Critical Mass Tirana: a due ruote contro il presente
Ogni ultimo venerdì del mese, un fiume di biciclette inonda le arterie intasate della capitale albanese. Sono i ragazzi di Critical Mass: un ritrovo ciclistico internazionale che da qualche anno va in scena anche a Tirana, una città quanto mai bisognosa di una rivoluzione civica a due ruote. Un reportage
È venerdì 27 giugno e io e Mira lo abbiamo giurato: non perderemo anche questo Critical Mass. Il ritrovo è come sempre alle 18.00, di fronte alla "piramida": il fatiscente (e splendido) mausoleo eretto nel 1987 alla memoria del dittatore Enver Hoxha. Privi di un mezzo proprio, arriviamo scandalosamente a piedi: per fortuna a Tirana di rado si comincia puntuali, e abbiamo il tempo di noleggiare una bicicletta EcoVolis nei pressi di "Taiwan".
È con un ciclo Ecovolis, dunque, che io e Mira ci presentiamo finalmente al raduno: orgogliosi della non proprietà del nostro mezzo, sicuri di ben interpretare lo spirito della manifestazione. Purtroppo, la nostra soddisfazione ha i minuti contati: non solo nessun altro riders sembra aver avuto la nostra idea, ma i nostri "bolidi" sono palesemente oggetto dell’ilarità del gruppo. Sto per indispettirmi – giustificazioni puerili non necessarie del tipo "guardate che la mia vera bici è in Italia!" mi attraversano la mente, ma rovistando nei miei ventisette anni di esperienza trovo da qualche parte la lungimiranza per tacere – quando Zhujeta e Edrin, amici ed organizzatori, ci chiariscono la situazione. La perplessità del gruppo deriva dal fatto che EcoVolis è un’attività economica percepita come esterna al movimento Critical Mass. Entrambe le iniziative contribuiscono alla stessa causa – sviluppare la cultura del ciclismo urbano in Albania – ma tra i due gruppi non vi è accordo sui metodi con cui perseguire questo risultato. Tanto è vero, mi spiegano, che anche i ciclisti di EcoVolis si radunano: ma in genere lo fanno separatamente, ogni terzo venerdì del mese. Tobi, un ragazzo svizzero colpito quanto me da un simile frazionismo, mi racconta del successo dello scorso marzo, quando si riuscì a organizzare un unico raduno; ridendo "mi confessa" di avere amici in tutti e due i gruppi, e di partecipare agli eventi di entrambi. Un ragazzo albanese che ha ascoltato la conversazione ironizza sul nostro sconcerto da forestieri: "Da fuori certe cose non si possono capire, fate più attenzione alla nostra bandiera: non è un caso che l’aquila abbia due teste". Vorrei ribattere che due teste sono meglio di una, purché si usino, ma per fortuna il corteo parte, e da allora in avanti non vi sarà più spazio per alcuna discussione teorica (se non, come previsto, con gli automobilisti).
Un corteo… dantesco
Critical Mass nasce a San Francisco nel 1992. Così come ben spiegato sulla sua pagina FB , la versione tiranese importa quel modello di "coincidenza organizzata": in assenza di leader, gerarchie o associazioni, viene semplicemente fissata una data e un luogo di ritrovo. Anche il percorso può subire variazioni, dipende dai ciclisti momentaneamente in testa e dalla voglia di chi sta dietro di seguirli. Il carattere spontaneo del corteo non è però a discapito di alcune regole non scritte condivise da tutti: in primo luogo ci si aspetta, perché nessuno deve rimanere indietro; ma soprattutto si va piano, perché non bisogna farsi male e perché non si tratta di una semplice sgambata in bicicletta: ci si ritrova e si pedala insieme con un esplicito intento dimostrativo. Se la causa è buona e giusta – far capire agli automobilisti che la strada non è di loro proprietà – il metodo scelto è quello del contrappasso dantesco: "Avete visto cosa si prova a rimanere bloccati nell’arroganza altrui?". La massa critica serve esattamente a questo: riuscire là dove una bici isolata rischierebbe di essere asfaltata. In attesa che un giorno le strade albanesi siano davvero di tutti, almeno un pomeriggio al mese, per un paio d’ore, i ciclisti di Tirana si prendono la rivincita che gli spetta.
Il percorso
Dopo qualche pedalata sul boulevard principale, sfociamo in piazza Skënderbeg, la più grande rotonda del paese. La percorriamo due volte, a passo d’uomo. Dietro di me una ragazza minuscola sta spingendo sui pedali di una pesantissima mountain bike nera. Un autobus incombe sulla sua apparente instabilità, sfanalando: l’intrepida non si volta, anzi, dà provocatoriamente una toccata al freno. Mi preoccupo e rallento anch’io, assieme ad altri. Dopo cinque minuti una cosa è chiara: è la coda e non la testa del gruppo a portare il peso della causa.
Terminato il secondo (eterno) giro della piazza, imbocchiamo Rruga Kavajes. La strada è più stretta, e noi sembriamo di più. Un simpatico ragazzo di cui ignoro il nome ma che mi sembra di conoscere da una vita ha montato sul telaio un carretto dotato di amplificatore con cui diffonde nel fresco della sera piacevoli sonorità raggae alternate a del rock d’annata (un mix un po’ freak ma di gusto!). Al secondo semaforo perso le macchine dietro di noi iniziano a innervosirsi. Alcuni, come me, si accostano sulla destra per farle passare; altri, come Zhujeta, resistono sulla sinistra, chiacchierando affiancati nella totale noncuranza dei clacson che impazzano. Complice la nostra momentanea disunione, una mercedes riesce finalmente a superarci con una manovra spericolata; ma prima di sfrecciare verso il suo radioso futuro ci si para davanti e si vendica con un gioco di frizione, lavandoci intenzionalmente con lo smog delle sue innumerevoli marmitte. In tutta risposta, Zhujeta si porta una mano alla bocca e mima il gesto sonoro che (per lo meno nei film western) viene attribuito agli indiani apache: un OUOUOUO si diffonde a macchia d’olio sino alla testa del corteo, seppellendo con un sorriso l’arroganza di quel carro armato comprato a rate – non ho poi fatto in tempo a chiedere se quel grido alludesse all’inciviltà dell’automobilista o simboleggiasse invece la nostra disobbedienza civile, fatto sta che l’ho trovato geniale.
Mancava poco per arrivare a Kavaja, ma qualcuno là davanti opta per una virata a U e il gruppo reagisce, come un banco di pesci. Mentre torniamo verso il centro, un motociclista simpatizza con noi e, complice il suo ego di harleysta, ci segue rombando in nostro favore – alla fine se ne va, ma solo quando avevo perso ogni speranza. Attraversato uno dei ponti sul Lana, ci dirigiamo verso il reticolato del bllok. Qui il traffico sarebbe lento anche senza di noi, e la battaglia si fa meno ardua. Forse siamo anche un po’ di più, perché ad ogni semaforo si recluta qualcuno. Anche dai bar ai lati della strada si levano frequenti applausi di approvazione. Sono incoraggiamenti con un inconfondibile retrogusto di senso di colpa – "meno male che nonostante il caldo qualcuno fa quello che vorrei fare io, se solo non fossi al bar" – ma fanno comunque piacere. Dopo aver girellato allegramente ai piedi della statua del Presidente Wilson, ritorniamo vittoriosi sul boulevard, per la foto di rito, questa volta di fronte alla Galleria Nazionale. Alziamo le bici in aria, mentre già si odono invocazioni alla birra. La prossima tappa sarà certamente Iliria, il bar dello scortesissimo e amatissimo Arian – ma non prima di aver cantato in coro Shumë urimë a Mira, che proprio quel giorno compiva gli anni, e che ci ricambia con il suo rossore.
Una battaglia giusta, per cui stare uniti
I raduni di biciclette sono uno splendido modo di stare insieme: ne esistono di diversa natura, e sono diffusi un po’ ovunque, in Europa e nel mondo. Ma non dappertutto hanno lo stesso valore: in paesi come la Danimarca o l’Olanda, dove esiste un’urban cycling scene molto forte e varia, la dignità del mezzo bici è già ampiamente affermata, si tratta piuttosto di rimarcare un’appartenenza, uno stile di vita – nel peggiore dei casi, come spesso accade in Italia, una moda. Il Critical Mass tiranese, invece, è una vera battaglia impari contro la realtà del presente: una battaglia giusta, che, alla pari dei giovani che la animano, ha dalla sua parte il tempo.
Oggi, in Albania, nulla è più lontano dall’Europa delle sue strade. O meglio, la maggior parte delle strade, soprattutto le arterie principali di recente costruzione, vanno bene – l’immagine dell’Albania come terra vergine solcata da sterrate impervie, più che la realtà descrive la leggenda – ciò che è lontano dalla civiltà è il modo in cui gli automobilisti se ne appropriano: l’indisciplina, l’arroganza e l’incoscienza con cui si guida a Tirana e nella altre città del paese. Un problema che, alla pari di molte altre contraddizioni albanesi, affonda le radici nella caotica transizione degli anni Novanta.
Durante il comunismo, era ovviamente proibito avere una macchina di proprietà; alla caduta del regime, nel 1991, a Tirana si contavano solo 7.000 vetture: assieme ai carretti trainati da cavalli, le biciclette erano il principale mezzo di locomozione delle persone comuni. Entro il 2004, 300.000 macchine – in maggioranza Mercedes-Benz comprate o rubate in Europa – hanno invaso la capitale, la cui popolazione è nel frattempo più che raddoppiata.
Secondo il Guardian , a Tirana si conta oggi una macchina per ogni due persone, e il livello di inquinamento, tre volte superiore alla media europea, abbassa di due anni l’aspettativa di vita locale. Dati inquietanti, inaccettabili per un paese candidato all’Europa, ma che vanno compresi nella loro motivazione sociale: nell’immaginario collettivo degli albanesi, la bicicletta è il mezzo del regime, della povertà, mentre la macchina è il simbolo della libertà e del riscatto – una percezione che si fa realtà nel momento in cui la politica e le amministrazioni locali non sviluppano validi sistemi alternativi di viabilità urbana.
Ecco spiegata la valenza politica che in Albania assume un movimento come Critical Mass, un gruppo spontaneo e a dimensione variabile, ma che spinge per l’unica rivoluzione che alla base di qualsiasi cambiamento reale: quella della mentalità. Ed ecco perché, anche al prossimo Critical Mass, mi presenterò orgogliosamente con una bici EcoVolis. Perché dividendosi tra chi ha ragione, non si ha mai ragione della realtà.