COP21: la Romania respira meglio dalla fine del comunismo

Segnata da mezzo secolo di industrializzazione forzata ai tempi del comunismo, la Romania oggi figura tra i buoni allievi nella lotta al cambiamento climatico. Tra il 1989 e il 2013, Bucarest ha ridotto le emissioni di gas serra del 65%. Una riduzione dovuta più ad un processo di deindustrializzazione che ad una politica ambientale deliberata

11/01/2016, Julia Beurq -

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Copşa Mică, città della contea di Sibiu, avevano se de due complessi industriali altamente inquinanti, che hanno poi smesso di produrre durante gli anni della transizione. La foto è stata scattata nel 1994 (Sludge G/flickr)

(Pubblicata originariamente da Le Courrier des Balkans l’11 dicembre 2015)

La Romania sembra essere sulla buona strada per rispettare gli impegni fissati dall’Unione europea in materia di lotta al cambiamento climatico. Con il protocollo di Kyoto, firmato da Bucarest nel 1997, tutti i paesi dell’UE si erano impegnati a ridurre del 20% le emissioni di gas serra entro il 2020. Se le emissioni sono generalmente in diminuzione in tutta Europa, Bucarest ha registrato i risultati migliori. Tra il 1989 e il 2013, infatti, i gas a effetto serra emessi dalla Romania si sono ridotti del 65%.

Tuttavia, questo cambiamento positivo, che potrebbe far vantare le autorità romene, non è il frutto di una politica deliberata. Come spiega Ionut Apostol, direttore delle campagne di Greenpeace, "in Romania, la riduzione dei gas serra è dovuta a circostanze socio-economiche, non a misure concrete da parte del governo". "A ridosso del 1990, molte fabbriche hanno chiuso i battenti provocando un massiccio declino dell’attività industriale", continua Apostol. E la Romania non fa eccezione alla regola per cui alla diminuzione delle attività economiche corrispondono effetti positivi nella lotta contro il riscaldamento globale. Le cifre lo confermano: la quota di gas serra emessi dal settore industriale romeno è calato del 65% rispetto al 1989.

Il paese vanta un mix energetico molto equilibrato, se comparato agli altri paesi dell’Europa centrale e orientale che sono ancora molto dipendenti dal carbone. Oggi, la capacità potenziale elettrica installata (1), è pari a 21.200 megawatt. Il 43,7% dell’energia elettrica garantita dalla combustione di carbone e di idrocarburi, il 30% dalle centrali idroelettriche, e il 6% dai due reattori della centrale nucleare di Cernavoda (in funzione dal 1996). Le energie rinnovabili (eoliche, solari e biomassa) ne rappresentano infine il 20%. Nei fatti, poiché il consumo di energia è in caduta libera dal 1989, il paese produce molto meno energia rispetto alla sua capacità potenziale, fermandosi a circa 8000 MW/h. Questo lascia un margine di manovra nella scelta delle fonti energetiche da utilizzare.

Il punto importante è l’aumento della quota di energia "pulita" nella produzione elettrica del paese. "Prima dell’ingresso nell’UE, tutta l’energia prodotta in Romania proveniva da fonti fossili inquinanti, da dighe enormi o dal nucleare", spiega Apostol "eravamo molto in ritardo rispetto alle fonti rinnovabili, ma abbiamo velocemente recuperato". La legge del 2008 sulla promozione dell’energia verde ha permesso la messa a punto di un sistema di sovvenzioni. Questo sistema ha funzionato attraverso "certificati verdi" (2) che hanno permesso alle imprese che volevano riconvertirsi di compensare la differenza di costo tra i sistemi di produzione di energia rinnovabile – più costosi – e le tecnologie "classiche". Così, l’energia eolica è cresciuta nelle vaste pianure del Dobrodgea, spazzate da un vento forte e costante. La capacità eolica totale attualmente installata è pari a 2.919 MW.

Le preoccupazioni per il futuro

Se il governo romeno ha certamente compiuto degli sforzi per sviluppare la sua politica energetica, recentemente sembra aver fatto marcia indietro. Nel 2013 ha ridotto il numero di "certificazioni energetiche" sul mercato, riducendo in tal modo il sostegno ai produttori di energia rinnovabile. Questa inversione legislativa ha colpito il mercato e le poche aziende che ancora vogliono investire in questo campo. Inoltre, caso per il momento unico, il gruppo romeno Monsson che produce una grossa parte dell’energia eolica del paese, ha cominciato a smantellare alcune delle sue turbine nel dipartimento di Costanza.

Questi sviluppi preoccupano molto le ONG attive nel campo ambientale, che ritengono che i prossimi anni saranno decisivi. "Siamo in un momento cruciale per la transizione verso un nuovo modello energetico", spiega Apostol, "ma non bisogna allentare gli sforzi poiché abbiamo il potenziale per rimpiazzare tutte le energie fossili senza costi aggiuntivi (Si veda lo studio [R]evoluție Energetică], ndr)". "Oggi le tecnologie sono meno care rispetto agli anni passati e l’energia fossile non è più competitiva. Si tratta solo di volontà politica", continua Apostol. A causa del rimpasto di governo in corso, alcuni funzionari governativi interpellati non hanno voluto rispondere alle richieste di Courrier sulle prospettive future delle energie rinnovabili in Romania.

Centrali a lignite problematiche

Alle incertezze legate all’indirizzo politico, si aggiungono altri due progetti energetici controversi. La Cina sta negoziando la messa in funzione dei reattori 3 e 4 della centrale di Cernavodă, un progetto che vale intorno ai 6,5 miliardi di euro. Stesso scenario rispetto all’apertura di un nuovo impianto a lignite a Olténie. Alcuni esperti mettono in dubbio il progetto: "La Romania ha realmente bisogno di di un’altra centrale basata sullo sfruttamento della lignite?”, domandano i critici. Per l’ONG Bankwatch, la risposta è "no". Secondo l’organizzazione la capacità energetica del paese è largamente sufficiente per soddisfare il suo fabbisogno, mentre lo sfruttamento della lignite pone gravi problemi ambientali e di inquinamento. Alcune di queste centrali termiche non rispettano le norme ambientali. Ad esempio gli impianti di energia termica di Rovinari, Turceni e Romag sono nella lista delle centrali più inquinanti d’Europa.

Gli esperti lamentano l’assenza di strategia per quanto riguarda la conversione di questi complessi energetici. Ma il problema è anche di natura sociale. Perché ad Olténie, l’impianto di lignite impiega ben 15.000 persone. Nessuno è disposto a prendersi la responsabilità di una crisi sociale che sarebbe di dimensioni enormi, come quella che aveva colpito la Valle del Jiu dopo la chiusura delle miniere di carbone. Per il governo romeno queste conversioni non sembrano essere certo una priorità. Secondo il bilancio previsionale del 2016, il ministero dell’Ambiente e quello dell’Energia vedranno la loro dotazione finanziaria sciogliersi come neve al sole. Essi perderanno rispettivamente 1,3 miliardi di lei (circa 291 milioni di euro) e 443,6 miliardi di lei (circa 99 milioni di euro): il 65% e il 56% in meno del budget che avevano a disposizione nel 2015.

 

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) Con questa espressione ci si riferisce alla capacità massima teorica di produzione elettrica del complesso del parco energetico nazionale.

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) Si tratta di titoli che corrispondono al numero di MW prodotti in un’ora da produttori di energia “verde”. In quantità controllata, i certificati verdi sono monetizzabili su un mercato speciale e devono essere acquistati dalle industrie inquinanti.

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