Da Srebrenica a Gaza, la sconfitta del diritto internazionale e la banalizzazione del genocidio
Doveva essere un definitivo "mai più": quello di Srebrenica è l’unico genocidio riconosciuto di tutte le guerre jugoslave. Da allora, il diritto internazionale ha continuato a indietreggiare di fronte all’egoismo dei singoli stati e il concetto di genocidio viene banalizzato. Un’intervista

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Srebrenica - © Shutterstock
(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans , il 10 luglio 2025)
Jean-Daniel Ruch, già consigliere politico di Carla Del Ponte, procuratrice speciale del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) dal 2003 al 2007, è stato ambasciatore di Svizzera in Serbia, Israele e Turchia.
Nel 2024 è uscito per i tipi della casa editrice Favre di Losanna il suo libro Crimes et tremblements. D’une guerre froide à l’autre au service de la paix e de la justice. In questa intervista, raccolta da Le Courrier des Balkans, Ruch parla del concetto e del riconoscimento giuridico del genocidio, da Srebrenica a Gaza, ma anche degli errori e dell’inazione della comunità internazionale.
Nel luglio del 1995 lei era un giovane diplomatico. Come aveva reagito alla notizia del massacro di Srebrenica? La portata eccezionale dell’evento l’aveva colto di sorpresa?
A quel tempo lavoravo presso la sede dell’OSCE a Vienna e, naturalmente, si parlava molto della situazione in Bosnia Erzegovina. Mi torna in mente un’immagine, quella di un incontro che, come solitamente accade, si era concluso con l’adozione di una risoluzione futile. Né Alija Izetbegović, l’allora presidente della Bosnia Erzegovina, né Haris Silajdžić, ministro degli Esteri, erano riusciti ad uscire dalla Sarajevo assediata. Quindi, era presente solo l’ambasciatore della Bosnia Erzegovina, un uomo di piccola statura sul quale il cancelliere tedesco Kohl, alto e corpulento, aveva esercitato pressioni sempre più forti affinché accettasse il documento.
Questa immagine, rimasta impressa nella mia memoria, riassume tutta la sofferenza e la miseria del popolo bosniaco che, come oggi accade al popolo palestinese, era costretto a sottomettersi ai diktat delle grandi potenze. Potenze restie a prendere tempestivamente le decisioni giuste e, di conseguenza, i massacri continuano a moltiplicarsi.
A dire il vero, però, rovistando tra i miei ricordi, non credo di essermi subito reso conto della portata eccezionale del crimine di Srebrenica. La dinamica di quell’evento non è paragonabile all’11 settembre, la cui eccezionalità era immediatamente percepibile, è simile invece a quanto sta accadendo oggi a Gaza, dove il susseguirsi dei massacri, l’interminabile litania di orrori ci impedisce di comprendere immediatamente che un crimine si contraddistingue da tutti gli altri per la sua portata.
Nel 2003 lei è stato nominato consigliere politico di Carla Del Ponte, l’allora procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia [ICTY]. Srebrenica era al centro dei procedimenti penali del tribunale…
In realtà, quello relativo a Srebrenica è stato il nostro processo principale, non solo per l’enormità del crimine e l’importanza degli imputati, ma anche per il numero e la rilevanza dei documenti e delle prove a nostra disposizione. Per noi il fascicolo Srebrenica è stato fondamentale, tanto che ci hanno lavorato i migliori procuratori aggiunti.
A Srebrenica è stato possibile e abbastanza facile dimostrare l’intenzione genocidaria, condizione essenziale per il riconoscimento giuridico del crimine di genocidio. È stato molto più difficile dimostrarla per altri crimini commessi nella Bosnia orientale. In totale, il Tribunale ha condannato diciotto persone per il crimine di Srebrenica, e per molte di queste persone è stata confermata l’accusa di genocidio. Srebrenica è un esempio paradigmatico dell’incapacità di quella che all’epoca veniva ancora definita “comunità internazionale” – concetto ormai svuotato di qualsiasi significato – di impedire una strage genocidaria.
Un massacro di natura genocidaria riconosciuto e documentato in tempo reale, dagli spostamenti delle truppe serbe alle fosse comuni…
Sì, sono a conoscenza della teoria per cui avremmo deliberatamente lasciato che a Srebrenica accadesse quel che è accaduto per permettere la firma degli Accordi di pace di Dayton, in modo da poter portare a termine la spartizione del territorio su base etnica, un progetto ostacolato dalle presenza delle enclavi nella Bosnia orientale. Non ho però alcuna prova definitiva al riguardo. Ne avevo parlato con l’ambasciatore statunitense per i crimini di guerra, il quale aveva confermato che il suo paese possedeva immagini degli spostamenti delle truppe serbe, immagini che però non erano sufficienti per capire chiaramente cosa stesse per accadere. Credo che sarà difficile giungere a conclusioni definitive fino a quando gli archivi statunitensi non saranno declassificati.
Srebrenica rimane l’unico caso di genocidio giuridicamente riconosciuto non solo in Bosnia Erzegovina, ma in tutti i territori coinvolti nelle guerre jugoslave…
Dimostrare l’intenzione genocidaria, quindi il genocidio, è molto complesso dal punto di vista giuridico. Quello di Srebrenica è stato l’unico caso in cui erano presenti tutti gli elementi [del crimine di genocidio].
Come è riuscito il Tribunale penale per l’ex Jugoslavia a far arrestare ed estradare [all’Aja] tutti gli accusati del genocidio di Srebrenica?
Quando ho assunto l’incarico nel 2003, avevamo molti imputati, ma pochi detenuti. Abbiamo quindi utilizzato la nostra risorsa principale, facendo affidamento sui meccanismi di pressione degli Stati Uniti, e soprattutto dell’Unione europea. Ben presto ci siamo infatti resi conto che gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, avevano altre priorità rispetto ai Balcani e che avrebbero fatto il minimo necessario [per sostenere il lavoro del tribunale]. D’altra parte, gli europei hanno posto la piena cooperazione con il Tribunale come condizione del processo di allargamento e questa condizionalità politica ha funzionato molto bene.
All’interno della Procura generale, abbiamo lavorato in tre direzioni: esercitare la pressione diplomatica sui paesi dell’Unione europea, affinché quest’ultima a sua volta facesse pressione sui paesi dei Balcani; poi la comunicazione esterna e, infine, una strategia operativa che prevedeva la cooperazione con i servizi segreti incaricati di arrestare gli imputati, anche se il più delle volte si è trattato di denunciare la mancanza di collaborazione!
Se da un lato la condizionalità politica ha funzionato, dall’altro mi dispiace vedere che l’Unione europea non ha mantenuto la parola data, nonostante la Serbia abbia fatto tutto quello che le era stato chiesto. La Serbia non ha ancora aderito all’Unione: una violazione dell’accordo che spiega molte delle frustrazioni odierne.
Il Tribunale è riuscito a far arrestare ed estradare tutti gli accusati. Quindi il bicchiere mezzo pieno. Non è forse vero però che lo possiamo osservare anche come un bicchiere mezzo vuoto? Ad oggi il genocidio di Srebrenica non è ancora stato riconosciuto da tutti, continuando a dividere la Bosnia Erzegovina e i Balcani nel loro complesso…
Attenzione, oggi nessuno, nemmeno i nazionalisti serbi, contesta la realtà e la portata del crimine commesso a Srebrenica. Le polemiche riguardano solo la sua classificazione come "genocidio", come ha dimostrato nuovamente l’atteggiamento della Serbia lo scorso anno, quando l’Onu ha istituito una giornata internazionale di commemorazione del genicidio.
Credo che senza il lavoro svolto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, la realtà stessa del massacro sarebbe ancora contestata. Certi ambienti serbi, purtroppo, continuano a mettere in dubbio il numero delle vittime. Tuttavia, persino gli avvocati di Milošević riconoscono il fatto che migliaia di persone furono giustiziate quella settimana del luglio 1995. La questione dell’”etichetta” di genocidio è in sostanza una fissazione artificiale. Nessuno stato accetta con leggerezza di essere riconosciuto colpevole di un genocidio. Il riconoscimento giuridico del crimine e la sua natura genocidaria fungono da monito per i Balcani e per tutta l’umanità.
Dopo i genocidi di Srebrenica e del Ruanda, e le relative sentenze dei tribunali penali internazionali creati ad hoc, si è tornati alla retorica del “mai più”. Oggi però parliamo nuovamente di un genocidio a Gaza…
La Corte internazionale di giustizia (CIJ), con una sua decisione, ha riconosciuto la possibilità che a Gaza stia avvenendo un genocidio, pur sapendo che nell’atto di accusa sollevato dalla Corte penale internazionale (CPI) contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, ex ministro della Difesa israeliano, viene menziona solo l’accusa di “crimini di guerra”, non quella di “genocidio”.
Nonostante il diritto internazionale sia teoricamente in vigore, oggi più che mai il mondo è governato da grandi potenze, che antepongono le proprie strategie e i propri interessi particolari al diritto, alla Convenzione internazionale per la prevenzione del crimine di genocidio, di cui sono tutte firmatarie.
La ragion di stato viene utilizzata per giustificare l’inazione e prevale sul diritto internazionale che, pur fornendo ancora una bussola preziosa, non è più vincolante nel mondo in cui viviamo. Gli Stati Uniti – che oggi hanno altre priorità rispetto all’obbligo di impedire i crimini di genocidio – non sono disposti a utilizzare i mezzi di coercizione a loro disposizione per fare pressione su Israele, e gli europei ancora meno. Da quello che ho capito, gli Stati Uniti forniscono il 60% delle armi consegnate a Israele, la Germania il 30%, il resto proviene principalmente dalla Francia e dall’Italia. Anche la Svizzera, l’anno scorso ha venduto i cosiddetti “beni a duplice uso” per un valore di 17 milioni di franchi. Alcuni di questi beni contribuiscono ai crimini commessi da Israele a Gaza.
Pensavamo che si stesse aprendo una nuova era, basata sul diritto internazionale. Oggi però questo ottimismo non ha più alcun fondamento nella realtà…
Credo che il punto di rottura sia arrivato nel 2003, con l’invasione statunitense dell’Iraq. Si è trattato di una palese aggressione, lontana da tutti i criteri utilizzati per giustificare una guerra con una minaccia imminente. Da allora, tutti i discorsi sulla preminenza del diritto internazionale, sull’esistenza di un ordine internazionale basato sulle regole, sono sembrati vani. Chirac e il cancelliere tedesco Schröder hanno fatto bene a rifiutare di partecipare all’invasione del 2003. Dopo la caduta del Muro di Berlino, eravamo portati a credere che potesse sorgere un mondo nuovo, sorretto dal diritto e non più dalla forza: un mondo guidato da un esecutivo, il Consiglio di sicurezza, e da un potere legislativo globale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e dotato anche di un potere giudiziario. Questa illusione è morta nel 2003.
Gli Stati Uniti, la cui nascita stessa si basa sull’affermazione dei principi costituzionali del liberalismo politico, sono stati i primi a violare il diritto internazionale. Dopo Bush, tutti i presidenti statunitensi, Barack Obama compreso, si sono lasciati coinvolgere in guerre ritenute illegali secondo il diritto internazionale. L’unica eccezione è stato Donald Trumpo fino a quando non ha lanciato bombardamenti sull’Iran, un intervento contrario a qualsiasi criterio legale, seppur condotto per evitare un’escalation che nessuno voleva, tranne forse Israele.
È difficile non ricordare gli anni ’90… La guerra nell’ex Jugoslavia, il Ruanda…
È vero, la comunità internazionale non si è dimostrata capace di prevenire questi conflitti, però almeno è riuscita a porvi fine, anche se gli Accordi di Dayton sono ben lungi dall’essere una soluzione ideale. Dopo gli errori commessi all’inizio decennio, si è deciso di dare priorità all’applicazione del diritto penale internazionale. Questa tendenza ha portato alla creazione della Corte penale internazionale, pensata come uno strumento di deterrenza universale, il fulcro del rinnovato sistema internazionale che si stava ricostituendo. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale è stato adottato nel 1998 e poi definitivamente nel 2002. All’epoca ci credevamo ancora.
Nonostante la guerra del Kosovo?
La guerra del Kosovo ha portato a due interpretazioni diametralmente opposte. La Russia sostiene che la NATO e gli Stati Uniti siano intervenuti senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza, calpestando così il diritto internazionale. D’altra parte, l’Occidente ritiene di essere intervenuto in ottemperanza al suo obbligo di prevenire massacri.
Oggi siamo tornati a Grozio: non parliamo più della legalità di una guerra, definita da criteri universalmente riconosciuti, bensì di guerre “giuste”, seppur illecite. Lo sostiene Israele, ma anche il cancelliere tedesco Merz quando, parlando dell’attacco all’Iran, afferma che Israele “ha fatto il lavoro sporco per noi”.
Se l’Occidente dovesse cadere in questa trappola retorica, non sarei troppo ottimista sul suo futuro. Certo, dispone ancora di enormi risorse economiche e militari per garantire il proprio dominio, ma per fare cosa? Cosa significa l’autonomia strategica europea rivendicata da Emmanuel Macron? Si parla di aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL, si citano cifre stratosferiche di 500 miliardi di euro o dollari, ma a quale scopo? Isolare la Russia e dividere l’Europa con una nuova cortina di ferro? Non sono sicuro che questa strategia possa portare benefici a lungo termine per l’Europa.
Questo articolo è stato ripubblicato nell’ambito di uno scambio di contenuti promosso da MOST – Media Organisations for Stronger Transnational Journalism, un progetto cofinanziato dalla Commissione Europea, che sostiene media indipendenti specializzati nella copertura di tematiche internazionali. Qui la sezione dedicata al progetto su OBCT












