C’era una volta la scandalosa Marina
Un racconto fatto di carne e tante ossa. E’ quello dell’artista Marina Abramović che a Milano, all’Hangar Bicocca, ha inaugurato lo scorso 19 gennaio Balkan Epic, un ciclo di video installazioni. Scrive Giulia Mirandola
L’Hangar Bicocca-spazio d’arte contemporanea è un ex capannone industriale di 15.000 metri quadri sulla strada che da Milano porta a Cinisello, dentro al complesso di quelli che furono gli stabilimenti Ansaldo. Accanto all’ennesimo village dei consumi, non distante dal nuovissimo polo universitario e dal Teatro degli Arcimboldi, l’Hangar è diventato da un anno circa un’area progettuale espositiva e produttiva dedicata all’arte contemporanea e casa dei Sette palazzi celesti del tedesco Anselm Kiefer. Accanto alle sette torri, monumentali, irraggiungibili, implacabilmente tragiche, è in corso ora Balkan Epic (dal 20 gennaio al 23 aprile 2006), un ciclo di video installazioni, reperti del corpo e soprattutto della memoria, di una protagonista della body e video art: Marina Abramović. La mostra, ideata da Art for The World, a cura di Adelina von Fürstenberg, raccoglie lavori che vanno dal 1997 al 2003, fino al più recente Balkan Erotic Epic realizzato a Belgrado nel 2005, che presta in forma contratta il titolo a mostra e catalogo (Skira, Ginevra-Milano 2006, € 29, 00).
Marina Abramović, diva di se stessa, dea del proprio mito, è bellona e ingombrante. È nel suo furore di corpo che si sprigiona questo racconto balcanico, fatto di tanta carne e tante ossa; la cronaca o romanzo familiare si alterna ai temi della saga, magici, ancestrali e affatto scandalosi, in un divertito quanto sofferto gioco delle parti a cui la Abramović si predispone fisicamente. Diventa difficile isolare il carattere balcanico di un ciclo che si concentra piuttosto sull’uomo come essere bestiale e primordiale che, ora fatalmente, ora eroicamente, si trova immesso nel corso della Storia. Così avviene per la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, allusa con tanto di spiegazione scientifica, metodo e risultato nella Storia del Ratto-Lupo raccontata da una dottoressa sospetta in Balkan Baroque, proiettata in dimensioni naturali tra due primi piani dei genitori della Abramović – entrambi partigiani nella guerra di liberazione (1941-1945) e iscritti al partito comunista -, inseriti in quella cattedrale di morte o montagna sacra di ossa bovine che, rosse e maleodoranti, si presentarono nel 1997 alla XLVII Biennale di Venezia: di quel rito e sacrificio, in cui l’artista spazzolava con fatica i pezzi uno ad uno, cercando di pulire ogni traccia di sangue e accompagnandosi per ore con canti popolari e d’infanzia, resiste qui una citazione proiettata su un piccolo schermo, posto in mezzo a una catasta di ossa bianche e due lavandini e una vasca di rame, penalizzati, nell’installazione dell’Hangar, da un buio davvero pesto che quasi non le fa notare.
Il secondo omaggio familiare è datato 2001, The Hero, dedicato al padre, sintesi romantica e fiera, dell’incontro tra i due genitori della performer: la madre cade ferita e il padre la porta in salvo in groppa al suo cavallo bianco, lui come vero eroe, lei come vera principessa, sequenza di novel cavalleresco in piena seconda guerra mondiale; mentre qui, la figlia è sola, in groppa al bianco destriero, immobile come un bronzo equestre, amazzone nera, per una volta vestita, che reggendo bandiera bianca intona l’inno jugoslavo.
Dopo il 1975, anno in cui l’artista serba lascia Belgrado, i ritorni in patria sono rari e si concentrano tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila, sempre finalizzati al compimento di progetti performativi. Nel 2003 Marina Abramović è impegnata in Count on Us, sviluppando un motivo presente fin dagli esordi, quello della stella a cinque punte della bandiera jugoslava. La ragazza distesa che, nel 1974, sviene per mancanza di ossigeno giacendo all’interno di una stella lignea in fiamme è solo un ricordo. Oggi la Abramović gioca alla morte in altro modo, impalcando un concerto di ringraziamento all’ONU per le promesse non mantenute, affidando l’esecuzione dell’inno delle Nazioni Unite al coro della scuola "Nazioni Unite" di Belgrado (proprio così!), sotto il piglio maestro di uno scheletro che, guarda a caso, è lei stessa. Macabra beffa delle parti, lo scheletro non abbandona il palco e torna disteso sopra il corpo nudo della Abramović in Nude with Skeleton (2003): talamo d’amore o letto di morte? L’atto che si consuma tra questa carne e queste ossa, il contrasto tra due nudi impossibili (chi dei due lo è o lo è di più?), fanno pensare a una natura morta contemporanea, fitta, se si vuole, di allusioni mitologiche e letterarie, oppure, semplicemente, messinscena del piacere di morte insito in ogni conflitto, perdita di senso, puro godimento.
Il trionfo del corpo scocca sotto la pioggia battente. Balkan Erotic Epic è un’opera doppia costituita da un’installazione video multischermo e da un film di dodici minuti prodotto dalla società cinematografica Destricted, che qui non vediamo perché tuttora in fase di lavorazione. Sul prato si scatenano donne di ogni età, fradice, forzute o secche, quasi troppo belle per essere vere popolane. Tornano in mente le parole che introducono il video, in cui si afferma che la Abramović si è rifatta ad antichi manoscritti e alla tradizione popolare, racconti leggendari in cui gli organi sessuali maschili e femminili servono per scacciare malattie, sfortuna e malanni di ogni specie. Meno potente il tappeto di piccoli uomini supini che, concentratissimi, eiaculano dentro buchi di terra, forza della natura!, o la schiera di maschi in costume nazionale con pene in erezione, come se anch’esso facesse parte, con il vestiario, del corpo serbo doc, esibito davanti al ritratto solenne di Olivera Katarina che invoca perdono per i peccati di guerra.
"Per far innamorare un uomo, la donna prendeva un pesciolino, lo inseriva nella vagina e ve lo lasciava per una notte. Il mattino dopo lo estraeva, lo faceva seccare e poi lo macinava riducendolo in polvere. Si credeva che mescolando un pizzico di questa polvere nel caffè dell’amato, questi non l’avrebbe lasciata mai più". Si torna più creduloni ad inseguire le mosse di queste femmine bagnate, le vagine volanti, le ripetute offerte di tetta: lì, un pesciolino dev’esserci.
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