Christopher King, collezionista di musica
Recupera 78 giri e li ripropone. Ha valorizzato come pochi altri negli Stati uniti la musica di autori balcanici del passato. Un incontro con Christopher King
Dici White Stripes e la prima cosa che viene in mente è "Seven Nation Army " con cui la band ha conquistato il mondo; e dalla quale gli italiani hanno tratto l’"inno" per la vittoria ai Mondiali del 2006. Ma dietro alla creatività del duo garage di Detroit si cela anche una realtà discografica che ha tenuto a battesimo band e artisti di prim’ordine come The Shins o The Raconteurs. Si tratta della Third Man Records creata da Jack White nel 2001, nella città natia, poi trasferitesi a Nashville, in Tennessee.
Sul suo cammino è inciampata anche una figura amata dagli appassionati di musica tradizionale americana: Christopher King. Produttore, archivista (potremmo anche dire antropologo) e grande appassionato di musica folk, raccoglie da quando era ragazzo 78 giri e dopo un bella "ripulitura" li rigira sul mercato formato cd. Sono così nati per esempio Aimer Et Perdre, To Love & To Lose e Murder Ballads and Disaster Songs 1913-1938, dischi che hanno influenzato artisti del calibro di Nick Cave, Tom Waits e Johnny Cash. "Ho sempre amato quest’attività, grazie alla passione per la musica tradizionale di mio padre", dice King.
Ma parrebbe che dal folk e dal blues americani alla tradizione greca il passo non sia così lungo. "Fu per via di mia moglie che desiderò portarmi a vedere un concerto di Leonard Cohen, a Istanbul", dice King. "Nell’attesa visitai dei vecchi negozi di dischi. Un ragazzo mi vendette dei 78 giri di cui non sapevo nulla. A casa però rimasi folgorato. Era una musica meravigliosa: quella di canti albanesi registrati molti decenni fa". Christopher King possiede oggi un’inestimabile collezione di 78 giri provenienti dall’Europa dell’est, chicche che probabilmente senza il suo contributo nessuno avrebbe più modo di ascoltare: "Ho, per esempio, una bella collezione di canzoni polacche risalenti a prima dei conflitti mondiali, polke di grande prestigio! E almeno duemila dischi di musica tradizionale albanese".
Era una musica meravigliosa:
quella di canti albanesi
registrati molti decenni fa
King ha compiuto numerosissimi viaggi nei Balcani e quello che ha prodotto ha un valore culturale e sociale ragguardevole: "Prima del mio lavoro, la musica diffusa in America relativa ad artisti stranieri che operarono quasi cento anni fa, non esisteva quasi; per avere un’idea di ciò che accadeva in Grecia o in Albania a livello musicale, c’erano solo pochi tomi universitari e qualche semidistrutto 78 giri nascosto in chissà quale mercato delle pulci. Oggi finalmente tutto ciò è a disposizione del grande pubblico".
Dall’Epiro alla Florida
Dischi come Don’t Trust Your Neighbors: Early Albanian Traditional Song & Improvisations, 1920s-1930s; Five Days Married & Other Laments: Song and Dance from Northern Greece, 1928-1958 ; Alexis Zoumbas: A Lament for Epirus 1926-1928; tutti usciti per la statunitense Angry Mom Records. Dato non da poco. Le cover portano la firma di Robert Crumb, fumettista e musicista americano, svezzato negli anni Sessanta a suon di lsd ed East Village Other (sua è, per esempio, la nota copertina di Janis Joplin, Cheap Thrills). E’ così che i prodotti di King, oltre al valore musicale, comprendono quello grafico, trattandosi di cd molto curati, con disegni che da soli varrebbero una fortuna. L’incontro con Jack White è stato fondamentale; e ha permesso una distribuzione dei 78 giri rimasterizzati da King molto più capillare. La stampa ufficiale per la prima volta ha parlato del lavoro dell’archivista americano. Los Angeles Times, New York Times, e una miriade di fanzine, siti di informazione etnomusicale, blog.
Per ciò che riguarda l’universo balcanico, lo zampino di White compare ufficialmente con Why The Mountains Are Black. Un capolavoro. "Anche in questo caso non è stato facile lavorare sui 78 giri", spiega King. "I miracoli, d’altra parte, non si possono fare. Sono letteralmente registrazioni dell’anteguerra!". Impossibile eliminare certi fruscii, ma rispetto alle opere originali è tutto un altro mondo. Di che canzoni si tratta? Di brani provenienti dall’Epiro; storica zona dell’Europa meridionale, comprendente angoli selvaggi di Grecia e Albania. I musicisti che hanno inciso Why The Mountains Are Black lasciarono la Grecia per raggiungere gli Stati Uniti in cerca di fortuna: "Con essi portarono le loro canzoni e le loro tradizioni", dice King. "Si stabilirono in Florida, a Tarpon Springs, ancora oggi la città americana con il più alto numero di discendenti greci". Qui incontrano Steve Zembellas, appassionato di musica che li scrittura, per quanto il termine possa ritenersi
valido per musicisti folk degli anni Trenta. Li fa registrare e oggi grazie al suo intuito possiamo beneficiare di questo capitale artistico e umano.
Il blues ellenico
"Anche se con la guerra molto materiale è sparito per sempre. Certo, senza Zembellas sarebbe stato peggio», precisa King. L’ascolto di dischi simili, all’inizio, fa storcere il naso. L’audio non potrà mai essere perfetto, e alle orecchie degli occidentali alcuni suoni e melodie risultano stridenti. Ma non è così. Occorre solo un po’ di ginnastica, parafrasando Vladimir Visotzky, indimenticato cantore della Russia della Cortina di ferro. Poi si entra nel mood della Grecia pre-war ed è una valanga di sensazioni che trascendono lo spazio e il tempo. I Balcani furoreggiano. Ma anche la cultura gipsy. La verità, però, è un’altra e lascia basiti: "Stiamo infatti ascoltando quelle che potrebbero essere le più antiche musiche mai composte in Europa", afferma il produttore statunitense.
King spende ogni anno un po’ di tempo in Grecia, d’estate soprattutto. E ogni volta che la visita rimane incantato da tradizioni che resistono alle mode e alle operazioni di marketing. Ma, come si è già ricordato, è proprio dall’isolamento cronico di queste montagne che è possibile scovare semi etnologici rimasti intatti: "Ancora oggi, infatti, possiamo ascoltare vari stili musicali", dice King. "All’inizio possono sembrare tutti uguali; ma con un po’ di allenamento, le differenze balzano subito all’orecchio".
E ci sono curiose analogie con altri generi. King è, per esempio, convinto che sussistano legami con il blues (ma forse anche con l’hillbilly, e senz’altro il rebetiko). E getta subito carne al fuoco: Alexis Zoumbas, Lament for Epirus, Blind Willie Johnson’s, Dark Was the Night. Il primo si trasferì giovanissimo a New York, con il suo violino; e nei solchi di un vinile impresse le sue malinconie e nostalgie per l’Epiro. Lo fece fra il 1926 e il 1928. La Grande Mela stava diventando il centro del mondo. Il secondo, è la storia di un dramma esistenziale, coronato dal talento. Perde la mamma a quattro anni, si fabbrica da solo una chitarra con una scatola di sigari, e poco dopo la matrigna lo rende cieco distillandogli acido in volto. Col bottleneck non lo batte nessuno. Ma muore di malaria ad appena 48 anni. E la sua Dark Was the Night diviene la canzone simbolo della Grande Depressione. Secondo King ci sono vicinanze fra questi contesti musicali, entrambi maturati da un sentimento comune, entrambi aritmici e pentatonici.
Sirtaki? No, grazie
La nuova pubblicazione di King, Why The Mountains Are Black , arriva dopo una serie di interessanti promesse andate a buon fine, sempre relative al paradigma balcanico. Il disco racconta un modo di percepire la musica diverso da quello con il quale siamo soliti rapportarci. E’ infatti musica intesa come elemento fondamentale della vita, non si tratta di un semplice intrattenimento. "E’ un valore naturale, imprescindibile, come accendere il fuoco per scaldarsi o cucinare", spiega King. "La musica di oggi è, dunque, un pallido esempio di quel che fu in passato". Dipende dal pressapochismo con cui ci si avvicina al mondo delle sette note; e dallo scarso interesse che suscita nel nostro immaginario.
La filosofia italica ne è un classico esempio: se c’è musica va bene, se non c’è pazienza. All’epoca, invece, la musica era inevitabile. E probabilmente lo è ancora oggi in molti paesi balcanici, dove il potere del pentagramma va oltre il mero consumismo. La dimostrazione della nostra superficialità può essere analizzata proprio in rapporto all’ultima collezione di King. Se infatti dovessimo chiedere in giro un aneddoto sulla musica greca, all’unanimità sentiremmo rispondere di sirtaki, Zorba il greco, della musica evocata da film come Questo grosso, grasso, matrimonio greco. Niente di tutto ciò. La vera musica ellenica parte proprio da dove finiscono questi stereotipi costumali. Il riferimento si chiamano, dunque, skaros, le canzoni dei pastori; miroloi, lament song; tis tavlas, drinking song. E in aiuto può venirci perfino un bellissimo disco uscito in Italia nel 1976 – Musica popolare della Grecia del Nord – Epiro – a cura di Wolf Dietrich; lo stesso che nel 1994 ha diffuso la preziosa perla Folk Music of Turkey, dopo essersi aggirato per mesi, fra il 1968 e il 1976, fra gli sperduti villaggi rurali dell’Anatolia a registrare le voci degli ultimi cantastorie.
Le canzoni contenute nel disco Why The Mountains Are Black parafrasano tutto questo; e rimandano ad apologie dimenticate, come quelle successive all’avvento del cristianesimo. Di fatto in questo angolo della Grecia, molte celebrazioni religiose sono figlie di riti pagani che venivano osservati al suono di musiche peculiari. Occorre scivolare indietro nel tempo, non di centinaia, ma di migliaia di anni. Il contributo degli antropologi Richard ed Eva Blum furono fondamentali a fare luce su questa condizione etnografica e sociale. E spiegarono come la musica dei tempi fosse necessaria per sopravvivere; per tenere lontani gli spiriti tremebondi, per scongiurare fatture, pericoli, per augurare felici matrimoni e discendenze. Trovarono certezze visitando fra gli anni Sessanta e Settanta centri sperduti abitati dagli sarakatsani; un’etnia greca dedita al nomadismo, con i loro animali, e riti molto più antichi della venuta di Cristo. Rovinò tutto Ionnis Metaxas, quando li obbligò ad abbandonare le loro tradizioni e a diventare sedentari. Qui è stato possibile rileggere la vera storia della musica greca, che oggi abbiamo la fortuna di rivalorizzare con il lavoro di rimasterizzazione di King. E ci porta a identificare quelli che furono i primi vagiti della musica in Grecia, e dunque in Europa.
Il flauto magico
Si può immaginare che a un certo punto divenne necessario comandare con efficacia le mandrie al pascolo; c’era la voce, i fischi con le dita, ma c’erano anche dei legnetti che opportunamente lavorati erano in grado di emettere dei suoni molto più potenti. Così nacquero i primi flauti. Furono di certo fra i primi strumenti musicali a essere inventati. Lo dice anche l’archeologia. Il flauto di Divje Babe deriva dalla lavorazione del femore di un orso delle caverne; fu rinvenuto nei pressi di Circhina, in Slovenia, negli anni Novanta. Si dice che risalga a 50mila anni fa e che l’autore fosse l’Uomo di Neanderthal. Con flauti del tipo fu tutto più facile: le pecore capivano al volo dove andare a bere o a ripararsi da un temporale. Poi qualcuno, magari in una grotta, deve aver provato ad ammazzare il tempo cercando di dare un senso alla successione di suoni prodotti per interloquire con il mondo animale; o cercato di addormentare con un’ancestrale ninnananna un piccolo. Potrebbe essere accaduto a Klithi, insediamento cavernicolo del Quaternario, nei pressi del villaggio di Kleidonia.
Il tipico flauto greco è il foghera. Che avrebbe legami stretti con l’aulos, la cui invenzione è attribuita alla dea Atena. Il flauto greco si può ascoltare molto bene nella quinta traccia del secondo cd della raccolta di King. Si intitola "Golfo", ed è stata composta presumibilmente nei primi del Novecento a Helmou, nel Peloponneso. Il flauto emette suoni bucolici e malinconici, e accompagna egregiamente il testo cantato da una donna della quale si è perso il nome: racconta di un giovane pastore orfano al soldo di un capo fin troppo severo, che non potrà mai conquistare l’amore della vita perché poverissimo.
Poi le cose cambiano rapidamente. L’uomo cresce. Arriva l’agricoltura. Si dipingono le pareti delle grotte e si abbozza la scrittura. C’è una particolare osservanza per i riti funebri. E la musica a questo punto è ormai parte ineluttabile della società. Forse i primi canti sono in realtà dei lamenti. Strascichi di respiri. Invocazioni. Forse sono per prime le donne a crederci, per ricordare i propri cari. I versi si snodano su scale primitive e presto è tempo di evocare eroi e villaggi ormai divenuti centri urbani abitati da migliaia di persone. Con la polis si creano le prime strutture sociali. Nascono le prime scuole di musica, mentre Roma è alle porte. La Grecia non è più il centro del mondo, ma la sua musica sì. E’ il frutto del lavoro di gente come Pausinias, geografo e viaggiatore greco vissuto 150 prima di Cristo che, nel suo Description of Greece, dà una idea forte di quel che si sta trasmettendo da secoli influenzando ogni cultura. I romani sono potenti e destabilizzano gli indigeni. Ma la musica greca resiste e si mescola ai canti della chiesa ortodossa. Helios, il dio del sole, diviene Sant’Elia e il compleanno della dea Atena si trasforma nel giorno in cui festeggiare l’Assunzione della Vergine Maria. Nasce l’Impero bizantino che richiama intellettuali, religiosi e musicisti da ogni parte dell’Europa. Il cuore dell’intellighenzia del tempo si trasferisce a Costantinopoli, che diviene culla del sincretismo greco-anatolico.
L’incontro/scontro con la musica araba
Con l’epopea dell’Impero ottomano compare il maqam, descritto per la prima volta nei trattati del quattordicesimo secolo dallo sceicco Al-Safadi e da Al-Maraghi di Abdulqadir, musicista del Quattrocento. E’ in pratica una scala musicale che raramente coincide con il canto greco e occidentale. Ma l’impatto è inevitabile e irreversibile. Ecco perché ancora oggi ascoltando un brano ellenico si percepiscono inequivocabili accenti mediorientali. Altresì in Grecia si parla di tarab, parola normalmente riferita alla musica tradizionale diffusa a Damasco, Il Cairo, Beirut.
I musicologi definiscono khamah un timbro vocale o strumentale in grado di rapire come in un’estasi. Un grande rappresentante del genere fu Mohammed Abdel Wahab, che nel 1950 compone l’inno del Regno di Libia. C’è il qaflah, performance di canto in cui si lascia grande spazio all’improvvisazione. Secondo Kristina Nelson, musicologa e grande esperta del mondo arabo, autrice di Qur’anic chanting in Egypt, è una tecnica fondamentale per un buon cantante. Con il termine saltanah si intende, invece, una modalità per raggiungere lo stato mistico, spirituale. Deriva dalla parola sultan, sultano, riferita al concetto di dominio e potere dall’alto. Infine c’è il sama; un rituale che include canti, musiche, danze, recitazioni, poesie, preghiere. Per dire l’importanza che riveste ancora oggi basti pensare che nel 2008 l’Unesco ha confermato la Mevlevi Sama Ceremony della Turchia (legata al sufismo: ne abbiamo parlato) come uno dei Masterpieces of the Oral Intangible Heritage of Humanity (Patrimoni orali e Immateriali dell’umanità).
La musica greca subisce per 470 anni l’influenza di queste nuove realtà pentagrammate che cambiano radicalmente l’espressione originaria. Anche gli strumenti non sono più gli stessi. Se prima dominavano le cornamuse, le zourna (strumenti a fiato), la lira, la lavta (simile al liuto); ora, a farla da padrone, anche grazie ai rom che a ondate successive si riversano in Grecia, sono il violino e il clarinetto. Dal 1832 la Grecia diviene una nazione indipendente. Ma la sua musica – se si esclude l’avvento del rebetiko con la fine del Primo conflitto mondiale – non subirà più sconvolgimenti epocali. Oggi abbiamo la possibilità di assaporarne l’essenza: con Why The Mountains Are Black.