Dalla Jugoslavia a Trump, la responsabilità morale e i soggetti implicati
Crimini di guerra, razzismo, xenofobia, violenza politica. Di chi è la colpa di quanto è successo nella ex Jugoslavia o di quanto accade oggi nell’America di Trump? Qual è la responsabilità degli individui? Qual è la responsabilità degli stati? Qual è la responsabilità delle società? Qual è la nostra responsabilità? Un’analisi
(Originariamente pubblicato sul blog The Disorder of Things , il 4 luglio 2020)
Stiamo vivendo catastrofi globali molteplici e sovrapposte. Prima ancora che scoppiasse la pandemia, il successo dei movimenti di estrema destra e nativisti, l’emanazione di ordini permanenti di dislocamenti e abusi, la distruzione delle istituzioni e la marginalizzazione della competenza, una chiusura epistemica dei regimi di verità completamente destabilizzati, tutto questo ha contribuito alla creazione di uno stato di angoscia e crisi permanente. L’attuale catastrofe sanitaria globale ha solo accelerato queste tendenze.
Per noi che proveniamo dall’ex Jugoslavia, la crisi e l’angoscia non se ne sono mai andate davvero – si sono solo trasformate in qualcos’altro per cui essere angosciati. Se non altro, probabilmente hanno intensificato la sensazione di una crisi permanente e hanno aguzzato i nostri sensi tanto da poter cogliere i primi segnali di una catastrofe in corso, prima che lo facciano gli altri. O se volete, fungiamo da Avanguardia della Catastrofe .
La pandemia globale ha messo in forte risalto queste nostre abilità affinate. Ora, finalmente, gli altri possono essere altrettanto angosciati quanto lo siamo stati noi per tutto il tempo. In un modo perverso, l’angoscia globale ha alleviato la nostra angoscia individuale.
Se ti prepari sempre al peggio e il peggio finalmente arriva, e tutti lo sperimentano, allora ti senti stranamente sollevato – ti sei preparato per questo per tutta la vita, e ora, finalmente, è arrivato il tuo momento per dire: “Le cose andranno sempre peggio, te l’avevo detto”. Ovviamente, noi abbiamo sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato.
Ma oltre a un senso generale di sventura, quale saggezza concreta posso impartire, attingendo al mio passato, che potrebbe contribuire a spiegare le catastrofi che stiamo vivendo oggi? Tutti noi ci portiamo dietro diversi fardelli, ricordi, incubi o semplici disagi, “lezioni imparate” e cose mai dimenticate dalle nostre esperienze individuali e collettive del disastro jugoslavo. Il mio interesse è sempre stato rivolto alla comprensione del lascito della violenza politica , di come ricordiamo il passato , di come funziona la memoria e quale progetto politico asseconda nel presente. In particolare, sono interessata ai vari livelli di responsabilità della violenza politica. Di chi è la colpa della catastrofe che ci è accaduta? Quanto è ampia la responsabilità? Qual è la responsabilità degli individui? Qual è la responsabilità degli stati? Qual è la responsabilità delle società? Qual è la nostra responsabilità? Qual è la mia responsabilità?
I nostri incubi attuali sono numerosi e sovrapposti, e ci sono diverse categorie e soggetti di responsabilità per ciascuno di questi incubi. Qui vorrei concentrarmi su una particolare categoria di disastri perché vorrei riflettere su come mi coinvolge come cittadina. Questo disastro è il regime di Trump e, in particolare, come intendo dimostrare, la colpa morale di quelli che hanno votato per Trump, di quelli che lo appoggiano, ma anche di tutti noi americani che siamo soggetti coinvolti in una costante campagna di atrocità condotta dal regime di Trump.
E qui potrei introdurre alcune riflessioni legate al problema di definire e stabilire la responsabilità per i crimini commessi durante le guerre jugoslave.
La negazione delle atrocità persiste nel tempo
Nel 2005, durante il processo contro Slobodan Milošević presso il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia all’Aja era emersa una videocassetta. Si è trattato di un video girato sul luogo del massacro genocidario avvenuto nel 1995 nei dintorni di Srebrenica. Il video mostra un gruppo di paramilitari serbi, che chiamavano se stessi “Škorpioni” [scorpioni], che torturano e poi uccidono un gruppo di uomini bosgnacchi molto giovani, tra cui un ragazzo di 16 anni. Nel video si sente uno degli Scorpioni urlare a un ragazzo: “Ora morirai vergine”. I prigionieri hanno scavato le proprie tombe, sono stati condotti sull’orlo della fossa e poi sono stati uccisi con colpi alla schiena. Durante questo calvario, gli assassini serbi scherzavano ed erano preoccupati che la batteria della videocamera usata per filmare l’esecuzione si potesse scaricare.
La brutalità della scena, l’inequivocabile identificazione degli assassini e delle vittime e l’orrore assoluto della vicenda inizialmente avevano sconvolto la società serba. Il video era stato trasmesso dalla maggior parte delle emittenti televisive per circa una settimana. Tanto quanto era durato anche lo shock provocato dal video. E mentre i procuratori serbi per i crimini di guerra hanno usato quella registrazione per identificare e infine arrestare i perpetratori, di cui quattro sono stati condannati per crimini di guerra, una narrazione più ampia del conflitto bosniaco e, in particolare, del genocidio di Srebrenica, è cambiata poco o nulla.
Oggi nella memoria collettiva serba Srebrenica rappresenta l’ennesima, irritante prova di una propaganda anti-serba, con cui gli attori internazionali accusano i serbi delle peggiori atrocità, lasciando invece che i bosgnacchi, i croati e gli albanesi del Kosovo rimangano impuniti per le violenze contro i serbi. Srebrenica, nella memoria collettiva serba, riguarda soprattutto i serbi: l’ingiusta definizione del massacro da parte del TPI come l’unico genocidio commesso durante le guerre jugoslave; l’ingiusta identificazione dei serbi come principali istigatori delle guerre; l’ingiusta affermazione secondo cui i serbi avrebbero compiuto il maggior numero di crimini di guerra. Srebrenica oggi simboleggia una divergenza fondamentalmente inconciliabile tra il modo in cui la Serbia percepisce se stessa e il proprio ruolo nelle guerre degli anni Novanta e il modo in cui il resto del mondo ha giudicato il ruolo della Serbia.
Ho riportato alla luce questa storia con l’intento di sottolineare che la negazione delle atrocità passa attraverso varie fasi. Mentre da un lato il video del 2005 ha destabilizzato la posizione della negazione esplicita (questo non è accaduto), dall’altro lato ha consentito che quell’evento venisse spostato dalla vita quotidiana e dalla sfera di responsabilità delle persone comuni su un gruppo di criminali sociopatici che “non ci hanno rappresentati, non hanno parlato a nostro nome e, in realtà, non avevano nulla a che fare con noi”.
Esiste una solida ricerca socio-psicologica che evidenzia questa dinamica. Quante più persone vengono messe di fronte alle prove dei crimini collettivi commessi dal loro gruppo etnico (razziale o religioso) nei confronti di un altro gruppo, tanto più profonda diventa la loro lealtà al proprio gruppo etnico e tanto più forte diventa la loro ostilità nei confronti del gruppo bersaglio.
Evidenzio tutto questo come un avvertimento: le immagini, le prove e le testimonianze delle attuali atrocità americane – i bambini immigrati in gabbie , i rifugiati arrivati via mare detenuti nei campi di concentramento , la brutalità della polizia e le uccisioni a sangue freddo dei nostri concittadini neri – contano meno di quanto si pensi. Le persone hanno una straordinaria capacità di ignorare ciò che sta loro di fronte, di rimuovere queste immagini e le loro implicazioni dalla propria mente, di dissociarsi dalla sensazione di sgradevolezza che queste immagini portano con sé. Inoltre, c’è troppa crudeltà attorno a noi, le paure individuali svaniscono per lasciare spazio alle nuove paure che prendono il loro posto.
Tutto questo per dire che è inutile aspettarsi che i negazionisti, dopo aver visto le prove delle atrocità, le accettino e rompano il cerchio della negazione. Sono qui per dirvi che questo non accadrà mai.
La stragrande maggioranza dei cittadini serbi che negli anni Novanta era contro Slobodan Milošević aveva comunque ampiamente appoggiato il progetto nazionalista serbo, si era identificata con i suoi obiettivi politici e, soprattutto, aveva accettato la sua stratificazione dei nemici. In altre parole, Milošević fu un epifenomeno di un universo nazionalista molto più vasto, un universo che per tantissime persone aveva un senso intuitivo, emotivo e a volta anche intellettuale. Questo ha reso possibile un utile distacco tra le più ampie politiche appoggiate da queste persone e un molto più specifico disgusto personale verso Milošević e i suoi metodi, beh, esteticamente sgradevoli.
È così che dovremmo percepire gli americani che votano per Trump, ma ancora di più quelli che non lo appoggiano personalmente, ma appoggiano un più vasto universo nazionalista che egli rappresenta. Queste persone appoggiano ampiamente la visione del mondo basata sullo slogan MAGA [Make America Great Again], con il suo risentimento bianco, la sua misoginia e il suo razzismo anti-immigrati. Considerano Trump un personaggio imbarazzante e in un certo senso grottesco, ma trovano affascinante il paese che Trump vorrebbe creare. Sono sempre più sconvolti dagli attacchi pubblici contro questa visione del mondo e si offendono enormemente quando vengono definiti razzisti. Quando Trump finalmente perderà il potere o verrà destituito, queste persone sosterranno di non averlo mai appoggiato, di averlo sempre odiato, affermando che “Trump ha arrecato più danni agli americani bianchi che a chiunque altro”. Credetemi. Ho già visto questo scenario.
La responsabilità politica dell’America MAGA è ovvia e non vale la pena di spendere troppo tempo a parlarne. C’è una questione molto più interessante: qual è la responsabilità di tutti gli altri? Questa questione ormai da tempo sta animando sia la mia ricerca che il mio rapporto personale con il Disastro.
La responsabilità della società e i soggetti implicati
In un articolo pubblicato nel 2011 sul Journal of Peace Research ho sviluppato quello che ho definito pretenziosamente “il quadro della triplice responsabilità” per le atrocità di massa: la responsabilità dei singoli perpetratori che hanno commesso crimini, la responsabilità dello stato che li ha ingaggiati per implementare le sue pratiche [politiche] e la responsabilità della società che ha appoggiato o tacitamente approvato le politiche repressive dello stato.
Ho sostenuto che il più controverso di questi tre livelli di responsabilità (che è anche quello su cui ho sempre ricevuto il maggior numero di reazione negative) – cioè la responsabilità della società – implica la responsabilità dei cittadini degli stati colpevoli di crimini sulla base della loro cittadinanza e appartenenza alla società, e non sulla base della loro identità nazionale o di altri tipi di affinità culturali “profondamente radicate”.
I cittadini della Germania nazista, o quelli della Serbia degli anni Novanta, o quelli dell’America di Trump sono responsabili delle atrocità commesse dai loro stati perché hanno fornito un ambiente sociale e politico favorevole al compimento di queste atrocità e non hanno fatto abbastanza per impedirle. Trump, come Milošević prima di lui, ha costruito la sua politica sull’apertura della società alle rivendicazioni violente (la supremazia bianca, il razzismo, la misoginia) che sono state ampiamente accettate, normalizzate e routinizzate nella società. Le elezioni hanno solo fornito una patina di legittimità a queste politiche criminali.
I cittadini, anche dei paesi democratici, hanno sostenuto queste politiche o non sono riusciti a fermarle. Possono essere ritenuti politicamente colpevoli perché non hanno preso le distanze da tali pratiche criminali e spesso le hanno apertamente appoggiate. Su di loro grava la responsabilità sociale per le atrocità di massa. La loro responsabilità non deriva da un innato vizio nazionale né da un’intenzione genocidaria: sono responsabili in quanto cittadini e la loro responsabilità deriva dal loro rapporto con lo stato e con la società in cui vivono. Questo è il mio principale punto di partenza per una spiegazione culturale ed essenzialista delle atrocità di massa.
Comprendere e accettare questa responsabilità sociale è l’unica strada possibile per combattere quella negazione pervasiva dell’atrocità di cui ho parlato prima. Focalizzarsi esclusivamente sulla responsabilità individuale di Trump o dei suoi figli coinvolti in crimini, o di Steve Bannon, o di Mitch McConnell, per quanto abietti essi possano essere, è in diretto contrasto con l’obiettivo di contrastare la negazione di un’ampia complicità della società nei crimini di massa. L’individualizzazione della colpa offre alla società una facile via d’uscita, un’opportunità per trasferire la responsabilità sui pochi criminali e per negare la propria colpa per i crimini di massa commessi in nostro nome.
Ho esposto questo argomento molte volte e ha sempre infastidito le persone. Il principale contro-argomento alla mia teoria è sempre lo stesso: io non ho votato per Milošević, o io non ho votato per Trump, o io non ho votato per George W. Bush, o per la Brexit, o quant’altro. Io non sono responsabile. Lasciami fuori da questa storia. Questo atteggiamento va bene ed è comprensibile fino ad un certo punto. Ma non ci rende immuni da una responsabilità più ampia, metafisica che abbiamo come cittadini che traggono beneficio da un razzismo strutturale, o dalle disuguaglianze strutturali, o dalle politiche strutturali anti-immigrazione. Anche se ci opponiamo a questi fenomeni, rimaniamo coinvolti in essi a causa della posizione che occupiamo nella società, un’argomentazione che risale al pensiero di Karl Jaspers .
Allora come possiamo contestualizzare questo ulteriore livello di responsabilità? E come possiamo applicarlo all’idea della responsabilità del vivere sotto [il regime di] Trump?
Nell’affrontare questa questione trovo molto utile un recente studio di Michael Rothberg sul soggetto implicato. Rothberg si richiama alla stessa categorizzazione delle responsabilità proposta da Jaspers, ma la attualizza introducendo un concetto molto utile e ampiamente applicabile, una categoria analitica che ci aiuta a comprendere la società che rende possibile il regime di Donald Trump.
Chi è il soggetto implicato? Il soggetto implicato è allineato al potere e beneficia dei privilegi, ma non è un agente diretto del male. Il soggetto implicato trae vantaggio da un regime di disuguaglianza o di oppressione, senza generarlo né controllarlo direttamente. Come cittadino, il soggetto implicato partecipa alle strutture sociali che generano violenza, senza sceglierle né sostenerle attivamente. I soggetti implicati sono, in sostanza, quelli (tra noi) che vivono e partecipano alle strutture del razzismo, della supremazia bianca, della xenofobia o dell’ingiustizia sociale e ne beneficiano in modo strutturale (siamo noi ad occupare posti di lavoro sicuri, non siamo vittime della brutalità razzista della polizia compiuta in modo indiscriminato e abbiamo un’assoluta libertà di movimento transnazionale). Siamo coinvolti in queste strutture della violenza in un modo diverso rispetto ai nostri connazionali che hanno votato per Trump. Può darsi che abbiamo una minore responsabilità politica, ma sicuramente abbiamo una responsabilità morale. Siamo vettori asintomatici di una pandemia dell’atrocità.
Ovviamente, la domanda è: che fare? Come rimediare alla colpevolezza dei soggetti implicati? Se avessi la risposta a questa domanda non mi occuperei di scrittura. Ma ho un appello da fare: dobbiamo prima pulire davanti alla propria casa, essere più auto-riflessivi e meno difensivi, e diventare consapevoli del
proprio ruolo nei processi sociali sopra descritti. Questo Disastro, alla fine, sarà anche la nostra storia personale. Voglio sapere di aver fatto del mio meglio per cambiare le cose, finché ne avevo ancora la possibilità.
L’autrice
Jelena Subotić è professoressa di Scienze politiche presso la Georgia State University di Atlanta e autrice dei libri “Hijacked Justice: Dealing with the Past in the Balkans (Cornell University Press, 2009) e “Yellow Star, Red Star: Holocaust Remembrance after Communism (Cornell University Press, 2019) e di oltre venti articoli scientifici sull’identità, la memoria politica e le politiche dei paesi dei Balcani occidentali. La sua introduzione al progetto “Yugosplaining the World” è disponibile qui .