Crisi in Albania, dopo la tempesta
All’indomani dei violenti scontri di piazza del 21 gennaio nelle strade di Tirana regna la paura. In molti temono un nuovo 1997 e un ritorno ad un passato che si pensava ormai scongiurato. Intanto il premier Berisha e Edi Rama, a capo del principale partito d’opposizione, non sembrano intenzionati a negoziare una soluzione alla crisi. Il reportage della nostra inviata
Tirana è silenziosa. Si cerca di continuare a vivere la quotidianità come prima, ma i cittadini nascondono a stento lo shock e la paura per i prossimi giorni. Al calar del sole tutto si svuota e della vita notturna di cui va orgogliosa la capitale, rimangono solo pochi pub, e qualche caffè in cui gruppetti di uomini discutono a bassa voce, con sguardi cupi e teste abbassate.
Si parla solo della manifestazione del 21 gennaio, dei 3 morti, di un ferito che lotta con la morte, di circa 50 feriti tra civili e forze dell’ordine, della lotta politica che negli ultimi giorni è diventata esasperata, e del prossimo futuro, che nessuno riesce a prevedere, ma che tutti si augurano non sia un secondo ’97. Per le strade si incontra poca gente, ma si passa sotto lo sguardo severo dei numerosi poliziotti che ti lasciano un senso di angoscia e ti fanno istintivamente affrettare il passo.
“Sono sconvolto – afferma Eno, studente presso l’Accademia delle arti – ero lì, partecipavo alla manifestazione, sapevo che come era stato detto, sarebbe stata lunga e molto animata, ma mai avrei potuto pensare che sarebbe finita con tale violenza… e tre morti. Non penso che parteciperò più alle prossime. Anche se in questo paese ci sarebbe da uscire in piazza tutti i giorni”. Un giovane si avvicina, mi chiede per quale giornale scrivo e inizia a raccontare la sua esperienza. Ha 23 anni, si chiama Gledi, studia regia presso la scuola di cinema Marubi. “Hanno ferito un mio amico, il proiettile l’ha sfiorato vicino al cuore, è vivo per miracolo. Era andato a manifestare, perché è naturale che dopo tutto quello che è successo un cittadino vada a chiedere in piazza le dimissioni di un governo che non lo rappresenta più. Verso la fine della manifestazione, mentre la maggior parte della gente si era allontanata, hanno sparato, e lui è stato colpito.”
“Vergogna – si irrita una signora cinquantenne – per prendersi il potere, hanno deciso di sacrificare i cittadini. E’ esattamente come nel ’97”. “Sono estremamente scossa – racconta Marsi, giovane giurista – stavamo diventando un paese normale. I miei coetanei, gli albanesi tra i 20 e i 30 anni, si sentono europei. Finalmente ci hanno incluso nella lista bianca Schengen. Prima andavamo in giro per l’Europa, lamentandoci che a Bruxelles non ci conoscono, non sanno che non siamo più quelli degli anni ’90, e e che siamo europei molto più di quanto possano pensare nell’Ue. Ora invece quando incontreremo i nostri coetanei all’estero, ci chiederanno com’è la situazione nel nostro paese. Se c’è ancora la guerra. Se si va in discoteca la sera… E’ terribile”.
La retorica del giorno dopo
Ma non finirà qui. E’ quanto si evince dalle continue conferenze stampa dei politici che appaiono sugli schermi albanesi. Si alterna la martirizzazione delle vittime, da parte di entrambi gli schieramenti politici, alle accuse reciproche. Il leader dell’opposizione Edi Rama, a capo del Partito socialista, afferma che nulla lo fermerà e che è deciso a proseguire fino al raggiungimento del suo obiettivo: mandare a casa il premier Berisha e indire nuove elezioni libere e democratiche. A fare da corollario alla presa di posizione di Rama non sono mancate dichiarazioni meno moderate come quella di Spartak Ngjela, alleato di Edi Rama, che commentando sulla determinazione a proseguire le manifestazioni ha dichiarato che per allontanare Berisha non verranno risparmiati “3, 3000 o 13 mila morti”. Toni decisi anche da parte del premier Sali Berisha: “Rispetteremo la legge e le istituzioni. Se Edi Rama si comporta come un bandito, avrà la risposta che i banditi meritano”.
Sulle violenze il PD di Berisha accusa Rama di aver provocato le forze dell’ordine con una manifestazione violenta. Su entrambi pesa la morte di ben tre persone. La procuratrice generale Ina Rama ha emanato un ordine di arresto per 6 ufficiali delle forze dell’ordine ritenuti responsabili delle tre morti nel corso della manifestazione. La polizia però si è rifiutata di adempiere l’ordine della procura, e la procuratrice si è vista oggetto in un linciaggio pubblico da parte di Sali Berisha e dei rappresentanti del PD, che la accusano di collaborare con Edi Rama nella sua iniziativa golpista. Gli ufficiali della guardia statale riceveranno al contrario una gratificazione pari a uno stipendio mensile, come segno di riconoscenza da parte del premier. Mentre i 17 ufficiali che sono rimasti feriti riceveranno ben quattro stipendi.
La manifestazione com’era stato annunciato non è stata una manifestazione pacifica. I numerosi filmati a disposizione mostrano come i manifestanti trasformano ben presto pali a supporto dei cartelloni di protesta e ombrelli in armi primitive con cui colpiscono i poliziotti, mentre altri incendiano diverse macchine private o di proprietà delle televisioni vicine a Berisha. A loro volta i manifestanti denunciano ingiustificabili reazioni da parte della polizia, con numerose cariche ed irruzioni, anche a danno dei passanti o nei bar vicini al boulevard principale, e maltrattamenti fisici dei partecipanti alla manifestazione. La vicenda è troppo complessa per essere lasciata in mano esclusivamente ai media, e il premier Berisha, ha proposto in parlamento l’istituzione di una commissione parlamentare che si occupi delle indagini sulla vicenda.
Nel frattempo Berisha ha annunciato l’intenzione di organizzare una contromanifestazione pacifica. Edi Rama ha risposto ribadendo la sua determinazione a non mollare, invitando i cittadini a ritornare in piazza venerdì 28 gennaio.
Tirana è tornata sotto i riflettori internazionali, e anche i rappresentanti delle cancellerie occidentali nel paese, ritornano a essere percepiti come autorità indiscutibili che possano risolvere la situazione. “Bisogna chiedere al Dipartimento di Stato Americano, o al Congresso, di intervenire", ha affermato Sabri Godo, uomo politico e storico albanese. “Solo gli internazionali possano risolvere la crisi, come nel ’97”, è l’opinione di molti per strada a Tirana. Ma i rappresentanti internazionali per il momento hanno osservato una posizione neutrale, invitando le parti – per ora senza alcun esito – a mantenere la calma e a negoziare possibili soluzioni.
L’Albania dei cittadini
C’è molta paura tra i cittadini. La violenza del 21 gennaio ha ricordato agli albanesi che la classe politica del paese non è molto cambiata da quella di 13 anni fa, famigerato periodo che con tanta fatica si era riusciti a superare. Tre morti, decine di feriti e il fantasma di una guerra civile, è quanto basta per dissociarsi da tutti i politici sia di destra che di sinistra. Da una parte Berisha, intransigente, con pesanti vicende di corruzione e nepotismo alle spalle, e una grave crisi economica mal gestita; dall’altra Rama, un politico carismatico, ma incoerente, privo di alternative e che per ottenere il potere sembra non esiti ad istigare alla violenza.
Non gode di migliore salute neanche la società civile, per il momento del tutto assente da qualsiasi dibattito politico.
Ma gli albanesi non sono più quegli degli anni ’90, e l’attuale deficit di democrazia attiva, nell’era di internet, si sta cercando di colmarlo attraverso i social network. Sin dal 21 gennaio mentre in piazza si stavano consumando gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, su Facebook sono stati formati diversi gruppi di cittadini contro la violenza. Alcuni di tali gruppi organizzeranno nei prossimi giorni una manifestazione pacifica aperta a tutti gli albanesi, senza distinzione di orientamento politico, che dovrebbe aver luogo attorno alla Piramide (ex mausoleo del dittatore Hoxha), e che consisterà nell’abbracciarsi simbolicamente in piazza, dando un messaggio di pace e tolleranza ai politici intransigenti. “Non vogliamo un altro ’97”, “Io non merito quest’Albania, e tu?” sono alcuni dei gruppi che invitano a firmare una petizione attraverso cui si chiedono le dimissioni sia di Berisha che di Rama, ritenuti da parte dei cittadini parimenti responsabili per la crisi in cui giace il paese, per i 3 morti del 21 gennaio e per quanto potrebbe succedere nei prossimi giorni.