Criminali di Sarajevo

L’arresto di otto bosniaci, accusati di crimini di guerra commessi nei confronti di civili serbi e croati a Sarajevo, e la loro sconcertante difesa da parte del mondo politico della capitale. I casi del campo di concentramento di Silos e della foiba di Kazani, la sconfitta di una Sarajevo senza Valter

20/01/2012, Massimo Moratti -

Criminali-di-Sarajevo

(Foto Patrick Rasenberg, Flickr )

Lo scorso 22 novembre la SIPA, l’FBI bosniaco, ha arrestato otto persone residenti nella municipalità di Hadžići, poco fuori Sarajevo, per crimini di guerra commessi nei confronti di cittadini di etnia serba e croata in una serie di campi di prigionia situati proprio in quella municipalità. Il più noto di quei campi era conosciuto come il Silos, un vecchio magazzino per lo stoccaggio dei cereali. Secondo quanto contenuto nel mandato d’arresto, i crimini commessi all’interno del campo sono da considerarsi crimini di guerra contro la popolazione civile e contro soldati che si erano arresi. Gli otto sono accusati di aver partecipato, durante il periodo 1992-1996, ad un’associazione a delinquere finalizzata a commettere tali crimini.

La storia di Slavko Jovičić

I destinatari di tali provvedimenti non sono personaggi di secondo grado, bensì l’intera presidenza di guerra della municipalità inclusi l’allora sindaco, il capo della polizia, il comandante della nona brigata di montagna dell’Armija e una serie di guardie e persone responsabili della gestione dei centri di detenzione.

I crimini commessi nel campo di Silos sono stati già documentati in passato. Uno degli ex internati, Slavko Jovičić, è ora membro della Camera dei Rappresentanti della Bosnia Erzegovina per il partito SNSD (Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti), e ha spesso puntato il dito contro i ritardi nell’assicurare alla giustizia i responsabili delle presunte atrocità. Nel 1997, Jovičić scrisse addirittura un libro su quanto accaduto nel campo e nel 2001 in un’intervista fece apertamente i nomi delle persone responsabili per le atrocità , tre dei quali sono stati arrestati nel novembre scorso.

Le reazioni del mondo politico

La decisione non è stata priva di conseguenze. L’assemblea del Cantone di Sarajevo, in una seduta speciale, ha adottato una mozione che si pone in diretto conflitto con l’operato degli organi giudiziari. L’assemblea ha condannato l’operato e l’approccio tenuto nell’arrestare gli otto accusati “come se fossero dei criminali che sfuggono alle leggi della Bosnia Erzegovina”. Nella stessa sessione, l’assemblea ha dato pieno sostegno al ministro cantonale per i Veterani nel trovare le risorse per fornire assistenza legale alle persone incriminate dalla Corte, utilizzando il budget del Cantone.

Novo Sarajevo (Foto Patrick Rasenberg, Flickr)

Novo Sarajevo (Foto Patrick Rasenberg, Flickr)

La decisione è stata presa unanimemente da tutti i partiti del Cantone di Sarajevo, la cui maggioranza è composta da SDP (socialdemocratici) e SDA (Partito di Azione Democratica). Solo due consiglieri cantonali di Naša Stranka si sono rifiutati di partecipare al voto e hanno restituito la scheda.

La decisione dell’Assemblea cantonale ricorda le precedenti decisioni dell’Assemblea nazionale della Republika Srpska, che nel 2004 aveva creato un fondo simile, e per certi versi parafrasano le accuse, mutatis mutandis, che Milorad Dodik aveva rivolto verso la stessa Corte quando, nella primavera scorsa, si era lanciato nella sua campagna referendaria contro le istituzioni giudiziarie.

Nulla di nuovo sotto il sole, ma è sconcertante che a distanza di tanti anni un organo di rappresentanza assembleare senta il bisogno di prendere le parti di persone indiziate per crimini di guerra solo perché si trovavano dalla stessa parte durante i combattimenti. I membri stessi dell’Assemblea, una volta interrogati sul perché di tale decisione, non hanno saputo fornire delle spiegazioni ma, come ha dichiarato la presidente dell’assemblea cantonale, Mirijana Malić (SDP), “si era creata un’atmosfera tale che, se avessimo votato contro, saremmo stati dichiarati nemici dello Stato. Non abbiamo potuto far niente, alla fine non abbiamo avuto né un’anima, né una moralità, così siamo diventati vittime di una paranoia in cui la gente pensa che i criminali di guerra siano eroi”.
 

Alla ricerca di Valter

La decisione è stata discussa dai media elettronici. Alcuni blogger, intellettuali e giornalisti bosniaci (tra cui Dino Mustafić, Jasmila Žbanić, Nidžara Ahmetašević, Ozren Kebo e altri) hanno alzato la voce, esprimendo il loro disaccordo e intervenendo con numerosi articoli sulla stampa locale. Nidžara Ahmetašević, in particolare, ha più volte incitato i cittadini di Sarajevo a reagire e protestare apertamente. Nidžara, giornalista investigativa specializzata in crimini di guerra, in due interventi ampiamente ripresi dalla stampa ha detto che non vuole finanziare con le proprie tasse la difesa di criminali di guerra.  Per Nidžara non ci sono “miei” e “loro”, ed “è ora di finirla con questa retorica, la guerra è finita e [….] bisogna confrontarsi col passato”.

Queste reazioni però non hanno sortito effetti, e le voci che si sono levate sono state relativamente poche. In un secondo articolo, Nidžara ha constatato la mancanza di tali reazioni e che la società civile ha fatto ben poco. Nidžara constata amaramente che i cittadini sono passivi e aspettano che qualcuno venga a risolvere i loro problemi. Quel qualcuno è Valter, soprannome di Vladimir Perić, leggendario eroe partigiano della difesa di Sarajevo durante la Seconda guerra mondiale, ma  purtroppo – dice Nidžara – "Valter non esiste" e la gente deve reagire. Nonostante questi interventi pubblici di Nidžara e di altri giornalisti, la maggioranza dei cittadini di Sarajevo è rimasta (ancora una volta) silenziosa.

La foiba di Kazani

Le vicende dell’Assemblea cantonale hanno così offuscato l’azione intrapresa da Svetozar Pudarić, vicepresidente serbo della Federazione della Bosnia Erzegovina ed esponente di spicco dell’SDP che, nel corso di questi mesi, ha intrapreso una campagna volta a commemorare le vittime serbe di Sarajevo e soprattutto i cittadini indifesi, a maggioranza serba, che furono uccisi dalle milizie di Musan Topalović e gettati nella foiba di Kazani sul monte Trebević. Senza se e senza ma, Pudarić ha dichiarato che è tempo di commemorare tali vittime, e sta operando per la posa di una lapide a ricordo del numero, ancora imprecisato, di vittime. Lo stesso Pudarić, però, in un’intervista resa ad un portale bosniaco, ha detto di non trovare problematica la decisione dell’Assemblea cantonale.

Il fallimento di Sarajevo

Insomma, a Sarajevo sembra prevalere l’arroccamento su posizioni populiste, proteggendo i “difensori della città” qualunque siano le accuse che vengono loro mosse. Lo stesso di quanto accaduto in Republika Srpska, in occasione dei vari arresti di presunti criminali di guerra, o in Croazia, con il caso Gotovina. In questo modo, però, nei fatti si fa il gioco di chi vuole relativizzare i crimini di guerra, affermando che i crimini sono stati compiuti da tutte le parti, e che ognuno ha difeso i propri criminali. Viene meno quindi lo spirito di Sarajevo, o forse è questo un segnale che tale spirito è venuto meno già da lungo tempo, come ha scritto il giornalista Ozren Kebo, Sarajevo ha fallito nel suo compito di diventare un fattore d’integrazione per la Bosnia Erzegovina, perché innamorata del proprio autoproclamato senso di giustizia e della convinzione che la propria multiculturalità non venga posta in questione.

In questo contesto è triste constatare che non vi siano segnali di risveglio da parte dei cittadini, che non si veda all’orizzonte una primavera bosniaca.

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