Cronache danubiane: roccaforti e presidi
In questa seconda tappa di Cronache danubiane i camminatori di FuoriVia passano da Isaccea dove il Danubio è particolarmente stretto. Questo il motivo di una storia di mescolanza millenaria. Di là dal fiume, l’Ucraina. Una presenza che non si può ignorare
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Ho ucciso uomini e donne, vecchi e bambini di Oblucitza (…). Abbiamo ucciso 23.884 turchi e bulgari, senza contare coloro che sono bruciati vivi nelle case che abbiamo incendiato (…). Quindi Vostra Altezza deve sapere che ho rotto il trattato di pace con il sultano.
Così Vlad Tepes III, voidova di Valacchia – altrimenti noto come Dracula – scriveva a Mattia Corvino, il cristianissimo sovrano di Ungheria nel 1462.
Uno si immagina il famigerato conte a escogitar misfatti vampireschi nel suo castello in Transilvania, e invece se lo ritrova qui, nel basso Danubio, a fare incursioni in territorio ottomano, nel punto in cui il fiume può essere più facilmente guadato: Oblucitza.
Perché Obliciza? E cos’è Obluciza? Iniziamo col dire che si tratta di uno dei tanti toponimi che hanno caratterizzato l’area dell’attuale Isaccea, occupazione dopo occupazione. La lista è corposa: Noviodunum, se si vuole usare il nome latino. La radice è però celtica, dove dunum indica appunto una fortezza. Genucla denota il nome dacio di un insediamento locale. L’origine slava di Oblucița significa rocca. Vicina è il nome di un avamposto genovese in epoca bizantina situato nell’area. E infine Isaccea è un toponimo forse derivato da un governatore locale, Sakça, dell’XI Sec.
Ci arriviamo da sud a Isaccea, reduci da una notte nel monastero ortodosso di Cocoș, ospitati dai monaci in un complesso del XIX secolo immerso nel silenzio dei boschi. Unico suono, l’eco ipnotica di canti e preghiere.
Svegliati dal canto del gallo, ci mettiamo in cammino verso Isaccea, che inizialmente non sembra destare il nostro particolare interesse, se non per la presenza di una comunità rom che guardiamo con curiosità e cautela mentre, sudati e assetati, lasciamo i nostri zaini incustoditi per rifornirci al minimarket. Anche loro scrutano noi, con la stessa curiosità e cautela.
A guardar bene, però, le ragioni della storia millenaria di mescolanza e conquista che caratterizzano quest’area sono ancora tutte lì, in quel tratto di Danubio in spaventosa secca, largo non più di 1 km.
Di là dal fiume, l’Ucraina. Una presenza che non possiamo ignorare, fosse solo per la solerzia dei provider telefonici che, agganciandosi continuamente a ripetitori d’oltre confine, fanno scattare tariffe favolose, succhiando in automatico il nostro credito.
Insomma, un varco da sempre vulnerabile, un tallone di Achille da proteggere.
Lo sapevano bene i Romani, che infatti qui vi costruirono un presidio a difesa del limes danubiano. È quanto ci racconta Aurel, presidente di un’associazione archeologica che effettua ricerche nella zona e che ci ospita per la notte presso il "Noviodunum ArchaeoPark", affacciato sulla riva del fiume.
Un concetto, quello di presidio e roccaforte, che sembra essere iscritto nel DNA di queste regioni e, ad ogni ansa di fiume che percorriamo, riscontriamo le testimonianze di tali presidi, non solo architettonici, non solo fortezze, ma anche presidi etnici e sociali, antichi e moderni, che però, sempre, trovano la chiave della convivenza.
Dopo Sulina, il primo presidio tangibile è la frontiera doganale di Portul Isaccea, dove alcuni di noi incontrano i rappresentanti delle ONG che da febbraio sono qui ad accogliere i profughi ucraini.
Altri di noi procedono oltre, sul lungofiume verso l’antica cittadella, dove Aurel ci attende per la cena.
Zigzaghiamo tra una fila interminabile di TIR: targhe turche e ucraine, qualcuna dalla Georgia. 4 km di coda, tutti fermi, motore spento. I portelloni laterali sono ribaltati a mo’ di tavola, viveri e scorte a vista. I camionisti seduti su scanni di legno sorseggiano çay, accompagnato da gallette e cetrioli sott’aceto.
Perché questa fila? Perché siete tutti accampati? Perché non vi fanno imbarcare? Ci rivolgiamo ad alcuni camionisti turchi in inglese. Hanno una gran voglia di chiacchierare, ma l’inglese non è il loro forte, tanto meno il turco per noi. Per tutta risposta ci offrono thè e cetrioli. Capiamo tra le righe che trasportano pannolini, che sono sbarcati a Costanza due giorni prima, che hanno raggiunto via terra Isaccea, il punto più adatto per trasportare le merci in Ucraina, e che ci vorranno altri quattro giorni per imbarcarsi. Sembrerebbe una rotta import-export di una certa rilevanza, ma non comprendiamo fino in fondo quanto questo traffico sia figlio del conflitto o in che misura fosse operativo già prima di febbraio.
Praticamente ovunque, lungo i 500 km di questo ostro cammino 2022 tra Sulina e Ruse (LINK), ci attendono roccaforti e presidi, comunità e gruppi etnici di origini disparate.
Come quando i lipoveni di Ghindărești ci adottano per caso, salvandoci dalla prospettiva di una notte selvatica lungo il fiume in assenza di una sistemazione a Topalu, e ci offrono la palestra comunale, docce, bagni e una corroborante cena condita da canzoni popolari russe. Ci tengono a precisare che loro non c’entrano niente con questa guerra e che pregano per i profughi che hanno dovuto lasciare la loro terra.
Non ne sapevamo un granché sui lipoveni prima di imbatterci in questo gruppo etnico di origine russa, insediatosi in territorio rumeno nel XVIII secolo per sfuggire alle persecuzioni contro la propria fede durante il regno di Pietro il Grande.
Ripartiamo stupiti e grati per questa coincidenza inaspettata, perfetta, come orchestrata da qualche forza sconosciuta.
Altri presidi verranno, come le rovine della fortezza romana ad Hârșova, l’antica Carsium, oggi patria di un’importante comunità rom con cui ci mischiamo per un tuffo nel fiume al tramonto; oppure l’antica cittadella di Capidava, dove sostiamo in cammino verso Cernavodă. Persino leggendo il nome del capolinea sugli autobus di Galați avevamo riconosciuto il retaggio di antichi presidi: Bariera Traian.
Chiudiamo il cammino a Ruse, in Bulgaria, dove si materializza la quintessenza del presidio: il muro d’acqua che protegge la città.
Non a caso chiamata "la piccola Vienna", Ruse ti fa sentire già un po’ in Austria. Siamo in Europa, ma ci accorgiamo presto che tornare in Romania, sull’altra sponda, non è affatto scontato: un solo treno giornaliero Istanbul-Bucarest delle 14.15… se passa; un bus la mattina alle 9.00, con file interminabili per i biglietti; un misterioso servizio taxi che, forse, attraversa l’unico ponte nel giro di circa 300 km; nessun servizio traghetti; nessuna possibilità di attraversare a piedi il ponte.
Non siamo ancora in area Schengen, ma siamo pur sempre in UE, e la facilità di circolazione cui noi europei siamo ormai tanto affezionati sembra un concetto ancora molto lontano da qui.