Conoscere le foreste, convivere con il fuoco
Decenni di gestione meramente utilitaristica hanno reso i boschi in Europa più vulnerabili agli incendi estremi. Per affrontare questa minaccia serve un cambio di rotta che metta al centro la loro complessità, affrontando anche il tabù degli incendi controllati

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Incendio boschivo - © Maximilian Pawlikowsky/Shutterstock
Gli incendi estremi – impossibili da contenere, per le dimensioni anomale o per lo sviluppo rapido e imprevedibile – sono in aumento in molte regioni del mondo. La crisi climatica è una delle cause del problema, ma altrettanto conta la gestione, spesso miope e utilitaristica, del patrimonio forestale.
Prima la piantumazione di monocolture e specie aliene, e poi – negli ultimi decenni – il loro abbandono generalizzato che li ha riempiti di materiale facilmente infiammabile, hanno reso i boschi molto meno adattabili ai mutamenti ambientali.
Paradossalmente, la stessa efficienza con cui abbiamo imparato a domare gli incendi più piccoli ha finito per aggravare il rischio di quelli più devastanti. Davanti a questa minaccia serve un cambio radicale di rotta che passa per una comprensione reale delle foreste, fino a sfatare un tabù: imparare – a certe condizioni – a convivere con il fuoco.
Paesaggi poco naturali
Dei 160 milioni di ettari di foreste europee, solo solo il 4% si trova in uno stato quasi naturale. L’88% è il risultato di interventi umani più o meno invasivi protratti per decenni o addirittura secoli, e l’8% di piantagioni ex novo, spesso di alberi di un’unica specie e provenienti da areali lontani.
Tra questi gli abeti rossi, esportati in gran parte dell’Europa centrale dalla Scandinavia e dalle principali catene montuose europee, e gli abeti di Douglas, di origine nordamericana. Ma soprattutto, nell’Europa meridionale e mediterranea, l’eucalipto. Introdotto all’inizio del 1800 da Tasmania e Australia, questa specie – utilizzata soprattutto per la sua cellulosa – copre oggi 1,3 milioni di ettari in Europa, l’80% dei quali nella sola penisola iberica.
Povere di biodiversità, composte di alberi uguali per dimensioni ed età, le foreste con poche specie sono vulnerabili a parassiti, malattie, siccità e tempeste. E anche agli effetti degli incendi.
La composizione naturale delle foreste è infatti il risultato di una lunghissima evoluzione che le ha rese perfettamente adattate alle caratteristiche degli incendi nelle diverse regioni.
Dove il fuoco è frequente, ma non troppo intenso né esteso, prevalgono spesso le specie in grado di colonizzare i terreni andati in fumo grazie ai ai semi trasportati dal vento, mentre dove gli incendi sono più intensi, ma rari, prevalgono "seeders" e “resprouters”.
I primi (che comprendono tra gli altri i pini silvestri, acacie ed eucalipti) riescono a prosperare dopo i roghi grazie ai loro robusti semi, i secondi (molte specie di querce, il pino di Aleppo e arbusti diffusissimi come i cisti) possiedono invece gemme vegetative protette sotto terra.
Le foreste popolate da specie non in equilibrio con gli incendi di una regione (per via dell’azione umana, del clima che cambia o entrambi i fattori) diventano molto vulnerabili al fuoco.
Il database messo a punto da Fire-Res conferma che quasi sempre le zone colpite dagli incendi estremi avevano una diversità nettamente inferiore alle aree circostanti.
Resistenza e resilienza: due concetti complementari
Per gestire al meglio foreste in cui l’impronta dell’uomo è ormai ineludibile, occorre conoscere e saper valorizzare la loro capacità di sopravvivere in buona salute alla “prova del fuoco”.
La resistenza di un bosco è la capacità dei suoi alberi di sopravvivere a un incendio. Dipende principalmente dalla quantità di combustibile (legno più o meno secco, sottobosco e così via) e dalla sua continuità, sia tra una pianta e l’altra che in verticale. Più gli alberi sono ravvicinati, infatti, più facilmente il fuoco si diffonde. Se attecchisce sulle chiome le fiamme si fanno invece più alte e in grado di propagarsi su altri alberi.
Dall’altro lato c’è la resilienza, ovvero la capacità del bosco di tornare in salute e fornire i suoi servizi ecosistemici dopo un rogo. Sono più resilienti le foreste costituite da diverse specie, quelle in buona saluta ecologica (che non si trovino, ad esempio, sotto stress per via della siccità o del proliferare di parassiti).
Entrambi i parametri giocano a favore della prevenzione: più la resistenza è elevata, più difficilmente incendio diventerà estremo. Una volta che ha raggiunto tale comportamento, però, a fare la differenza sarà la resilienza.
Il “mosaico” perfetto non esiste
Non esiste una ricetta unica per rendere le foreste resilienti e resistenti. Fire-Res, per questo, ha messo in rassegna gli studi disponibili ed elaborato un proprio database per scoprire come le caratteristiche delle foreste influiscono sul comportamento degli incendi nei diversi contesti, oltre a condurre incontri (Living labs) con i diversi attori per individuare pratiche virtuose.
Gli incendi estremi, si è osservato, colpiscono più spesso arbusteti e distese erbose, mentre tra i boschi ad alto fusto le conifere sono colpite più delle latifoglie. Con la – notevolissima – eccezione dell’eucalipto, responsabile di alcuni tra i roghi più devastanti, soprattutto in Portogallo.
Sorprendentemente, nel nord Europa, tra gli ambienti più infiammabili spiccano quelli un tempo umidi e le torbiere, sempre più spesso prosciugati da estati calde e secche.
Almeno quanto le specie conta però la distribuzione dei boschi. Se il paesaggio è frammentato in un mosaico di boschi diversi, magari intervallato da superfici agricole e altre discontinuità, gli incendi tendono a essere meno estesi, o comunque meno severi. Questo comporta però anche una frammentazione degli habitat, da valutare con attenzione caso per caso.
Ridurre il combustibile
Le possibili strategie hanno quasi tutte un punto in comune: occorre ridurre la quantità di combustibile presente nei boschi, dal legno morto al sottobosco, tanto per prevenire gli incendi che per renderli meno intensi ed estesi.
Un tempo questo materiale veniva rimosso con una certa frequenza: da un lato le foreste erano gestite più capillarmente, dall’altro erano le stesse persone che le frequentavano a raccogliere la legna o farvi pascolare gli animali.
Oggi la rimozione è un lavoro delicato e costoso, realizzato – quando viene fatto -, perlopiù con mezzi meccanici. Approcci scientificamente avanzati e attentamente contestualizzati possono guidare queste misure, riducendone l’eventuale impatto ecologico, e orientandole allo scopo preciso di rendere più difficile che un incendio diventi estremo.
Un approccio rigoroso alle dinamiche forestali non è in contraddizione con metodi più tradizionali che ottenevano lo stesso effetto, come promuovere le attività silvo-pastorali all’interno dei boschi. In alcune aree sui Pirenei queste pratiche, sostenute da opportuni incentivi, mirano ad accrescere non solo la resilienza ma anche alle comunità rurali.
Il ruolo dimenticato del fuoco
Nell’ultimo secolo gli umani hanno migliorato enormemente la loro capacità di combattere il fuoco, e allo stesso tempo si è affermata una politica di sostanziale “tolleranza zero" verso gli incendi.
È stato così facile dimenticare che, in realtà, il fuoco svolge un ruolo ecologico essenziale per le foreste. Bruciando parte di sottobosco e necromassa (legno morto), rimette in circolazione gli elementi nutrienti e fornisce alle giovani piante lo spazio per prosperare.
Spesso, soprattutto, in una foresta erano proprio gli incendi a operare quella riduzione del combustibile realizzata dall’uomo con tanta difficoltà. Con tutti gli incendi rapidamente soppressi, le foreste si sono caricate di materiale infiammabile come una bomba a orologeria.
Consce del ruolo benefico del fuoco molte popolazioni, dagli aborigeni australiani ai contadini europei fino a pochi decenni fa, non hanno mai esitato ad appiccarlo, a determinate condizioni, per liberare i pascoli e fertilizzare il terreno.
Si tratta senz’altro di pratiche pericolose, soprattutto in boschi che hanno perso molta della propria resilienza, che sono state non solo abbandonate ma criminalizzate. Oggi, però, di fronte agli incendi estremi e incontrollabili, potrebbe essere ora di cambiare idea.
Fuochi prescritti: rompere un tabù
Nella comunità scientifica c’è largo consenso sul fatto che appiccando il “fuoco prescritto” nelle foreste (con attenzione, in zone attentamente pianificate e nelle condizioni meteorologiche adatte) il rischio di incendi gravi cala sensibilmente per parecchi anni, con un impatto ecologico minore rispetto ad altri metodi di rimozione del combustibile.
Convivere con il fuoco significa anche saper applicare l’approccio che gli addetti ai lavori chiamano “let it burn": a volte, spegnere un incendio non troppo intenso, magari in zone remote, può essere controproducente, oneroso e rischioso per i soccorritori. I pompieri stessi, del resto, sanno che opportuni “fuochi tattici" possono togliere combustibile a un incendio pericoloso.
Le sperimentazioni moderne sul fuoco prescritto non mancano (Fire-Res sta costruendo un database per fare il punto sullo stato di queste pratiche) e alcuni progetti di gestione forestale che lo contemplano, come la catalana valle d’Aran e nei Pirenei occidentali francesi, stanno dando risultati incoraggianti.
A livello continentale però convivere con il fuoco è ancora un tabù, soprattutto nel centro-nord del continente, finora meno abituato alla sua ingombrante presenza.
In una società abituata al controllo totale sulla natura, restituire al fuoco il suo ruolo ecologico, oltre che un’arma contro gli incendi estremi, può essere un esercizio di umiltà.
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Questo materiale è pubblicato nel contesto del progetto FIRE-RES cofinanziato dall’Unione europea. L’Ue non è in alcun modo responsabile delle informazioni o dei punti di vista espressi nel quadro del progetto; la responsabilità sui contenuti è unicamente di OBC Transeuropa. Vai alla pagina FIRE-RES
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