Cinema, che passione
Dall’era Milosevic alle prime co-produzioni internazionali. L’industria cinematografica in Serbia secondo Srdan Kolievic, sceneggiatore, docente e regista. Una pubblicazione del dossier ”Storie di cinema”
Quando è entrato nel mondo del cinema, e come si è sviluppata la sua carriera?
Oggi sono sceneggiatore, regista e docente, ma ho cominciato nel 1992-1993, quando mi sono laureato in scenografia. Come tesi di laurea ho girato il film Kaži zasto me ostavi ("Dimmi perché mi hai lasciato") insieme al mio amico Olek Novković, con scenografia mia e regia sua. Il film è stato prodotto dalla "Cinema Design" di Ljubiša Samardzić, la prima casa di produzione privata, quindi per noi è stata una grande fortuna avere questa possibilità subito alla fine degli studi. Insomma, ho avuto l’opportunità di fare un ottimo inizio.
La mia carriera è cominciata nel periodo di Milošević, quando l’orrore della vita quotidiana rendeva il cinema un’esigenza creativa irrinunciabile, per una sorta di escapismo. Il regime non aveva alcun interesse per il cinema, che è stato un vantaggio dal punto di vista della libertà, ma anche una disgrazia dal punto di vista dei finanziamenti. Nella desolazione della vita quotidiana, il cinema dava la possibilità di raccontare una storia, una verità, delle emozioni. Noi lo facevamo con entusiasmo…e per onorari simbolici. Nel clima di isolamento culturale del paese, i festival internazionali costituivano una grande fonte di soddisfazione, incoraggiamento e riconoscimento. Non solo per i professionisti del settore, ma per il paese stesso, dato che i film contribuivano a sfatare, almeno in parte, le rappresentazioni stereotipate fornite dai media internazionali in tempo di guerra. La produzione non era numericamente rilevante, ma ogni anno, su una decina di film prodotti, due o tre ottenevano riconoscimenti a livello internazionale. E il pubblico li amava, perché erano film locali che mostravano una realtà vicina alla sua. Perché se un film non mostra questo, non trova mille persone che trovano i soldi per andare a vederlo.
Dopo il 2000, la vita è migliorata e si è fatta più stabile. Al contempo, la società si è fatta più diversificata e complessa, questo si è riflesso anche nel cinema.
Da un lato, la mentalità si è fatta più materialista, e l’interesse nei confronti del cinema è calato, portando alla drammatica diminuzione del numero delle sale che tutti conosciamo. Per quanto riguardi i fondi e la distribuzione, i canali sono pochi e burocraticamente complessi, il che può condurre a forme di corruzione o di ricerca di fondi tramite contatti politici. Però ci sono anche stati nuovi elementi positivi. Per esempio, l’apertura verso l’esterno del paese ha consentito la realizzazione delle prime co-produzioni, anche fra i paesi dell’ex- Jugoslavia. Il Ministero della Cultura ha indetto il primo concorso istituzionale che ha promossi finanziamenti per 6 progetti. Questo rappresenta una buona base per un futuro progresso. Inoltre abbiamo la possibilità di ottenere fondi a livello privato dall’estero, ad esempio da Francia e Germania.
Per quanto mi riguarda non mi posso lamentare, perché a questa fase appartiene il mio primo film da regista, nel 2004 (Sivi kamion crvene boje, "Un camion grigio di colore rosso"), che ha ottenuto un certo successo e svariati premi nei festival internazionali.
Che significato ha avuto il cinema serbo fino al 1990? Qual era la sua importanza per il regime e per la società?
Fino al 1990 ero molto piccolo, posso parlare solo indirettamente, per l’esperienza di chi mi ha preceduto e trasmesso le proprie conoscenze. In quel periodo il cinema aveva una rilevanza culturale ampia, e chi vi lavorava cercava la sensazione di fare qualcosa che avesse un significato, un senso, e non erano molte le cose che l’avevano. La produzione all’epoca era quantitativamente ristretta. Dal 2000 la produzione è aumentata, ma non la qualità, che sarebbe la cosa fondamentale. I film che raggiungono solo il pubblico locale non hanno una grande rilevanza, e i film che raccolgono consensi nei festival internazionali finiscono per essere ignorati dal pubblico locale. Diciamo che solo un paio di film l’anno soddisfano certi standard qualitativi, e non hanno grandi risultati a livello di distribuzione.
Dove ci si formava una volta? E dove ci si forma oggi?
Il centro principale è sempre stato l’Accademia di Arti Drammatiche, dove anch’io mi sono laureato ed insegno. La selezione avveniva su criteri meritocratici e il concorso di ammissione era gratuito. L’Accademia è sempre stata tacitamente anti-regime, anche se nei contenuti non c’era alcuna impostazione ideologica.
Nel periodo di Milošević si sono aggiunte due accademie private (dove però la selezione avviene su criteri di censo piuttosto che di talento), ma quella statale continua a raccogliere i migliori docenti, delle autentiche autorità in quanto professionisti del settore che possono trasmettere le proprie conoscenze agli studenti (ad esempio Gordan Mihić). Non ci sono docenti che non lavorino attivamente nel settore, anche perché gli stipendi sono talmente bassi che insegnare è una missione più che un mestiere. I soldi sono davvero pochi, e il materiale inadeguato (del resto, non è una scuola di formazione prettamente tecnica).
Nonostante questo, molti nostri alunni riescono ad inserirsi con successo nella professione, anche in diversi paesi stranieri.
Che rapporto c’è fra il cinema balcanico ed il pubblico internazionale?
Il cinema balcanico sta attraversando un momento di grande popolarità, come a volte accade con certe cinematografie che diventano di moda per un certo periodo. Al cinema serbo, ad esempio, era già successo negli anni ’60.
Come se lo spiega?
I festival amano avere film "esotici" in programma, quindi le cinematografie locali vengono incentivate attraverso le co-produzioni, che rappresentano l’unica chance di entrare nel circuito del cinema europeo, dato lo scarso sostegno statale.
L’Europa è molto attiva in questo senso, c’è grande apertura verso progetti balcanici, ed i fondi europei sono fondamentali per il nostro sviluppo. Il supporto di buona percentuale dei progetti viene dall’Europa. L’America, suo diretto concorrente, non è il nostro punto di riferimento: ci riconosciamo maggiormente nella filosofia europea, per cui il film è un prodotto culturale e non solo commerciale.
Come vede il futuro del cinema serbo, e il suo futuro personale?
Credo che il cinema serbo manterrà la sua rilevanza, limitata quantitativamente ma significativa qualitativamente. Per quanto mi riguarda, vorrei contribuire a far conoscere il cinema serbo in Europa, attraverso i meccanismi di co-produzione che hanno già aiutato ad aprire molti canali di comunicazione.