Commemorazioni della Volinia, tributo alle vittime o auto-vittimizzazione?

Continua il nostro viaggio alla scoperta delle ferite della storia che ancora attraversano Polonia ed Ucraina, divise dalle memorie divergenti sulle violenze e i massacri in Volinia durante la Seconda guerra mondiale. Seconda puntata del nostro dossier 

 

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Davanti alla cattedrale di Chełm - foto di F. Brusa

(Questo articolo è stato originariamente pubblicato da MicroMega .)

Intravista dalla strada sottostante, la cattedrale di Chełm un po’ domina la città e un po’ si ritrae da essa. Il bianco immacolato della sua facciata e delle sue pareti laterali spicca verso l’alto, ma tutto attorno si erge la cinta muraria di un vecchio monastero appoggiato in cima a una collina.

Nella prima serata di un 11 luglio particolarmente uggioso, lo spazio antistante alla cattedrale sembra una piazza d’armi. Assieme ai fedeli raccolti in preghiera sciamano gruppi di ragazzi e ragazze in divisa che presto si dispongono in file ordinate. Alcuni fra gli avventori reggono, fra il contrito e l’orgoglioso, le biancorosse bandiere polacche, mentre un poco più in disparte una coppia di automobili nere ricordano che per l’occasione è presente anche il presidente eletto della Polonia, Karol Nawrocki.

"Gli ucraini avevano diritto di lottare per il proprio Stato, ma non di uccidere persone innocenti", dice il sacerdote dall’altare. La funzione che sta celebrando ha un significato solo in parte religioso: in Polonia, da alcuni anni, l’11 luglio è il giorno ufficiale in cui si commemorano le vittime dei massacri avvenuti tra la primavera del 1943 e l’estate del 1944 in Volinia, nell’attuale zona dell’oblast’ di Luts’k in Ucraina.

Tra le 50mila e le 200mila persone di origine polacca (ed ebraica) furono uccise dai gruppi nazionalisti ucraini dell’OUN-UPA in una campagna di pulizia etnica condotta in territori che prima della guerra erano sotto il controllo di Varsavia e che in seguito divennero parte dell’Ucraina sovietica. Quella brutale campagna segnò il culmine di relazioni già tese e tutt’altro che idilliache tra le due comunità.

Le tensioni avevano iniziato a manifestarsi violentemente negli anni Venti e Trenta, quando la grande minoranza ucraina – che costituiva circa il 15% dei quasi 30 milioni di abitanti della neonata Seconda Repubblica polacca – fu costretta a subire politiche di assimilazione. Salirono in superficie rivalità e divisioni che si erano sviluppate durante il periodo della dominazione austro-ungarica.

Secondo il censimento del 1931, la città di Chełm era abitata principalmente da ebrei e polacchi, a cui si affiancavano circa cinquemila ucraini (grosso modo un sesto della popolazione). Nella relativa contea (powiat), invece, gli ucraini erano oltre 150mila e costituivano più del 60% della popolazione totale; erano insediati principalmente nelle campagne. La cattedrale di Chełm è, in un certo senso, un simbolo di queste intricate divisioni e processi storici: l’edificio attuale sorge su quello che un tempo era un centro di culto ortodosso, a testimonianza dell’antica presenza ucraina nella zona.

Al calar delle tenebre, le porte della chiesa finalmente si aprono e reparti dell’esercito e delle forze armate escono in gran parata, dando inizio a una processione verso il museo municipale dedicato ai massacri della Volinia. È l’unico museo di questo tipo in Polonia e di fatto non è ancora operativo, benché il progetto sia stato lanciato diversi anni fa: a un certo punto i finanziamenti governativi sono stati ritirati, lasciando le autorità di Chełm nell’impossibilità di completare la struttura.

È in questo luogo che prende la parola il presidente Nawrocki: "I polacchi hanno il diritto di ricordare il genocidio della Volinia a prescindere dal cambiamento dei tempi e delle circostanze. E noi lo ricorderemo". E aggiunge: "Faccio appello al presidente dell’Ucraina affinché acconsenta a portare avanti esumazioni su larga scala in Volinia".

Gli risponde l’ambasciatore ucraino in Polonia Vasyl Zvarich, anch’egli presente alla cerimonia: "Dobbiamo parlare apertamente di questa storia. Dobbiamo riconoscere un crimine in quanto tale. Dobbiamo scusarci, e io mi scuso. Il passato deve essere spiegato in maniera onesta".

Tensioni diplomatiche per una disputa storica

Il fatto che un rappresentante polacco e uno ucraino si trovino insieme a questa commemorazione non è scontato. La questione dei massacri in Volinia, dopo anni di relativo silenzio e marginale attenzione, è recentemente tornata alla ribalta a livello sia nazionale sia internazionale.

All’inizio del 2025 il governo ucraino ha revocato un divieto di fatto che da molto tempo impediva le esumazioni, concedendo alla Polonia il permesso di riprendere l’attività di recupero dei corpi delle vittime dai siti delle fosse comuni. La decisione è stata vista come un atteso passo avanti verso la riconciliazione storica polacco-ucraina.

In Polonia le posizioni nei confronti della questione della Volinia non seguono necessariamente le linee di divisione dello spettro politico: sarebbe semplicistico inquadrarla come uno scontro tra conservatori alla ricerca di giustizia storica a tutti i costi e liberali più propensi alla riconciliazione.

Ad esempio, nel 2024 il ministro della Difesa e vice primo ministro Władysław Kosiniak-Kamysz, leader del Partito popolare polacco (Psl), alleato della Coalizione civica guidata dal centrista europeista Donald Tusk, ha dichiarato che all’Ucraina non dovrebbe essere permesso di entrare nell’Unione europea fino a quando non sarà risolta la questione storica dei massacri dei polacchi in Volinia.

Le sue osservazioni sono state però contraddette  dall’allora presidente polacco Andrzej Duda, membro del partito conservatore Diritto e Giustizia (PiS), che ha dichiarato: «Se qualcuno dice a questo proposito che bloccherà l’accesso dell’Ucraina all’Unione europea, sta seguendo la politica di Vladimir Putin».

Lo storico ucraino Yaroslav Hrytsak, direttore dell’Istituto di studi storici dell’Università nazionale Ivan Franko di Leopoli, osserva che si è verificata un’alternanza tra l’intensificazione e lo smorzamento delle tensioni anche in assenza di cambiamenti politici in Polonia.

"Ho assistito a un forte alterco tra [il presidente ucraino] Zelensky e [il ministro degli Esteri polacco] Radosław Sikorski in Volinia nel settembre dello scorso anno: si stavano letteralmente urlando contro", ricorda Hrytsak. "Ma in seguito entrambe le parti hanno raggiunto un consenso sul fatto che il conflitto deve essere affrontato, e il più presto possibile. Credo che un ruolo cruciale sia stato svolto dal nuovo ministro degli Esteri ucraino, Andrii Sybiha: è un diplomatico molto abile, conosce molto bene la Polonia e comprende la complessità delle relazioni polacco-ucraine".

Le prime esumazioni si sono svolte nell’aprile 2025 nell’ex villaggio polacco di Puzhnyky, ora parte dell’Ucraina occidentale, con la partecipazione di specialisti polacchi e ucraini, oltre che dei parenti delle vittime. Nei giorni successivi i due governi hanno concordato di estendere il lavoro a nuovi siti nella regione ucraina di Lviv e in un villaggio appena oltre il confine con la Polonia.

Questo nuovo processo ha portato al riconoscimento a lungo atteso dalle famiglie delle vittime e ha riportato la memoria della Volinia in primo piano nella diplomazia bilaterale – un’apertura, tuttavia, che è stata presto messa a dura prova dall’incessante insistenza sui massacri durante la campagna elettorale di Karol Nawrocki. Nawrocki, eletto con Diritto e Giustizia e già capo dell’Istituto polacco per la memoria nazionale, ha infatti posto la questione al centro della sua comunicazione politica.

Il gruppo dirigente dell’Istituto per la memoria nazionale ucraino (IUMN) è stato recentemente rimescolato – una mossa che assomiglia a un “gioco di ritorsione” tra le due istituzioni che, come nota lo storico ucraino Georgiy Kasianov, rappresentano “non tanto i due paesi”, quanto i loro settori più nazionalisti, "come le rispettive diaspore".

A sostituire il liberale Anton Drobovych nel ruolo di direttore dell’IUMN è stato infatti lo storico nazionalista Oleksandr Alfyorov, un professore di storia che negli ultimi anni ha anche prestato servizio in prima linea con la Terza Brigata d’Assalto – un’unità delle Forze Armate ucraine comandata da Andrii Biletskyi, il fondatore del noto gruppo paramilitare di estrema destra "Azov".

Ciò ha segnato un’accelerazione della polarizzazione tra i due istituti di memoria, dopo una breve fase di apparente riconciliazione ai massimi livelli tra Donald Tusk e Volodymyr Zelensky.

Nonostante il presidente polacco Andrzej Duda abbia firmato la legge sul “genocidio della Volinia” lo scorso 11 luglio, ha ammesso che il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky è il presidente ucraino con il quale si è trovato più a suo agio nell’affrontare il tema nelle relazioni bilateriali. Nella medesima dichiarazione, Duda ha anche riferito che Zelensky gli avrebbe confessato di non aver mai sentito parlare degli omicidi di polacchi in Volinia in precedenza: “non ce lo hanno insegnato a scuola”, avrebbe affermato il presidente ucraino.

Questa osservazione è stata subito colta dalla propaganda russa , che ha iniziato a far circolare affermazioni  infondate secondo cui l’insegnante di storia di Zelensky era un uomo di estrema destra e devoto ammiratore dell’OUN-UPA.

Domostawa, la "Woodstock dell’estrema destra polacca"

In Polonia, tuttavia, non ci sono solo eventi istituzionali per commemorare i massacri della Volinia. A meno di ventiquattr’ore dalla cerimonia di Chełm, e a meno di cento chilometri di distanza, un’altra “cerimonia” esprimeva infatti un punto di vista molto meno conciliante sulla questione.

Il villaggio di Domostawa è salito agli onori delle cronache l’anno scorso, quando, a differenza di molti altri centri dell’area, si è detto disposto ad accogliere sul proprio territorio un monumento dedicato ai massacri della Volinia, dall’aspetto piuttosto crudo: una gigantesca aquila dal volto arcigno, simbolo della nazione polacca, al cui interno è scavata una croce che a sua volta ospita, senza lasciare spazio alcuno all’immaginazione, un tridente “ucraino” a penetrare il piccolo corpo di un infante.

Il raduno a Domostawa – foto F.Brusa

Arrivano con auto e moto e qualche pullman da tutta la regione, alcuni anche dalla capitale Varsavia o da zone più lontane del paese: la strada che costeggia il pezzo di foresta in cui è stato collocato il monumento si trasforma ai suoi lati in un parcheggio.

A ritrovarsi in questo ben poco sacrale pellegrinaggio sono gruppi e gruppetti, talvolta si sarebbe tentati di dire vere e proprie squadracce, che compongono una sorta di “Babele” delle tendenze dell’estrema destra nazionalista, xenofoba, anti-ucraina e antisemita: Rodacy Kamraci (noto per la sua posizione apertamente filorussa), Wataha Głosu Obywatelskie, Ruch Bronimy Polskiej Granicy e altri gruppi minori.

C’è chi regge cartelloni contro l’Oun-Upa e contro Stepan Bandera, chi in qualche modo declina i propri dissapori verso Kyiv in senso “pseudo-pacifista” (chiedendosi se a breve, per colpa dell’Ucraina, anche i polacchi dovranno entrare in guerra), chi si veste come si vestivano le milizie nazionaliste negli anni Venti e Trenta, chi esibisce i propri figli accanto alle croci celtiche. Spunta anche qualche cappellino di Trump.

"Già due mesi dopo l’inizio dell’invasione russa (quando abbiamo pubblicato uno  dei nostri report sull’argomento) abbiamo notato che l’estrema destra polacca stava sfruttando il massacro in Volinia per scopi politici e propagandistici e per fomentare l’odio contro i rifugiati provenienti dall’Ucraina", commenta Łukasz Jakubowski, membro dell’associazione Never Again, associazione antirazzista polacca fondata nel 1996.

Never Again organizza numerose campagne, tra cui "Musica contro il razzismo" e "Cacciamo il razzismo dagli stadi", monitora i crimini e gli incidenti razzisti e xenofobi, nonché gli atti di discriminazione in Polonia, in una pubblicazione intitolata "Brunatna Księga" (“Il libro marrone”).

"L’obiettivo era, ovviamente, quello di scoraggiare i polacchi dal portare aiuto ai rifugiati al confine tra Polonia e Ucraina e poi, dopo un anno, abbiamo osservato numerosi casi in cui la questione della Volinia è stata usata per diffondere l’odio. Attraverso canali YouTube e post online, l’estrema destra combina teorie cospirative con l’odio anti-ucraino, propaganda direttamente dalla Russia di Putin e desiderio di vendetta per eventi passati. I politici di estrema destra e i circoli a essi collegati sfruttano politicamente questo tema da molti anni".

Secondo Jakubowski, l’evento di Domostawa aveva come oggetto tutto fuorché i massacri della Volinia. Molte le figure influenti della destra polacca presenti: come la storica nazionalista Lucyna Kulińska o il politico di estrema destra e deputato europeo Grzegorz Braun, che hanno strumentalizzato l’evento per promuovere la loro agenda anti-migranti e sovranista.

Il raduno a Domostawa – foto di F.Brusa

Kulińska per esempio ha detto: «Siamo una nazione praticamente in bancarotta (sic ), eppure sosteniamo milioni di persone e diamo soldi agli stranieri. Quante di queste persone hanno nonni che hanno ucciso i nostri figli? Quanti appendono oggi bandiere polacche, senza che i nostri servizi indaghino su questo, quanti vivono qui in Polonia con i documenti delle vittime assassinate? E ci chiediamo perché sono anti-polacchi».

Erano presenti anche molti politici del partito di estrema destra Konfederacja (Confederazione), come Andrzej Zapałowski, Janusz Korwin-Mikke, Włodzimierz Skalik e Roman Fritz, o anche del PiS (Diritto e Giustizia), come Przemysław Czarnek e Dariusz Matecki. Per Jakubowski, quindi, "non sorprende che l’82° anniversario del massacro della Volinia a Domostawa sia stato utilizzato anche per scopi politici. Con il pretesto di commemorare le vittime, molti discorsi sono stati dedicati a suscitare emozioni anti-ucraine e a temi strettamente politici come l’opposizione all’Unione europea".

Eppure, nonostante i potenziali attriti che ribollono sotto la superficie, la modesta folla (circa tremila persone) attirata a Domostawa è in realtà un groviglio di contraddizioni: si sono ritrovati fianco a fianco gruppi che spesso si detestano – dall’ostentatamente filo-russo Kamraci (i cui leader, Wojciech Olszański e Marcin Osadowski, sono attualmente in carcere) a gruppi più mainstream, come il Movimento nazionale, che fa parte della Confederazione.

Pubblicazioni virulentemente antisemite vendute nelle bancarelle si mescolano a bandiere che inneggiano a "Cristo Re" e tra gli ospiti figurano, tra gli altri, Robert Bąkiewicz, il fondatore del Movimento per la difesa dei confini, associato al partito Diritto e Giustizia (e in passato organizzatore delle manifestazioni nazionaliste a Varsavia dell’11 novembre) e l’ex sovrintendente all’istruzione della Małopolska e attuale membro del Consiglio provinciale della Małopolska Ewa Nowak.

L’incontro si svolge sotto il patrocinio onorario del presidente eletto Karol Nawrocki e del vescovo cattolico di Sandomierz. A dettare i ritmi e i toni della commemorazione sono comunque le autorità religiose, che dal palco a lato del monumento recitano messa attorniate da diverse figure in divisa (non forze dell’ordine ufficiali, ma rievocazioni di fazione armate del passato nazionale). Ci sono anche, e ovviamente, persone comuni: magari parenti delle vittime dei massacri, cittadini che, senza doversi per forza affiliare a qualche sigla specifica, si rivedono nell’impianto ideologico della destra, un po’, ma non molti, curiosi.

È però vero che, proprio per via di queste presenze non così visceralmente militanti, l’atmosfera generale è tutto sommato pacifica, quasi da piccolo festival o sagra da paese. Tanto che, oltre lo spazio più specificamente dedicato alle celebrazioni, regna il merchandising, fra bancarelle di cibo e bevande, punti di informazione e di vendita di magliette ispirate al monumento nella foresta di Domostawa, improvvisate esposizioni di libri (titoli di revisionismo storico legato alla destra polacca, testi “anti-woke” e pamphlet esplicitamente antisemiti).

Il villaggio, composto da un’unica lunga strada che taglia in due le villette a schiera, è praticamente deserto: giusto un signore sulla cinquantina, visibilmente alticcio, si trascina verso il negozio di alimentari. Gli altri, probabilmente, accorsi a dare uno sguardo alla stramba “Woodstock dell’alt-right” che si svolge poco più in là, in cui forse più che ricordare il dolore lasciato da un massacro si fa esercizio di risentimento, si cova un odio ambiguo che rischia di riversarsi nel presente.

Il villaggio di Domostawa – foto di F. Brusa

L’assenza degli ucraini e di altre voci nella memoria nazionale polacca

Ma se vogliamo guardare alla storia e commemorare le vittime della tragedia della Volinia, è impossibile farlo senza tenere conto della presenza ucraina in Polonia prima della Seconda guerra mondiale. Nella Seconda Repubblica polacca (1918-1939), gli ucraini costituivano la più grande minoranza nazionale. Secondo varie stime, tra i 4,4 e i 5 milioni di persone si identificavano come ucraini o ruteni, pari a circa il 15% della popolazione, superando così gli ebrei, i bielorussi e i tedeschi, tra gli altri.

Secondo il censimento del 1931, i principali insediamenti ucraini in Polonia all’epoca erano le province di Volinia e Stanisławów (entrambe con il 68% della popolazione), Tarnopol (45% della popolazione) e Leopoli (33% della popolazione), ossia regioni che oggi si trovano interamente o prevalentemente entro i confini dello Stato ucraino indipendente.

Tuttavia, la mappa della presenza ucraina nella Seconda Repubblica polacca non si esaurisce qui: persone che si identificano come ucraini vivevano in gruppi compatti anche nelle aree delle attuali province di Lublino, Podkarpackie e Podlaskie.

La presenza ucraina non si esauriva nemmeno a Przemyśl, Lubaczów, Hrubieszów, Tomaszów Lubelski, Zamość o Chełm. Le persone che parlavano ucraino (o, come molti ancora dicevano, ruteno), professavano il cattolicesimo greco o il cristianesimo ortodosso e si identificavano in misura maggiore o minore con il gruppo etnico ucraino che si poteva trovare anche nelle zone più occidentali della regione di Lublino.

Nel villaggio di Otrocz (comune di Chrzanów, distretto di Janów), su 940 abitanti, ben 613 dichiaravano di essere membri della Chiesa ortodossa, 343 dei quali si consideravano ruteni (ucraini). La fine di questa comunità avvenne con le deportazioni del dopoguerra a Lutsk e Volodymyr (allora parte dell’Urss) e la graduale polonizzazione delle poche famiglie rimaste.

Una comunità così numerosa era molto diversificata sotto quasi tutti i punti di vista. In termini di religione, gli ucraini che vivevano nelle province di Lviv, Tarnopol e Stanisławów erano per lo più seguaci della Chiesa greco-cattolica (o, come era ufficialmente chiamata, la Chiesa greco-cattolica rutena nella Seconda Repubblica polacca), mentre quelli in Volinia e a Chełm erano prevalentemente ortodossi, ma c’erano anche ucraini cattolici romani, membri di varie comunità protestanti o testimoni di Geova.

Gli ucraini erano anche politicamente divisi: i partiti ucraini esprimevano tendenze nazionaliste, liberali, socialiste e comuniste. Tra i gruppi principali, vale la pena di citare l’Unione nazionale democratica ucraina, il Partito socialista-radicale ucraino, il Partito comunista dell’Ucraina occidentale e l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini, che si posizionavano in modi diversi rispetto allo Stato polacco e alle aspirazioni all’indipendenza della loro nazione.

All’inizio della Seconda Repubblica polacca, in Galizia orientale furono fatti vari tentativi per incoraggiare la popolazione ucraina a sostenere il nuovo Stato, come ad esempio la proposta di legge del 1922 (che alla fine non fu approvata) che concedeva un’ampia autonomia alla Piccola Polonia orientale, prevedendo la creazione di governi locali bilingue e l’istituzione di un’università in lingua ucraina.

Tuttavia, con il rafforzamento internazionale della posizione della Polonia (con il riconoscimento dei suoi confini), crebbe il fervore nazionalista e aumentarono i tentativi di limitare i diritti delle minoranze nazionali (comprese le più numerose). Le autorità polacche negarono la partecipazione all’apparato statale all’intellighenzia ucraina e imposero restrizioni alla portata dell’istruzione ucraina (il numero di scuole ucraine scese da circa tremila dopo la Prima guerra mondiale a circa 400 alla fine degli anni Trenta).

La più grande ondata organizzata di repressione si registrò poco prima della fine della Seconda Repubblica polacca, nel 1938, quando le nuove autorità, attingendo ideologicamente sia alla tradizione della sanacja sia alla democrazia nazionale (fino ad allora considerate due nemiche principali), iniziarono la cosiddetta polonizzazione.

L’obiettivo era quello di "limitare l’influenza del cristianesimo ortodosso", considerato una religione straniera in Polonia. Di conseguenza, furono demolite tra le 91 e le 127 chiese ortodosse e molti templi furono profanati o i loro arredi distrutti.

La campagna comprendeva la repressione contro i sacerdoti ortodossi e i tentativi di convertire con la forza gli ucraini (e i bielorussi) al cattolicesimo romano. La stampa polacca scrisse ampiamente della "minaccia ucraina" nelle chiese del nord e dell’est della provincia di Lublino e, nell’ambito del presunto ritorno alla polacchità e alle tradizioni cattoliche in queste terre, furono organizzate conversioni di massa sotto la supervisione dell’esercito. A tutt’oggi (nonostante i tentativi del 2008), la Polonia non ha condannato ufficialmente queste azioni.

Anche gli ucraini furono attaccati dalla clandestinità polacca durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Ciò è stato in parte spiegato come una vendetta per la Volinia o come una forma di difesa contro le unità ultranazionaliste ucraine, che esistevano anche in aree all’interno degli attuali confini della Polonia.

È il caso del villaggio di Sahryń, situato nella regione di Zamość (oggi comune di Werbkowice, contea di Hrubieszów, provincia di Lublino). Unità dell’Esercito interno e dei Battaglioni contadini uccisero i residenti ucraini dei villaggi di Sahryń, Szychowice, Modryń, Turkowice, Łasków e Miętkie (le stime variano notevolmente: da 150-300 persone, secondo l’Istituto polacco per la memoria nazionale, a oltre 600-1.240 uccisi, secondo alcuni storici ucraini).

Wierzchowiny – Foto di F. Brusa

Nel villaggio di Wierzchowiny (oggi comune di Krasnystaw, contea di Krasnystaw, provincia di Lublino), il 6 giugno 1945, un’unità delle Forze armate nazionali polacche uccise oltre 190 residenti civili del villaggio.

Anche in questo caso si è cercato di sfruttare il ricordo ancora vivo dei massacri in Volinia: una grossa fetta dei soldati responsabili delle uccisioni avevano in precedenza servito nella 27esima Divisione “Volinia” e hanno addotto, come giustificazione dei loro attacchi nei confronti della componente ucraina del villaggio, a prescindere dalle simpatie politiche di questi ultimi, proprio i massacri di polacchi da parte dei nazionalisti ucraini in Volinia. Ma data la natura di Wierzchowiny, abitato principalmente da comunisti ucraini (e da una minoranza di Testimoni di Geova), è difficile prendere sul serio questi argomenti.

Sahryń, una tomba alla fine del villaggio

Sarebbe difficile trovare tracce della presenza ucraina tra le due guerre in Polonia, soprattutto se parliamo delle vittime della contro-violenza polacca che seguì al massacro dei nazionalisti ucraini in Volinia. A Wierzchowiny, per esempio, non c’è nulla che ricordi il massacro della popolazione ucraina. Situato nella contea di Krasnystaw, il villaggio si trova nella provincia di Lublino, nella Polonia orientale, e il valico di frontiera più vicino dista circa 40 chilometri.

Sahryń, cimitero ortodosso – Foto di F. Brusa

Attraversando la regione di Zamość, è possibile arrivare però a Sahryń, un villaggio dominato dagli ucraini sia prima della guerra sia durante la Seconda guerra mondiale. Qui si trova infatti un monumento commemorativo di questi eventi, inaugurato nel 2008 (dieci anni dopo, l’allora presidente ucraino Petro Poroshenko partecipò addirittura alle celebrazioni).

Ma se digitate "cimitero di Sahryń" sul vostro gps, probabilmente sarete indirizzati verso un nuovo cimitero (cattolico romano), che non ha alcun legame con la storia del massacro e che è staccato dal villaggio, circondato da campi e vicino a un piccolo bosco.

La domenica mattina, due adolescenti stanno pulendo una delle tombe. Sanno che da qualche parte c’è un altro "vecchio cimitero", anche se non conoscono molto della sua storia ucraina, ortodossa e prima ancora greco-cattolica, sebbene elementi (post)cristiani orientali possono essere scorti nei luoghi più inaspettati nel paese.

Ad esempio la parrocchia cattolica romana locale ha dei patroni piuttosto insoliti per la Polonia, come San Cirillo e Metodio (dopotutto, si tratta di una ex chiesa ortodossa e prima ancora di una chiesa greco-cattolica).

Una strada sporca alla periferia di Sahryń nasconde dunque il luogo in cui si trova l’unico monumento alle vittime ucraine della clandestinità polacca. "Nasconde" non è un’esagerazione: il cimitero è difficile da vedere perché circondato da enormi alberi. E quando si varca il cancello, il paesaggio è ancora più surreale. Il monumento si nota subito, c’è anche un mazzo di fiori con i colori nazionali ucraini (è difficile dire se dell’Unione regionale degli ucraini in Polonia o del consolato ucraino a Lublino), ma l’ambiente circostante è molto diverso dalle foto della cerimonia a cui ha partecipato il capo di Stato ucraino.