’associazionismo locale, c’erano i musicisti trentini. Una partecipazione territoriale che non c’è altrove e che, ora, potrebbe essere valorizzata ancora di più. Un esempio di come l’internazionalizzazione di un territorio passi anche attraverso questi mondi, non solo attraverso i rapporti economici».
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