Daghestan: il pellegrinaggio alla montagna sacra
In epoca sovietica, quando i culti religiosi venivano repressi, era divenuta un’alternativa al pellegrinaggio alla Mecca. Ma anche ora che non è più così la montagna sacra di Shalbuzdag attira ogni estate centinaia di pellegrini
(Pubblicato originariamente da Chai Khana nel maggio 2018)
Camminano carichi di biscotti e dolci, partendo prima dell’alba per essere risparmiati dal sole feroce dell’estate daghestana. Altri portano con loro anche marmellate e formaggio fatti in casa; in molti portano vestiti, magliette e sciarpe da lasciare come offerte.
Ogni anno, quando la neve si scioglie, in migliaia salgono il monte Shalbuzdag, una della cime più alte del sud-est del Caucaso. Un pellegrinaggio che in passato era fondamentale per i musulmani della regione per mantenere viva la propria fede nonostante i decenni di repressione sovietica.
Il Daghestan non era infatti immune dalla repressione del credo religioso: i leader spirituali venivano perseguiti, le moschee e le scuole coraniche chiuse. Ciononostante il pellegrinaggio alla montagna sacra è sopravvissuto.
Secondo la tradizione orale, il pellegrinaggio è precedente all’arrivo dell’Islam nel Daghetsan, nel 7mo secolo. Il culto islamico si diffuse poi lentamente, inglobando le tradizioni religiose precedenti.
La venerazione del monte Shalbuzdag sintetizza sia il credo islamico che culti locali precedenti come la devozione ai cosiddetti “uomini giusti” ed ai luoghi in cui sarebbero sepolti, i cosiddetti ziyarats o pirs. Vengono celebrati anche luoghi specifici, presso grandi sassi o alberi, ritenuti capaci di portare salute, vita lunga e fertilità.
Il pellegrinaggio al monte Shalbuzdag combina inoltre narrazioni legate a persone contemporanee al profeta Maometto, ad esempio la figlia Fatima, con vicende legate a questi “uomini giusti”.
Non potendo praticare in periodo sovietico il pellegrinaggio alla Mecca, la città santa dell’Islam, che i musulmani ritengono sia da fare almeno una volta nella vita, i credenti del Daghestan si sono rivolti al monte Shalbuzdag.
“Ai tempi dell’Unione sovietica era uno dei pochi posti dove si poteva connettersi con la fede, recitare preghiere e comunicare con Allah tramite i santi”, ricorda Hadijat Guseynova, che ha ora 70 anni. Ogni anno, assieme ad altre donne, si reca sul monte sacro arrivandovi dal suo villaggio, Karakyure, per recitare preghiere e per ringraziare Dio dell’anno trascorso bene.
Anche Magomed Magomedov ha memorie simili a Hadijat. “Mia nonna mi raccontava storie di questi uomini giusti mentre camminavamo per raggiungere la cima del Shalbuzdag. Quando è stata chiusa la moschea del villaggio ha iniziato a venire ai piedi della montagna per pregare e lasciare offerte”, racconta questo pellegrino di 57 anni, originario del villaggio di Khryug.
Al giorno d’oggi la lunga camminata è una delle molte pratiche religiose della regione e non è più un’alternativa al pellegrinaggio alla Mecca. Questo non significa che non siano in centinaia a risalire la montagna in estate.
Molti devoti insistono sul fatto che sette salite al monte Shalbuzdag corrispondano ad un pellegrinaggio alla Mecca.
In cima al monte i pellegrini raccolgono acqua santa dal lago Zamzam e lanciano sassi e pietre che simboleggiano il male. Molti sono qui a causa di malattie. Fatima Ramazanova è un’insegnante d’asilo in pensione. In passato non aveva alcun interesse nella religione: “Non sono mai stata quassù fino a quando, a cinquant’anni, le mie gambe hanno iniziato a non funzionare più tanto bene”, spiega la donna, originaria del villaggio di Khlut, a poche ore di macchina dal monte Shalbuzdag. “Mio zio mi ha suggerito di venire qui in pellegrinaggio e chiedere aiuto ad Allah. E io l’ho fatto”.
Lei e lo zio hanno risalito il Shalbuzdag assieme. “Io procedevo lentamente, con molto dolore. Quando siamo arrivati al lago sono svenuta. Non so quanto sono stata distesa ma quando mi sono risvegliata le mie gambe si muovevano in modo differente. Sentivo che il dolore stava scendendo. Ho allora giurato che sarei ritornata ogni anno sino a quando le forze me l’avrebbero permesso”.
A 3800 metri di altezza il pellegrinaggio termina su un pianoro; la cima vera e propria della montagna, a 4142 metri, può essere raggiunta solo con attrezzatura alpinistica.
Lungo la strada i pellegrini si fermano in vari luoghi. Uno di questi è il mausoleo dedicato a Pir Suleyman, un pastore locale che ha condotto una vita molto umile sino a quando, racconta la leggenda, qualcuno lo avrebbe sentito parlare con un animale e questo sarebbe stato interpretato come segno della sua santità.
Altro luogo di culto è il lago Zamzam, che porta lo stesso nome del pozzo della Mecca dal quale i pellegrini raccolgono acqua santa durante il loro pellegrinaggio. L’acqua gelida del lago è ritenuta santa e i credenti la raccolgono in bottiglie di plastica.
Si ritiene che Fatima, la figlia del profeta Maometto, assieme al figlio si siano fermati a riposare sul monte Shalbuzdag mentre fuggivano da Abu Sufyan, uno dei nemici del padre. I devoti si fermano in due luoghi specifici per commemorare questa fuga di Fatima.
Sul pianoro vi sono costruzioni di pietra. I daghestani ritengono che due “uomini santi” del ventesimo secolo, Shalbuz e Vaguf Buba, fossero capaci di teletrasportarsi in cima alla montagna dal villaggio vicino di Lezgin, per trascorrervi le notti in preghiera.
I pellegrini entrano nelle loro “case” per pregare e lasciare offerte, legando sciarpe a bastoni commemorativi posti all’interno delle costruzioni. Le coppie che desiderano un bambino legano strisce di stoffa con un sasso all’interno alle mura degli edifici, e le dondolano come se fossero culle.
Rituali che dimostrano la forza evocativa del pellegrinaggio al monte Shalbuzdag, che segna la memoria del passato ma anche rafforza la speranza nel futuro.