Covid 19 in Georgia: le misure governative e i territori secessionisti

La mappa dell’arrivo del coronavirus in Georgia parla della storia contemporanea del paese, incastonato fra Iran ed Europa, con cui ora condivide il dramma, le scelte e le sfide. Appese invece alla Russia le popolazioni dei territori secessionisti, isolate dal resto del mondo, ma non dalla pandemia

18/03/2020, Marilisa Lorusso -

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L'aeroporto di Kutaisi prima dello scoppio dell'epidemia di Covid 19 (© Uskarp/SHutterstock)

Era il 26 febbraio quando il primo caso di Covid 19 veniva registrato nel paese. Un cinquantenne georgiano rientrava nel paese dall’Iran, via Azerbaijan. Il 28 febbraio il secondo caso: una trentunenne georgiana in rientro dall’Italia, atterrata a Kutaisi. Lo stesso giorno un terzo caso, copia del primo: Iran-Azerbaijan-Georgia. Il primo marzo di nuovo un caso importato dall’Italia.

Insomma, la mappa dell’integrazione sociale ed economica del paese si traccia seguendo gli inconsapevoli e incolpevoli passi di chi da due focolai che a lungo si sono alternati a secondo maggiore dopo la Cina e la Corea, Italia e Iran, è rientrato o ha attraversato la Georgia. L’integrazione regionale e quella verso l’occidente, prima ancora del contatto con il focolaio primario cinese, sono stati i veicoli del virus nel paese.

I casi ora al 16 marzo sono 33, con 64 pazienti in osservazione in ospedale, e più di mille persone in quarantena. Nel frattempo il governo ha rimandato tutti gli eventi, incluse le Discussioni di Ginevra per il conflitto in Georgia, la cui 51esima sessione si sarebbe dovuta tenere a Ginevra dal 31 marzo al 1 aprile .

Da oggi 18 marzo sono inoltre chiusi i confini della Georgia verso tutti i paesi e già dal 16 erano state chiuse le comunicazioni terrestri e aeree con la Russia, ad eccezione dei cargo. Gli unici a potere accedere al territorio georgiano dall’estero sono i cittadini georgiani che il governo si adopererà per far rientrare. Chiuso dal 15 anche l’importante accesso di Sarpi, cordone ombelicale turco-georgiano.

Le misure per il momento prevedono una chiusura di quindici giorni.

Stessa malattia, stesso scenario

Lo scenario è quello che si presenta in tutti i paesi che si trovano a fronteggiare l’emergenza sanitaria: come evitare l’accesso di nuovi casi dall’estero, come ridurre il rischio epidemico a fronte della presenza confermata del virus nel paese, come affrontare sotto il profilo sanitario la crescita esponenziale dei casi.

Come per gli altri paesi si chiudono i confini, e le persone nelle case. Chiusi pub, bar, ristoranti, scuole di ogni ordine e grado, appello a non uscire.

E si fa il bilancio dei mezzi medici a disposizione. Per circa 5 milioni di abitanti 350 letti per terapia intensiva in nove ospedali dichiarati Covid e quindi mobilitati intorno all’emergenza: un ospedale miliare a Gori, 4 a Tbilisi, tre per i distretti sanitari occidentali (Kutaisi, Zugdidi, Batumi), uno nel nord a Sachkhere.

Per il momento non si prevede di ricorrere alla creazione di ospedali da campo. Il contingente medico per gli infettivi consta di 150 dottori/esse, ma la crisi vera è l’assenza del personale infermieristico. La professione è pochissimo retribuita nel paese, fatto che da ormai decenni fa confluire nelle facoltà di medicina tutti coloro che vogliono lavorare nella sanità creando un grande squilibrio fra la disponibilità di medici e di personale infermieristico.

Il costo socio-economico

E poi c’è la questione economica: i costi della messa in sicurezza del paese dalla pandemia, ma anche l’ombra di quello che significherà per la fragile economia georgiana affrontare una ormai in corso contrazione economica mondiale, su cui grava anche un futuro incerto per l’interdipendenza delle economie mondiali, grandi e piccole.

Affette dal Covid in momenti diversi le varie parti del mondo, i vari comparti produttivi, i vari paesi, dovranno gestire fasi pandemiche asincrone che rallenteranno il ritorno alla reintegrazione dei mercati. La Georgia si troverà nello slot Iran-Italia, cioè la seconda ondata di espansione pandemica dopo il focolaio Sino-Coreano, e potrebbe quindi seguirne i ritmi di stabilizzazione e poi – auspicatamene – normalizzazione.

Difficile capire come sarà gestibile il ritorno alla normalità con la Turchia, che dichiara i primi casi in questi giorni.

Il primo nodo, e immediato, da sciogliere per la Georgia è il turismo, e il governo sta già lavorando su misure per sostenere i privati che stanno vedendo sfumare l’ipotesi di introiti per la stagione 2020. Ma in economie integrate nei mercati internazionali, come sono necessariamente oggi quelle globali che costruiscono il proprio benessere sulla fitta rete di importazioni ed esportazioni, tutti i settori sono destinati subire l’impatto della pandemia.

Il governo georgiano si è impegnata a dialogare con tutte le organizzazioni internazionali di cui è membro, a cominciare da quelle finanziarie per trovare una risposta comune a un rischio comune.

E i secessionisti

Se l’impatto del coronavirus è duro in zone dove la sanità è preparata, dove la società dispone dei mezzi per garantirsi una vita domestica sicura, è devastante nelle aree o sulle persone che erano già in difficoltà prima della pandemia. Tra queste le aree secessioniste. Qui la pur limitata libertà di movimento riconquistata dopo la separazione legata al conflitto del 2008, è stata la vittima del virus.

In Ossezia del sud dopo provocazioni, dichiarazioni bellicose, impasse, blocchi,  il 27 gennaio scorso le autorità de facto avevano momentaneamente riaperto l’attraversamento di Odishi per permettere ai pensionati di andare a ritirare la pensione in Georgia, idem per chi aveva bisogno di trattamenti medici di recarsi in Georgia.

300 pensionati e un numero imprecisato di malati avevano potuto beneficiare della riapertura. Per la prima volta dopo 5 mesi i georgiani dell’Ossezia del Sud (il permesso non era esteso agli ossetini e ai russi) avevano potuto riprendere le loro borse per la spesa, i loro documenti personali e attraversare. Apertura durata però solo 10 giorni.

La crisi sanitaria internazionale ha del resto gettato nel baratro i già fragili rapporti con il mondo esterno di tutti i territori secessionisti: il 4 febbraio le autorità dell’Abkhazia hanno chiuso gli attraversamenti di Psou e dell’Inguri, e stilato una lista di nazionalità non più accette: tagichi, uzbeki, kirghisi, coreani e cinesi. Il focolaio era la Cina, ancora, ma il divieto si estendeva anche ai due confinanti Kirghizistan e Tagikistan, e quindi all’Uzbekistan che a sua volta con essi confina.

Il 25 febbraio sono arrivati in Abkhazia dalla Russia i primi 500 kit di analisi. La presidenza de facto, ad interim in attesa di elezioni, ha annunciato la quarantena lungo tutti i confini, non estesa ai cittadini russi, e ha chiesto a tutte le organizzazioni internazionali presenti sul territorio di fornire materiale medico, invitando gli abkhazi a non recarsi all’estero.

Il primo caso di coronavirus riscontrato in Georgia ha provocato anche il ritorno alla piena chiusura della linea amministrativa georgiana-sud ossetina, mentre è rimasto aperto il confine con la Russia, chiamata a gran voce da Tskhinvali a dar mano forte alle strutture sanitarie locali.

Di fatto le due repubbliche secessioniste da fine febbraio non concedono più attraversamenti verso e da il territorio georgiano, ma solo da quello russo, dove pure si registrano casi. Ammessi solo i rientri, con obbligatoria quarantena.

E dove non si possono garantire beni e servizi – che gli attraversamenti con la Georgia garantivano – si affonda.

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