Croazia: memorie operaie delle donne di Cres e Mali Lošinj
Puzzavano di pesce e facevano un lavoro molto duro. Ma si guadagnavano da vivere da sole. In passato, in quasi tutti i villaggi della costa adriatica si trovava un conservificio, fabbriche che spesso impiegavano donne dell’entroterra dalmata o della Bosnia Erzegovina. Un progetto di ricerca raccoglie i ricordi di queste lavoratrici
(Pubblicato originariamente il primo maggio 2020 da H-Alter, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBC Transeuropa)
Com’era in fabbrica? "Fantastico", dice K.K., con la voce piena di nostalgia e il viso addolcito. K.K ora vive a Lošinj (Lussino), dove è arrivata nel 1958, dalla vicina isola di Pag: con una dozzina di altre ragazze del suo villaggio di Stara Vas è venuta a lavorare nel conservificio Kvarner di Mali Lošinj.
Si cantava tutto il tempo, ricorda. Eppure il lavoro era duro, con linee di produzione all’aperto, lavorando al vento gelido dell’inverno, in abiti impermeabili e stivali di gomma, con le mani sempre nell’acqua e quei barattoli di latta così affilati che “lasciavano cicatrici per tutta la vita”. Si dovevano riempire quattro scatole di pesce lavorato all’ora.
"La cosa peggiore era preparare i filetti di acciuga sotto sale", ricorda K.K., abbozzando il gesto di affettare i filetti immaginari sulla tavola. “Si fanno a pezzi, bisogna pulirli, dividere ogni filetto a metà, arrotolarli, mettere al centro un cappero”. K.K. era abituata a lavorare sodo: sulla sua isola natale, fin da piccola veniva mandata tutto il giorno nei campi, o alle saline di Pag (Pago), per separare i granelli di sale dalla terra.
In passato ci si imbatteva in un conservificio in quasi tutti i villaggi della costa adriatica. All’epoca, la mancanza di grandi frigoriferi significava che il pesce doveva essere confezionato il più rapidamente possibile e quindi il più vicino possibile a dove veniva pescato e sbarcato. Le industrie conserviere erano state aperte prima della Seconda guerra mondiale da società italiane e francesi in cerca di manodopera a basso costo, e la produzione fu rilevata, dopo la guerra, dal nuovo stato, la Jugoslavia socialista. L’industria conserviera Kvarner sull’isola di Lussino è stata chiusa nel 1974, sacrificata per un nuovo settore economico in forte espansione, il turismo. Il conservificio di Plavica, sull’isola di Cres (Cherso), è stato chiuso solo nel 1996.
Il funzionamento della fabbrica determinò anche lo stile di vita sull’isola: le prime lavoratrici furono le isolane, poiché la lavorazione del pesce era tradizionalmente responsabilità delle donne. Tuttavia, la gente del posto non ha impiegato molto a riorientarsi verso il turismo, un lavoro meno difficile e faticoso. Cominciarono quindi ad arrivare donne da altre parti della Jugoslavia, principalmente dall’entroterra dalmata, Bosnia Erzegovina e Slavonia, modificando così la struttura demografica locale.
Olga ha lasciato la sua città natale di Benkovac per Lussino nel 1964, all’età di 17 anni. Il suo arrivo venne organizzato attraverso un ufficio che offriva offerte di lavoro. Figlia di contadini, abituata ad alzarsi alle tre del mattino per andare a badare alle pecore, il lavoro non la spaventava di certo. Olga ricorda però che non tutto andò per il meglio: era stato loro promesso un alloggio e un buon stipendio, e "non fu proprio così" … Le operaie erano ospitate in un edificio che, come il conservificio, era lontano da Mali Lošinj (Lussinpiccolo). "Eravamo strette come sardine", dice, ricordando le notti scomode su sottili materassi a tre pezzi. Le donne condividevano un solo lavandino, racconta la sua collega originaria di Bosanski Novi. La paga non era certo alta. Ma era loro. Come dice Olga, "almeno ero il capo di me stesso". Presto decise di non mandare a casa il suo stipendio: suo padre beveva e i soldi non sarebbero stati al sicuro.
Ovviamente c’erano anche storie d’amore. Molti isolani sposarono "ragazze del conservificio", ma non tutte venivano considerate "idonee al matrimonio". Le operaie si dividevano più o meno in due categorie: da un lato, giovani donne povere e spesso analfabete provenienti da regioni svantaggiate, dall’altro, donne "problematiche", abbandonate o divorziate, madri single, donne fuggite da un marito violento o che avevano abbandonato i loro figli. Poco si dice di queste ultime. Una dipendente della direzione di Plavica a Cres, ha raccontato a mezza voce che riceveva spesso telefonate da famiglie in cerca di una donna in fuga.
L’azienda non faceva la difficile, dava lavoro a chiunque lo volesse. Ha permesso a queste donne di fare ciò che sembrava ormai impossibile: guadagnarsi uno stipendio, lasciare i mariti, provvedere ai propri figli, lasciare il villaggio. Sarebbe ingenuo pensare che così hanno riconquistato completamente la loro libertà: coloro che erano cadute in fondo alla scala dei valori tradizionali sono rimaste emarginate, anche tra le lavoratrici.
"Puzzi! … Allora, non ci siamo lavati? »… Ogni operaia ha subito queste molestie da parte degli abitanti del villaggio, anche dai membri della propria famiglia. Certo, puzzavano di pesce e il fatto che nessuno esitasse a gettarglielo in faccia la dice lunga sulla loro posizione sociale e sullo status del loro lavoro. In effetti, il duro lavoro fisico e i suoi cattivi odori erano indesiderabili in una nuova società con un tenore di vita in aumento, dove tutti riponevano le loro speranze economiche nel turismo, basato sulla creazione di un ambiente bello, pulito e profumato e dove poco si sopportava ciò che ricordava un’esistenza difficile.
Inoltre, la comunità locale aveva un rapporto ambiguo con queste donne che vivevano da sole e si guadagnavano da sole da vivere, lontane dalla supervisione e dalla protezione delle loro famiglie. Il solo fatto che una donna non fosse sotto la costante sorveglianza di suo padre e dei suoi fratelli e che fosse "padrona di se stessa" la rendeva sospetta. Allo stesso modo, dal momento che la sua famiglia non era lì per sorvegliare le sue relazioni con gli uomini, diventava improvvisamente un soggetto (o meglio un oggetto) a cui qualsiasi uomo avrebbe potuto avere libero accesso.
Papaline
"Le chiamavamo papaline (piccolo pesce azzurro simile per dimensione alla sardina, ndr)", racconta improvvisando un mezzo sorriso un residente di Cres, di mezza età, un cittadino che, come si fa qui, si beve il suo caffè mattutino in camicia bianca. Un sorriso che identifica il rapporto con le operaie: di superiorità e di presa in giro, espresse più o meno sottilmente. I soprannomi "ragazze del conservificio" a Lussino o "le sardine" in Istria hanno la stessa connotazione. Le "papaline" erano quelle da cui i pescatori speravano di ottenere "la cosa", spiega senza giri di parole Dinka, arrivata da Sarajevo a Cres alla fine degli anni ’70.
“Venivano davanti all’edificio in cui vivevamo e chiedevano: ‘C’è f…?’. Era umiliante, ma io rispondevo: ‘C’è, caro signore, ma sono 50 marchi solo per entrare nella stanza!’”dice Dinka, che si è difesa con la sua insolenza, l’orgoglio e una lingua arguta. Tuttavia, queste ragazze rese indipendenti dai loro stipendi a volte hanno fatto uso della loro libertà sessuale – almeno, questo è quello che si diceva. Alcuni dei nostri interlocutori hanno spiegato che a volte nelle stanze c’erano più persone che letti. Potrebbe essere solo un pettegolezzo, ma potrebbe anche essere un modo per testare i limiti: in questi piccoli villaggi rurali e patriarcali, alcune donne forse mettevano in discussione cosa potesse essere e cosa potesse fare una donna.
Le gerarchie sociali non si riflettevano solo nei rapporti tra uomini e donne, tra gli isolani e le "conservatrici", ma anche tra le stesse lavoratrici. Le native di Lussino e di Cherso parlavano tra loro il dialetto insulare di origine italiana, anche se conoscevano il croato. Lo facevano per prendere le distanze dalle nuove arrivate che così non le capivano. Ankica, originaria di Virovitica – ma che aveva imparato l’italiano a scuola – racconta che le "locali" dicevano cose cattive su di loro alle loro spalle, pensando di non essere capite.
K.K., di Pag, non parlava italiano e quindi non comunicava con le donne di Lussino. Dinka, invece, ricorda che le donne di Cres a volte "come se accadesse per caso" versavano dell’acqua sul gruppo di donne bosniache, le quali rispondevano con bordate di maledizioni e minacce di cui solo loro capivano il significato. La comunicazione tra "locali" e "straniere" non era quindi sempre facile e le lavoratrici formavano gruppi in base alla loro provenienza geografica.
Le donne non si legavano solo sulla base dell’etnia o della regione. Un altro elemento di separazione e riavvicinamento era l’istruzione, così come l’atteggiamento verso ciò che si intendeva per modernità. Le nostre interlocutrici hanno sottolineato la differenza tra le donne analfabete e "primitive" (una categoria che comprende sia le isolane più anziane che le donne provenienti da punti sperduti nell’entroterra dalmata o in Bosnia) e quelle che avevano ricevuto un’istruzione e che, adottando nuove abitudini, si avvicinavano all’ideale dell’uomo socialista moderno.
Naturalmente, nessuna di queste differenze ha dato luogo a divisioni chiare, nette e definitive e le donne hanno suggellato varie unioni, si sono avvicinate o si sono separate a seconda del contesto. Dinka afferma così di aver "sempre protetto le sue donne bosniache", sottolineando la comunanza regionale, tracciando allo stesso tempo una chiara linea di demarcazione da loro. Da ragazza di città, con bei vestiti e il diploma di stenodattilografa in tasca, fu sorpresa di vedere una poveretta arrivare a Cres "solo con sacchetti di plastica". Per lei la differenza era molto semplice: “Non sono della Bosnia, sono di Sarajevo. "
A Lussino, l’amministratrice del conservificio Kvarner entrava in contatto con tutte le lavoratrici. Formatasi all’università, dice di essere rimasta "scioccata" dalla manodopera che arrivava dalla Bosnia, in gran parte analfabeta: donne che non sapevano firmare, non conoscevano la propria data di nascita e si proteggevano dal malocchio attraverso rituali che comprendevano l’uso di sangue e urina di gatto. Le operaie percorrevano tutti i giorni il tragitto dal villaggio alla fabbrica in barca, ma l’amministratrice rinunciò presto ad andare con loro: "Per me era difficile viaggiare con loro, non ci riuscivo…".
Olga invece, di umili origini, è riuscita a risalire la scala sociale: vivace e intelligente, è diventata caposquadra, e tutte le sue colleghe lodano la sua bravura e serietà. Emerge così, a poco a poco, l’immagine di due gruppi di donne: quelle che sono riuscite a sfruttare la fabbrica per il loro progresso sociale e a cavalcare l’onda della modernizzazione che stava trasformando il paese, e le altre che, per vari motivi, non sono riuscite.
I ricordi differiscono anche tra Cres e Lošinj. Le lavoratrici di Lussino parlano spesso di una vita e di un lavoro difficili, nonché di differenze insormontabili all’interno del gruppo di lavoro e della comunità locale, mentre chi ha lavorato a Cres evoca più spesso cameratismo, amicizia e bei tempi trascorsi insieme. Perché tali differenze? Le condizioni di lavoro in fabbrica, i rapporti tra le lavoratrici e le loro esperienze di vita sull’isola sono dipese in gran parte da quando si è arrivati nell’industria conserviera. Kvarner, a Lussino, ha chiuso nel 1974, mentre Plavica, a Cherso, ha operato fino al 1996.
In effetti, le condizioni di vita dell’isola erano molto diverse tra gli anni ’60 e gli anni ’80, quando la Kvarner aveva già chiuso. Se, come K.K., sei arrivata a Lussino negli anni ’60, probabilmente hai vissuto in un appartamento poco igienico, senza acqua corrente o scarichi e si approfittava della notte per svuotare discretamente acque nere e vaso da notte. Negli anni ’80 tutte le infrastrutture erano a posto.
Un altro fattore importante era che le industrie conserviere erano molto diverse, sia nel funzionamento che nel ruolo che svolgevano nel villaggio. A Lussino il conservificio Kvarner era semiautomatico e non beneficiava di investimenti, poiché tutti sapevano che la sua chiusura era imminente: i suoi rumori e odori ostacolavano il turismo in espansione.
Il conservificio di Cres, da parte sua, non era un’appendice oltraggiosa che ostacolava lo sviluppo del turismo ma era, insieme al maglificio e al cantiere navale, parte integrante dell’infrastruttura industriale che impiegava gli abitanti della città. Inoltre, dicono i lavoratori, a un certo punto i salari a Plavica erano addirittura più alti che in altre fabbriche. Plavica ha beneficiato di investimenti, la linea di produzione è diventata più moderna e il lavoro meno duro. L’azienda nel tempo si è integrata nel tessuto urbano, interagendo con gli abitanti e le altre infrastrutture dell’isola.
Kvarner, al contrario, è stata messo da parte. Mali Lošinj ha una lunga tradizione turistica e nautica, che probabilmente ha avuto un impatto nel dare basso status sociale alle lavoratrici. Gli abitanti di Cres tradizionalmente si guadagnavano da vivere con l’agricoltura e la pesca, quindi vi erano meno differenze di classe tra isolani e operaie rispetto a Lussino. Infine, Plavica ha continuato a operare durante il periodo di massimo splendore degli anni ’80, quando, come ha testimoniato una lavoratrice, "passavamo il nostro tempo ballando, cantando e facendo festa!".
Gli anni ’80, la dolce vita socialista
“La mia vita era un sogno! Il mio stipendio era l’equivalente di 1000 euro oggi. Andavo a Rijeka, mi compravo un cappotto, scarpe e mi avanzavano soldi per visitare la mia famiglia a Doboj", racconta Dinka. Ankica e Nikola, coppia formatasi in fabbrica, ci hanno invitato a visitare l’alloggio che ricevettero in quanto operai della Plavica. Entusiasti, ci raccontano la loro gioia entrando per la prima volta in questo appartamento luminoso, conforme agli standard socialisti, con una grande terrazza sul mare. Ankica torna dalla camera da letto con un lungo tubino rosa con pettorina ricamata in stile discoteca, che tiene religiosamente nella sua copertura di plastica. "Guarda, indossavamo questo per uscire!", esclama felice.
L’immagine di lavoratori rilassati in punto di andare a ballare fino alla fine della notte al Kimen Hotel, l’unico di Cres, oggi sembra uscita da un libro di fantascienza. I nostri interlocutori conoscono bene le differenze con i tempi presenti, e le segnalano a più riprese. "E oggi, tu, puoi permettertelo?”, continuano a chiedere.
Con i nostri interlocutori a Lussino non abbiamo trovato nessuna foto del Kvarner, il che non è insolito visto il periodo in cui operava il conservificio. Gli operai di Plavica ci hanno mostrato invece con orgoglio le loro foto. Alcune erano conservate nell’album di famiglia, il che testimonia l’importante ruolo svolto dall’azienda nella vita dei suoi lavoratori. La maggior parte delle foto sono state scattate negli anni ’70 e ’80 e raffigurano gruppi di persone, attorno a un tavolo pieno, che brindano allegramente, con il sorriso sui loro volti.
Nel caffè di Cres situato nei locali dell’antico conservificio, e che porta il suo nome, si trova al posto d’onore la famosa fotografia delle operaie durante la loro "pausa sigaretta": a sinistra, una fila di donne si stringe su di una panchina e a destra, due donne si abbracciano, una sorride all’obiettivo mentre l’altra le sussurra qualcosa all’orecchio in confidenza. “Ci divertivamo tutto il tempo!”, ricordano con emozione i nostri interlocutori.
La dolce vita socialista a Cherso è stata il risultato di un complesso sistema di benefici per i lavoratori e di occasioni organizzate di vacanze, turismo, interazioni sociali e celebrazioni: gite e viaggi sindacali, soggiorni turistici individuali finanziati dall’azienda (Ankica e Nikola raccontano di una settimana trascorsa in un hotel in montagna, a Gerovo), balli organizzati a turno dalle fabbriche, feste collettive con banchetto.
Mentre a Lussino parliamo ai singoli lavoratori, a Cres abbiamo l’impressione di parlare ad una comunità unita da vincoli di amicizia e cameratismo, dove si trascendono più facilmente differenze e gerarchie predefinite. Ci viene detto che se necessario, gli uomini aiutavano le donne a tenere il passo, che per il compleanno di ogni lavoratore o lavoratrice, si raccoglievano i soldi per un regalo.
"Eravamo tutti compagni, perché era così la Jugoslavia, non sapevo chi fosse serbo, croato o musulmano", ha detto Dinka. "Chiedevamo ai nuovi di dove venissero, solo per curiosità, non perché fosse importante", ricorda Ankica. "Non ho mai chiesto a nessuno da dove venisse", la interrompe Nikola.
La memoria selettiva può, ovviamente, spiegare alcune delle emozioni degli anziani di Cres ma i loro ricordi non possono essere ridotti a mera nostalgia. I racconti dei lavoratori non descrivono solo uno spazio-tempo ideale, è chiaro che non erano scomparse le differenze gerarchiche, né l’arduità del lavoro: si racconta che le lavoratrici più anziane costringevano le più giovani a fare tutto il lavoro fisico più duro, come scaricare le casse di pesce; le donne istruite disprezzavano le altre; le donne di Cherso rovesciavano vasche sulle nuove arrivate, raccontano le donne bosniache. E quelle di Cres raccontano che le bosniache rubavano loro il posto. Tuttavia, la prosperità e le relazioni di genere più libere del tardo socialismo, le buone condizioni di lavoro, le gite organizzate e l’ideologia della "fratellanza e unità" hanno comunque contribuito ad interazioni costanti tra operaie, operai e gli altri abitanti dell’isola, al superamento delle differenze, al sentimento di comunità e appagamento.
Oltre il possibile
Allora cosa hanno significato queste aziende per le donne e per le isole? Le fabbriche hanno reso possibile la migrazione e hanno avuto un impatto significativo sulla demografia. A differenza di altre isole dell’Adriatico, la chiusura dei conservifici di Cherso e Lussino non ha significato un esodo della popolazione, poiché il turismo ha creato nuovi posti di lavoro.
L’arrivo delle operaie ha avuto un impatto sulla composizione della società isolana: da isolata e culturalmente omogenea, è diventata eterogenea, multiculturale e multietnica. È discutibile se esista oggi sulle isole, dove il mondo continua a essere diviso tra "locali" e "stranieri", una consapevolezza della multietnicità della propria popolazione. Allo stesso tempo, le opportunità di migrazione e occupazione all’industria conserviera hanno fatto sì che le donne potessero fare una scelta, come lasciare il loro villaggio. E se si dice possibilità di scelta si dice emancipazione e indipendenza femminile. Dinka ha scelto di lasciare il suo ambiente patriarcale per godere della sua libertà individuale, Olga ha deciso di non inviare denaro a suo padre alcolizzato.
L’arrivo in una piccola società isolana di donne che vivevano e si guadagnavano da vivere da sole, al di fuori del quadro del patriarcato familiare, ha aperto la questione dei ruoli di genere, e testimonia il lungo processo di negoziazione su ciò che è e ciò che non è possibile e accettabile per una donna. Le operaie dei conservifici erano al limite del socialmente accettabile: donne che facevano un duro lavoro fisico, che avevano un cattivo odore e che potevano disporre del loro tempo e dei loro soldi come volevano.
Possiamo quindi supporre che la loro sola presenza abbia allargato i confini del possibile. Allo stesso modo, il conservificio offriva un mezzo di sussistenza alle "donne problematiche": naturalmente, non divennero membri stimati della comunità, ma non furono nemmeno bandite dalla società e potevano vivere con dignità nonostante la loro scelta socialmente inaccettabile. Infine, le industrie conserviere consentivano la mobilità geografica, e quindi la mobilità sociale.
Al conservificio Plavica di Cherso si poteva vivere bene, ottenere un prestito, risparmiare, costruire. All’industria conserviera Kvarner a Mali Lošinj, ovviamente, nessuno si è arricchito, ma per alcuni la fabbrica è stata un trampolino di lancio, con la possibilità di lasciare il villaggio, magari trasferendosi poi nel settore del turismo, sposare un isolano, ottenere una vita diversa.
Naturalmente, il conservificio non era sinonimo di vita facile, rapida emancipazione e mobilità, e non cancellava tutte le gerarchie sociali, tutt’altro. Ma con il conservificio alcune di queste cose sono diventate possibili, e senza la fabbrica la vita non sarebbe stata la stessa.
Infine, i due resoconti divergenti delle industrie conserviere Kvarner a Mali Lošinj e Plavica a Cres testimoniano il divario che può esistere tra esperienze che si tenderebbe a considerare come parte della stessa storia industriale. I meccanismi sociali e statali e le tradizioni locali hanno plasmato due storie molto diverse. Ciò si riflette anche nella memoria locale del conservificio: le pareti del Café Plavica a Cres sono adornate con foto di lavoratori. L’ultima volta che abbiamo preso una tazza di caffè lì, un giovane, ascoltando la nostra conversazione, ci ha fatto un grande sorriso e con orgoglio ha indicato una donna in una foto in bianco e nero: “Questa è mia madre”.
Nelle memorie degli abitanti di Cherso, il conservificio resta molto vivo, è parte integrante della memoria individuale e collettiva. A differenza di Mali Lošinj, dove la maggior parte dei giovani non sa più nemmeno che un tempo c’era un conservificio, nonostante i tentativi dell’artista Dunja Janković di rivitalizzare il luogo con progetti artistici. Oggi i locali della fabbrica sono abbandonati e l’azienda proprietaria cerca un partner per raderli al suolo e costruire un albergo.
Questo testo è il risultato di un progetto di ricerca sull’industrializzazione della costa adriatica e delle industrie conserviere, condotto congiuntamente da ZRC SAZU a Lubiana e IOS a Regensburg. Un libro dovrebbe essere pubblicato a breve in sloveno e croato con il titolo "Storie in lattina".