C’era una volta …

Un mercato in stile ottomano, una çarshija, proprio nel cuore di Tirana, di cui oggi rimangono solo vaghi ricordi. Architettura, rapporti sociali e memoria in quest’intervista all’antropologa Armanda Kodra

14/09/2010, Marjola Rukaj - Tirana

C-era-una-volta

Armanda Kodra è un’antropologa albanese, si occupa principalmente di antropologia culturale comparata nei Balcani. Ha approfondito in particolar modo il tema delle çarshije * , le politiche sulle identità nazionali e religiose, la memoria sociale e la storia orale. Attualmente lavora come antropologa presso l’Istituto di antropologia culturale di Tirana e insegna Antropologia balcanica presso l’università pubblica di Tirana. Collabora con diverse riviste accademiche e culturali in Albania e all’estero, tra cui Perpjekja di Fatos Lubonja.  

In quale parte della città si trovava la çarshija di Tirana?

Si trovava più o meno nel centro della città dove ora si trova il Palazzo della Cultura, e nel giardino che si trova dietro ad esso. Si trovava lì da quando Tirana è stata fondata. Probabilmente è stata la costruzione della çarshija che ha fatto di Tirana una città. Nelle vicinanze c’era una volta la moschea di Sulejman Pasha, che è stata rasa al suolo per poi costruirvi dei bagni pubblici, e questo intenzionalmente. La moschea era stata gravemente danneggiata dai bombardamenti e i comunisti l’hanno abbandonata a se stessa. La pietra delle fondamenta della moschea viene oggi considerata come la pietra di fondazione della città. Si dice infatti che Tirana sia stata fondata nel 1614. Evlija Celebija, un viaggiatore ottomano, che deve aver visitato la città circa 30 anni dopo la sua fondazione, descrive la çarshija come uno spazio molto grande, e nonostante egli sia noto per la sua tendenza ad ingrandire ciò che osservava, ci lascia pensare che si trattava di uno spazio che aveva acquisito enorme importanza per la città.

Oggi però, della çarshija di Tirana non rimane praticamente nulla…

Le çarshije delle grandi città albanesi sono state abbattute dal regime di Hoxha. Non è rimasto praticamente nulla per esempio delle çarshije di Berat, di Kavaja, di Elbasan. Non è stata sempre una distruzione deliberata. Inizialmente si è partiti scoraggiando la proprietà privata e l’iniziativa privata. Negli anni ’50 sono state poi fondate le aziende artigianali pubbliche, quasi tutte le città principali ne avevano una. Il loro scopo principale era produrre oggetti di artigianato considerati per lo più come souvenir. Ciò ha fatto sì che le çarshije perdessero la loro importanza. La demolizione dei negozi e la ridefinizione dell’architettura delle città avviene poi in un secondo momento.

Perché sono stati demoliti questi quartieri storici delle città?  

La giustificazione era che nella città socialista non c’era posto per tali strutture ottomane. Si voleva liberare la città dai segni del passato. Ma in alcuni casi le ragioni sono state più organiche e le çarshije hanno perso la loro importanza in maniera più naturale. In seguito per via di tale orientamento anti-ottomano il regime non è intervenuto nella conservazione di esse nonostante fossero luoghi di interesse culturale e storico nell’ambiente urbano. A Scutari ad esempio è avvenuto uno spostamento graduale verso nord del centro urbano. La çarshija si trovava sotto la fortezza, area divenuta sempre più marginale. Era sempre più scomodo raggiungerla. In questo caso è naturale che la çarshija morisse perché non più funzionale.

Armanda Kodra – foto di Marjola Rukaj

Se volessimo immaginare la çarshija di Tirana, come la descriverebbe?  

Le çarshije di norma non sono diverse tra di loro dal punto di vista architettonico. La forma dipende dal rilievo della città dove vengono costruite. Nei primi tempi venivano costruite di legno ed erano perciò molto esposte agli incendi. Venivano purtroppo ricostruite di nuovo sempre di legno. Solo tardivamente si inizia a costruire con strutture più stabili. Le çarshije sono delle reti di vie e viuzze in cui si trovano negozi e botteghe di vari artigiani. E’ esclusivamente un quartiere economico, dove non vi si abita, ma vi ci si reca solo per acquistare, lavorare e socializzare. Si trovano artigiani di tutte le sorte. Le piazzette, abbastanza ampie, formate dall’incontro tra più viuzze erano adibite a luogo di vendita delle merci prodotte e vendute dai contadini. Di solito erano le contadine che raccoglievano i prodotti di tutte le donne di un villaggio e li vendevano nella çarshija. Ma la cosa più importante delle çarshije è che erano dei veri e propri centri in cui la gente socializzava. Non fungevano da punto di incontro solo per i cittadini ma anche per gli abitanti delle località minori intorno alla città. La gente si incontrava nella çarshija per concludere affari, per stringere amicizie e matrimoni. Era un tipico luogo pubblico. E’ da lì infatti che nasce la cultura dei caffè, che è tuttora molto viva nei Balcani, e nello spazio ex ottomano in genere. Tuttora i caffè sono importantissimi per i balcanici non come luogo di ozio, come spesso appaiono agli stranieri ma perché hanno in realtà la valenza di un luogo pubblico cruciale per la vita sociale della gente, sono luogo di incontro, e di scontro, si può dire che tutta la vita scorre nei caffè.

Erano dei luoghi di commercio completamente autosufficienti?  

No, avevano naturalmente ottimi rapporti con le città portuali attraverso cui riuscivano a mantenere rapporti vivi con Venezia in particolar modo. Nella çarshija si trovavano dei grossisti che fornivano merci provenienti da Venezia. Tra i commercianti della çarshija c’era anche chi aveva una nave, che usava per gli scambi trans-adriatici. Fino alla nascita dello stato-nazione, quindi fino al XIX secolo nei Balcani non esisteva il concetto di confine e vi era di conseguenza anche un continuo scambio all’interno della regione. La çarshija era un luogo di incontro anche delle varie etnie e delle varie lingue. Era un luogo multietnico per eccellenza. Ma ciò non ostacolava affatto la comunicazione, e la mutua intesa. Addirittura spesso i commercianti, o gli artigiani della çarshija inventavano delle lingue segrete per non farsi capire dagli esterni al gruppo. Si trattava di un misto di lingue balcaniche che seguivano criteri ben definiti, come ad esempio il lessico albanese, e la grammatica del serbo-croato, il tutto combinato in tal modo che nessun madrelingua di nessuna delle lingue riuscisse a capire. E’ un fenomeno estremamente interessante che supera le barriere etniche e linguistiche.

Come ha fatto a raccogliere del materiale su una parte della città che non esiste più?

Esiste tuttora memoria viva a proposito, nonostante vada scemando di anno in anno. E’ molto difficile riuscire a raccogliere del materiale, poiché l’unico modo è attraverso interviste, parlando con la gente. Solo chi oggi ha più di 60 anni riesce ad avere qualche vago ricordo. Però ciò che ricorre per lo più nelle interviste sono dettagli di poco conto della quotidianità. Molti si vantano del fatto che le loro famiglie avevano dei negozi nella çarshija per dimostrare soprattutto che appartengono a famiglie autoctone di Tirana, e non sono venuti dalle periferie del Paese, rifacendosi agli stereotipi che sempre più dividono i vecchi e i nuovi abitanti della capitale venuti da ogni dove in particolar modo negli ultimi anni. Inoltre una difficoltà che devo affrontare puntualmente è la riservatezza degli albanesi in genere. Se uno prova a chiedere dettagli su qualcosa la gente si chiude, smette di parlare, diffida. A mio avviso si tratta della solita sindrome da Sigurimi (Servizi segreti dell’epoca del regime, ndr) che è tuttora presente presso gli albanesi. Pensano che in realtà io stia facendo qualche censimento, e che poi saranno chiamati in causa a rendere conto per chissà quale presunta nefandezza a sfondo politico.

* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione ‘bchs’ (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull’Albania, l’ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.

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