Dai Balcani al Baltico
Incontri con gli artisti, installazioni urbane, laboratori. Dal 15 ottobre al 30 novembre Modena diventa la città di GOING PUBLIC’05. Quest’anno dedicato alla trasversale dal Baltico ai Balcani. Abbiamo incontrato Claudia Zanfi, curatrice dell’iniziativa e direttrice artistica di MAST-Museo di Arte Sociale e Territoriale
Dal 15 ottobre al 30 novembre 2005 Modena diventa la città di GOING PUBLIC’05, un progetto culturale internazionale di ricerca, che sta ospitando artisti, opere, installazioni urbane, laboratori, incontri con gli autori e curatori. Dopo una prima tappa intitolata "Communities and Territories" svoltasi a Larissa (Grecia), dal 21 maggio al 30 giugno 2005, la tappa modenese racchiude in un titolo significativo il senso dell’operazione: From Balkans to Baltic. Abbiamo incontrato Claudia Zanfi, curatrice di GOING PUBLIC’05 e direttrice artistica di MAST-Museo di Arte Sociale e Territoriale, in attesa di partecipare martedì 15 novembre, presso il cinema 7B di Modena (ore 21.00), alla presentazione di due volumi relativi al progetto (Communities and Territories, LCAC ed., Larissa; Dai Balcani al Baltico, Silvana Editoriale, Milano, a cura di Claudia Zanfi). Nel corso della stessa serata sarà presentato anche il film/documentario TRANS:it, viaggio attraverso l’arte e le culture europee da Rotterdam a Istanbul, a cura della Fondazione Adriano Olivetti, introdotto dal suo curatore e ideatore, Bartolomeo Pietromarchi. Seguiranno "Sample City" di Calin Dan, sulle geografie umane e urbane di Bucarest e "Lontano da…" di Franco Vaccari, dedicato alla comunità rumena di Modena.
Come nasce GOING PUBLIC’05 e che significato ha questo titolo: From Balkans to Baltic?
GOING PUBLIC è un progetto che nasce affiancandosi al Festival di Filosofia di Modena, quindi radicandosi nella città di Modena, con un forte sostegno, non solo economico ma anche organizzativo, da parte della Provincia di Modena. Soprattutto, è in questa città che ogni anno, nel periodo autunnale, apriamo GOING PUBLIC ad un particolare tema legato alla contemporaneità, al nostro vivere contemporaneo, con un’attenzione particolare a problematiche politiche, socioeconomiche, alla geopolitica, al concetto di mobilità, ai confini, alle nuove geografie, la nuova Europa, ai futuri assetti economici. Il titolo, tradotto quasi alla lettera, può significare andare verso il pubblico, ma c’è di più. Dopo anni di esperienza come laboratorio culturale, in contatto con le istituzioni pubbliche e soprattutto con strutture museali o gallerie private, abbiamo sentito la necessità e intuito l’esigenza da parte della gente, del pubblico per l’esattezza, di poter fruire ed eventualmente anche partecipare a dei progetti culturali. Progetti che vanno aldilà della semplice opera artistica, intesa come elaborato estetico o oggetto da esposizione. Abbiamo avvertito che c’era questo fermento, questo fervore nell’aria, una specie di filo che vibrava grazie alla relazione con la gente, con il pubblico.
Come ha influito a livello progettuale questo feed back essenziale con il pubblico?
La nostra metodologia ci spinge, da sempre, a uscire da quelli che sono gli spazi canonici, o comunque gli spazi generalmente riconosciuti e adibiti all’esposizione delle opere d’arte. GOING PUBLIC nasce con questo sentimento e con una necessità di sfruttare quello che è il tessuto della città e della società. Quindi sono due i livelli di occupazione. Lo spazio pubblico è in questo caso lo spazio urbano che comporta la selezione di luoghi generalmente non atti a ospitare opere d’arte, da cui derivano spesso difficoltà e complicazioni organizzative notevoli. Cito l’esempio dell’atrio delle stazioni. Esso non viene usato solo per proporre happening o situazioni momentanee, ma diventa una vera e propria galleria pubblica di opere, situazioni e relazioni. La grande innovazione del progetto sta nella metodologia: il coinvolgimento diretto dei cittadini. Utilizzando spazi pubblici il pubblico locale può infatti usufruire ogni giorno di opere d’arte e installazioni urbane, con una partecipazione attiva alla realizzazione e visione dell’opera.
La stazione è un luogo emblematico, di movimento e attesa, scambio e risacca. Cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per GOING PUBLIC?
La stazione è un po’ il nostro luogo d’elezione. Siamo partiti dal tema della mobilità nella città contemporanea, quindi una mobilità vista su vari livelli. Lo spazio della stazione fa riferimento a ciò che la sociologia contemporanea definisce non luogo. Oltre alle stazioni, l’atrio delle stazioni, i sottopassaggi, i treni medesimi. Abbiamo operato sui vagoni dei treni in alcune reti di collegamento provinciale, come il Modena-Sassuolo che è una rete molto emblematica. È una rete ferroviaria provinciale, fittissima di operai, quindi l’utente principale è l’operaio che va nelle fabbriche di ceramiche. Di questi, l’80% è costituito da extracomunitari, provenienti in particolar modo dalla zona nordafricana, dal Maghreb. In questa edizione chi arriverà a Modena troverà le pareti dell’atrio ferroviario coperte di testi, parole, frasi, pensieri scritti: una sana lettura per tutti offerta durante le attese dei treni e le pause dai viaggi. Anche le fermate degli autobus sono un luogo interessante e molto curioso: in quella situazione momentanea dell’attesa dell’autobus o del tram, si creano storie da raccontare.
L’espressione From Balkans to Baltic figura subito una linea verticale tra nord e sud Europa che anche voi avete attraversato. Ce ne può parlare?
Trattando i discorsi delle nuove geografie, della flessibilità e mobilità, siamo giunti al concetto di confine/confini, visti come situazioni non permanenti ma permeabili, come afferma Zygmunt Bauman. Esistono traiettorie o assi geografiche sociali che studiamo soprattutto dal punto di vista delle geografie umane, investigando su come avvengono gli spostamenti di masse, di immigrati o migrati, in quella che è l’attualità dell’Europa allargata.
L’anno scorso è stata analizzata tutta la traiettoria orizzontale, da Gibiltterra a Cipro, con questo canale di restringimento che è appunto lo stretto di Gibilterra, con un accenno e un salto anche alla situazione Palestina/Israele e al confine Messico-Usa nella città di Tijuana: altro caso studio di grande emblematicità.
Ci può spiegare le due fasi del progetto GOING PUBLIC’05: quella di Larissa (Grecia) – Communities and Territories, e quella modenese?
Quest’anno, insieme a tutto il team di collaboratori, studiosi, ricercatori che collaborano al progetto, abbiamo sentito la necessità di tracciare un’asse verticale. In quella che è questa nuova Costituzione Europea, tutta in divenire e fortemente discussa, ci siamo sentiti di affrontare questa tematica non tanto chiedendo agli artisti di esporre la loro opera, solo perché magari nativi della Lituania piuttosto che della Romania, ma invitandoli a lavorare sul concetto dell’asse verticale. Ci siamo chiesti come è e come era quest’asse che attraversa e attraversava l’Europa, costituendo quella cortina di ferro, quel taglio che proprio dai Balcani arriva al Baltico. Quello era lo spartiacque. Lo è stato per tutto il periodo della Guerra Fredda. Certo in questo momento, considerando le implicazioni politiche, economiche e territoriali, dopo la caduta del muro di Berlino e non solo, in questa fase di nuovo allargamento, non si può più parlare di quest’asse in maniera concreta. Però esiste. Lo testimoniano anche alcuni interventi scritti firmati da alcuni autori delle opere e sociologi, inseriti nella pubblicazione che verrà presentata il 15 novembre a Modena presso il cinema 7B, insieme alla Fondazione Olivetti. Questo testo riunisce e documenta il percorso di lavoro compiuto durante tutto il progetto, non come un catalogo di opere indirizzato solo alla critica d’arte o all’aspetto esclusivamente estetico-artistico, ma come raccolta di riflessioni, tracce che aprono l’indagine ad un approccio anche sociopolitico. Larissa ci ha invitato tramite un network di artisti e studiosi che erano venuti già a Modena nella prima edizione ed erano rimasti entusiasti del progetto. Da lì la città di Larissa ci ha chiesto di inaugurare con GOING PUBLIC’05 un loro nuovo spazio di arte contemporanea istituzionale, un centro civico. Noi ci trovavamo in una fase in cui era già delineato il tema dell’edizione di Modena, relativo soprattutto all’area baltica; ci è sembrato interessante mettere in rete l’intera ricerca a partire proprio dai Balcani, zona geografica in cui si situa Larissa, ai confini con Macedonia e Albania. La forte presenza di autori rumeni spiega infine come la Romania, paese a metà tra la spinta verso i paesi baltici e la spinta verso i paesi balcanici, ha fatto da cerniera tra i due territori, perché proprio nello stesso periodo noi eravamo a Bucarest, ospiti in un convegno che, tra le altre cose, ha creato le premesse per la collaborazione al futuro GOING PUBLIC’06. Lo scambio è sempre a doppia mandata, c’è sempre un’adata e ritorno. Noi non poniamo mai delle cose date, ma andiamo a lavorare su quelli che sono gli assetti socio-politico-territoriali-economici del luogo che ci ospita. Penso a Larissa, a queste immense e innumerevoli, piccole, grandi, medie comunità di immigrati, dai vlakos ai rom ai pontians, che sono greci rimasti in Russia per vent’anni e poi, in seguito alla caduta del muro, reimpatriati; e tutt’ora vivono e dormono in containers. Tutte queste ricerche analizzano situazioni del territorio. Sono dei laboratori svolti, come in questo caso, con i gruppi sociali medesimi delle comunità. Questo è ciò che fa sicuramente, come noi crediamo, la forza e l’originalità del progetto.
Si ha l’impressione che l’ideazione, la progettazione e l’organizzazione di eventi di questo tipo partano sempre da ovest, è d’accordo?
È un po’ inevitabile, nel senso che le strutture di produzione, promozione, divulgazione, sono prevalentemente collocate, almeno per ora, in una fascia a ovest: i grandi musei, i grandi centri culturali, i giornali, le testate anche di settore, i giornalisti stessi, i curatori. È una condizione senza alcuna accezione negativa. L’ovest guarda a est con grande attenzione, perché fino a cinque o sei anni fa, a parte la cortina di ferro, non si guardava per nulla a est. Si guardava all’America Latina, a Cuba, agli artisti messicani. Trovo che questa volontà di scoprire e di dialogare con situazioni e istituzioni culturali dell’est, sia un fatto più che positivo. Anche perché non è un’imposizione ma è un invito a loro da parte di un occidente che è interessato, che vuole conoscere, che vuole approfondire. Fino a pochi anni fa chi conosceva artisti dell’est? Anche l’interesse nostro, ci mettiamo in mezzo in questo gruppo di ricercatori, era limitato, perlomeno spostato ad altre zone. Forse anche ad altre problematiche. La data spartiacque, come quindici anni fa è stata quella della caduta del muro di Berlino, oggi è l’11 settembre 2001. Da quella data anche il nostro sguardo è cambiato. Negli ultimi cinque-sei anni abbiamo lavorato con artisti provenienti dall’Iraq, dalla Palestina, da Israele. E il ricercatore segue percorsi che non possono esonerare dai mutamenti del contemporaneo.
Come reagiscono gli artisti coinvolti?
C’è da dire che gli artisti o autori, non sono necessariamente artisti, ma spesso sono urbanisti, architetti, scrittori medesimi. Coloro che sono invitati o coinvolti sono proprio coinvolti di persona. In questo senso: il progetto si sviluppa in un intero anno di lavoro. Per cui non è una mostra estemporanea. È un anno di ricerca. Generalmente parte con una nostra visita sul campo. Le nostre vacanze natalizie sono sempre investite in viaggi verso i paesi con cui poi nell’autunno lavoreremo al progetto. Per cui la Romania piuttosto che la Polonia, o la Grecia arida, dura, come il nord della città di Larissa, vicino a Salonicco. Si parte con un viaggio di ricerca, ricognizione, contatto diretto e dialogo. Prima della partenza si prendono contatti per incontrare l’artista nello studio, piuttosto che il direttore o la direttrice di una Fondazione o di una Istituzione o Associazione culturale, che riconosciamo essere in sintonia con questo tipo di ricerca. Non ci interessano, non all’interno di questa ricerca, tutti i discorsi commerciali o spazi che hanno, pur con grande dignità e rispetto, altri percorsi. Stabiliti i contatti si comincia il lavoro nei territori interessati, attraverso quelle che chiamiamo azioni sul campo. Tutto questo viene documentato con fotografie, video, interviste. A volte siamo stati invitati a fare presentazioni ufficiali magari delle edizioni precedenti. Questa è la primissima fase. E da lì le persone cominciano a sentirsi coinvolte, diventa un vero e proprio network. Perciò non è mai una cosa che piove dall’alto, un invito secco a portare un’opera che magari è già stata allestita, ma è una copartecipazione a tutti gli effetti al lavoro, al progetto, alla ricerca. Una volta individuate le figure con cui cooperare, si parte per l’intero anno di lavoro insieme. Si mettono a punto le tematiche, i lavori da produrre, c’è una produzione di opere site specific, con budget sempre strettissimi e l’impegno di raccogliere i materiali per la pubblicazione. Collaborano al progetto circa una quarantina di persone. Forse anche più. Poi c’è tutto uno staff tecnico organizzativo. C’è un comitato scientifico che va da Carlos Basualdo che sta a New York, a Caterine David che sta a Parigi: è un network. La metà degli artisti invitati a Modena nell’ultima edizione non era stata in Italia, alcuni non erano nemmeno mai usciti dalla Romania. Quindi, ribadisco, è uno scambio a tutti gli effetti, anche se è l’ovest che detiene gli strumenti per promuovere e rendere visibile a livello internazionale il lavoro di questi autori.
Come percepiscono gli artisti balcanici un progetto come il vostro?
Cercherò di rispondere attraverso un paragone. Rispetto alle fasi modenesi ci sono due punti da sottolineare: da noi si lavora un po’ come in Svizzera, nel senso che la città, le istituzioni della città che partecipano al progetto, la nostra modalità di lavoro qui in Italia è una modalità rigorosa, professionale. Dall’altra parte la città, Modena – ma potrei parlare anche di Milano -, conserva un atteggiamento un po’ borghese, incappottato, non si lascia coinvolgere del tutto, visto che questo è anche un progetto di arte partecipativa. Eppure quest’anno siamo intervenuti nel chiostro della Biblioteca Delfini di Modena, nel centro della città, nello spazio del Dopo Lavoro Ferroviario, che è un circolo dei ferrovieri. La partecipazione è sempre: ci sono ma non mi coinvolgo più di tanto. I Balcani sono il contrario. Ci sono i due aspetti quasi ribaltati. Organizzazione devastante. Nel senso che i termini sono molto approssimativi. È stato difficilissimo lavorare a Larissa, tutto un po’ all’ultimo minuto, con una nostra supervisione da qui estremamente attenta perché se si lasciava per un attimo il filo cadeva tutta l’impalcatura. Detto ciò, l’edizione che in primavera si è svolta a Larissa che, lo ripeto, è una città di provincia di una provincia europea come la Grecia, con questi confini emblematici quali la Macedonia e l’Albania, ha avuto un successo estremo. E le ragioni vanno forse ricondotte alla situazione climatica molto più favorevole, all’atmosfera, al grado di coinvolgimento e alla partecipazione che si vive in quell’area balcanica o che fa parte di questo essere mediterraneo a tutti gli effetti.
Cosa emerge dopo un anno di esperienza sul campo e di ricerca?
Più aperte restano le problematiche nei paesi balcani. Quelle legate al Baltico sono in divenire e la nostra visita in Polonia (Danzica e Varsavia) ha provocato un dibattito molto forte che si troverà anche sulla pubblicazione. Si tratta dell’aspetto economico, perché il consumismo su questi paesi sta facendo pressioni enormi e questi paesi non sono pronti a resistere. C’è un’opera che si intitola Recycle Mentality dove un video proiettato su un piccolissimo minischermo mette in gran velocità immagini raccolte nei supermercati che stanno crescendo come funghi, in cui la gente ci racconta di aver visto, per la prima volta, gli scaffali pieni di merci allineate tutte per generi, per colori. Inserito all’interno di una vecchia lavatrice, nel cestello, è collocato il minischermo e chi guarda è invitato a inserire la testa dentro al cestello: il titolo fa riferimento al lavaggio di cervello che stanno subendo le popolazioni di questi paesi. Dalla Polonia ci arriva pure un testo inedito che pubblicheremo a breve, di Slawek Sierakowski, che è uno dei maggiori giovani sociologi di Varsavia, oltre che politico disubbidiente.
Quanto contano le istituzioni?
Noi siamo una piccola ma seria e resistente comunità di ricercatori, di studiosi, artisti, curatori, che ha fondato questa associazione culturale, aMAZE lab. Lo stesso GOING PUBLIC si colloca all’interno di una cornice più estesa, che è il progetto MAST-Museo di Arte Sociale e Territoriale. Importante perché questa definizione dà anche già un’indicazione della traiettoria di lavoro che seguiamo. Siamo perciò una piccola struttura che dialoga con istituzioni, sia della nostra grandezza sia anche molto più grandi e devo dire che nel momento in cui si presentano comunque dei progetti seri, approfonditi, che vanno a indagare (non a risolvere) una serie di problematiche legate ai territori, le istituzioni anche estere, come è stato il caso della città di Larissa, rispondono positivamente. A Larissa abbiamo avuto una grandissima collaborazione, non tanto e non solo dei cittadini e delle comunità coinvolte ai laboratori, ma anche a vari livelli istituzionali: la città per prima; quindi la municipalità che ci ha invitati; il nuovo centro di arte contemporanea; le prigioni, perché uno degli artisti ha proposto un lavoro sul dentro e fuori di quella che è una delle più importanti prigioni politiche in Grecia; il campo dell’aviazione militare poiché un altro artista, di Cipro, ha svolto un progetto sui militari. Questa è la prima base militare aerea di tutta la Grecia e da lì partono gli aerei per la Turchia: sappiamo la problematica di Grecia-Turchia sull’isola di Cipro e ogni cinque minuti, in continuazione, partono questi caccia, aerei da guerra che abbiamo fotografato e ripreso. In quest’ultimo caso la collaborazione è stata un po’ più difficile, però anche qui è andata. La politica, se per politica intendiamo quest’aspetto della sfera pubblica che guarda con attenzione al sociale, ha a tutt’oggi un interesse sincero su questo tipo di progetto. Con Modena siamo in partnership fin dagli inizi: con l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Modena, con la città di Sassuolo e ora con quella di Formigine. Ma la cosa interessante è quando siamo invitati dai paesi stranieri. Fin’ora la costruzione di questo network a dato risultati molto positivi ed è in crescita. Collaboreremo con Cipro, con la municipalità di Nicosia per il progetto di Manifesta. Per quanto riguarda l’Italia, stiamo collaborando con la Fondazione Olivetti e con la Fondazione Pistoletto.
Dopo Gibilterra e Cipro, Balcani e Baltico, dove è diretto il prossimo viaggio?
L’anno prossimo abbiamo questa possibilità di realizzare parte del progetto a Bucarest, con tappa autunnale a Modena. Qualche accenno si può fare al tema della ricerca che riguarderà quasi sicuramente la rivoluzione nel senso di resistenza in tutte le sue accezioni. Sono temi che andremo a dibattere a dicembre. Rivoluzione sia per questi paesi a ex-regime dittatoriale, per meglio capire che cosa ha voluto dire per loro resistenza, sia resistenza nel quotidiano, facendo riferimento alla sopravvivenza quotidiana.
Link consigliati:
www.amaze.it
www.fondazionepistoletto.it
www.cittadellarte.it
www.lovediffreence.org
www.fondazioneadrianolivetti.it