Cecenia, il velo che soffoca

Le violenze contro le donne che non portano il velo nella Cecenia di Kadyrov. Secondo la denuncia di una nota attivista russa per i diritti umani, gli aggressori godono dell’appoggio delle autorità

19/10/2010, Tanya Lokshina -

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Ramzan Kadyrov (Foto nika2, Flickr)

Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 27 settembre 2010 su OpenDemocracy.net  con il titolo Chechnya: choked by headscarves

“Nemmeno negli anni novanta, al tempo della repubblica cecena di Ichkeria, le cose andavano così male. Alla fine, allora non portavo il velo, e anche se a volte i tutori della pubblica morale si scagliavano contro di te, almeno tenevano le mani a posto. Potevi dire loro ‘Cosa c’entri tu? Ho un padre e dei fratelli, quindi chi sei tu per darmi ordini?’. Non volevano problemi, quindi lasciavano stare. Ma adesso non sai dove nasconderti. Hanno potere, hanno forza e sono dappertutto”.

La graziosa giovane donna, bella gonna dal taglio diritto e maglia soffice dai colori chiari, gesticola impotente. “È così umiliante, ma non c’è alternativa: devi portare il velo. Se vieni aggredita, il che non è improbabile, i tuoi fratelli non potranno lasciar perdere. Dovranno reagire e vendicarsi dei tuoi aggressori, che li uccideranno. Quindi ti vesti secondo le loro regole, non tanto perché temi per te stessa, ma per proteggere la tua famiglia”.

A giugno, a Madina e a una sua amica spararono con una pistola a vernice. All’inizio pensarono che si trattasse di una pistola vera, forse perfino un mitragliatore. Stavano camminando per la via principale di Grozny, parlando e ridendo. All’improvviso, un’auto senza targa si fermò accanto a loro. Il finestrino si abbassò e comparve la canna della pistola. Tutto d’un tratto, il mondo si restrinse alla misura di quella canna e fu risucchiato in un buco nero. Madina udì lo sparo, sentì un forte colpo al petto e si appoggiò al muro di una casa. Nonostante fosse sicura di morire, per qualche motivo non perdeva conoscenza e la macchia che si allargava sulla sua maglia non era rossa, ma blu. Anche il muro era blu. La gonna della sua amica, paralizzata dal t[]e, era macchiata di verde. Madina intravide una faccia grassoccia che sogghignava dal finestrino. L’uomo rideva e le puntava contro la pistola. Lei poteva vedere un braccio muscoloso e l’uniforme nera dei “kadyrovcy”, i mercenari del presidente, e pensava che la sua risata le avrebbe fatto scoppiare i timpani.

Il dolore Madina lo sentì più tardi, anche se inizialmente era solo un intenso bruciore. La sua amica recuperò consapevolezza per prima, prese Madina per mano e la trascinò nel negozio più vicino. La commessa, schioccando la lingua inorridita, cercò di rimuovere le macchie con fazzoletti di carta inumiditi. Massaggiò i lividi che cominciavano a diffondersi, raccomandò di mettervi del ghiaccio una volta a casa e chiamò un taxi per le ragazze. Fu mentre vi salivano che videro gli schizzi di vernice rossa, verde e blu sul marciapiede e sui muri. Poi si resero conto che non erano state gli unici bersagli. Sulla strada giacevano alcuni volantini gialli. Madina ne raccolse uno, e solo allora si resero conto di che cosa era accaduto veramente e perché. Le lettere nere danzavano di fronte ai suoi occhi:

Care Sorelle!

Vogliamo ricordarvi che, in conformità alle regole e alle usanze islamiche, ogni donna cecena è OBBLIGATA A PORTARE IL VELO.

Non vi disgusta sentire gli indecenti “complimenti” e le proposte che vi vengono rivolte perché vestite in modo così provocatorio e non vi coprite il capo? PENSATECI!!!

Oggi vi abbiamo spruzzato di vernice, ma questo è solo un AVVERTIMENTO!!! NON COSTRINGETECI A RICORRERE A MISURE PIÙ PERSUASIVE!!!

Il giorno dopo, Madina indossò il velo. Non vedeva alternative. Ad ogni incrocio, ad ogni angolo, sempre più spaventata, le sembrava di vedere uomini vestiti di nero, pronti a far valere la legge e la morale. Per le due settimane successive, quegli uomini continuarono a girare in auto per la città, pattugliando le vie del centro. Le donne non uscivano più a capo scoperto, soprattutto visto che il presidente Kadyrov sostiene esplicitamente i tentativi di inculcare modestia alle donne, arrivando a dire in televisione che, se avesse trovato gli uomini che avevano spruzzato le ragazze di vernice, li avrebbe ringraziati.

A metà estate, la situazione sembrava essersi calmata. Vero, circolavano voci che le donne non sposate avrebbero perso il lavoro e sarebbero state buttate fuori dall’università, ma fino ad allora nessuna era stata licenziata, quindi forse erano solo voci. Le ragazze avevano cominciato a riapparire nel centro della città in maniche corte e a capo scoperto. Non si andava a scuola, in ufficio o all’università senza velo, ma a quanto pareva ce la si poteva cavare a capo scoperto se si camminava semplicemente per strada.

A metà agosto iniziò il Ramadan e la strada centrale era piena di uomini. Stavolta non si trattava di uomini dei servizi segreti ma in costume islamico, appartenenti al Centro di educazione morale e spirituale affiliato all’Alto consiglio islamico della Cecenia. Distribuivano alle donne opuscoli colorati, dove si spiegava com’è appropriato vestirsi per le donne musulmane e quale aspetto e comportamento deve mantenere una donna cecena. Queste erano le istruzioni degli autori: “Cara sorella in Islam! Oggi la Cecenia vuole mantenere la decenza e la moralità. Il tuo vestito, cara sorella, dovrebbe riflettere la tua purezza e la tua moralità, ma soprattutto la tua fede. I tuoi vestiti e la tua moralità preservano il tuo onore, quello dei tuoi genitori e quello dei tuoi parenti!”

I volantini incitavano anche gli uomini a controllare l’aspetto delle loro donne: “Purtroppo bisogna ammettere che le strade ci offrono uno spettacolo terribile. Non stiamo accusando le donne. La colpa principale è degli uomini. Una donna non perde la testa se non lo fa suo marito. Uomini, abbiamo bisogno del vostro aiuto. Di tutto quello che vediamo, la cosa peggiore è il modo in cui si vestono alcune donne. Ma è ancora più terribile che gli uomini permettano alle loro sorelle, mogli e figlie di vestirsi così, senza vedere che è sbagliato”.

I fanatici della moralità giravano in gruppo, circondando le donne che avevano osato uscire senza velo o con una gonna giudicata troppo corta. Le rimproveravano gridando che il loro comportamento era indecente e pretendendo a gran voce che si vergognassero e “rivestissero” immediatamente.

Yakhita non capiva veramente cosa stava succedendo. Aveva vissuto a Mosca per lungo tempo, tornando a Grozny solo durante le vacanze per vedere la sua famiglia. Naturalmente aveva notato la prevalenza del velo: le donne che leggevano le notizie al telegiornale, le insegnanti, lo staff di varie organizzazioni, le studentesse universitarie e perfino le ragazze al primo anno di scuola avevano cominciato a indossarlo tutte insieme, all’improvviso. Le sue amiche raccontavano sottovoce come gli uomini non avessero protestato durante la guerra, quando le donne li avevano soccorsi e protetti, lavorando fino a sfinirsi per nutrire la famiglia. Poi però si erano ricordati di essere uomini e che “una donna dovrebbe stare al suo posto”. Yakhita annuiva distrattamente, in fin dei conti non era un suo problema. E invece lo diventò.

Stava camminando sul corso, portando in braccio il suo bambino appena nato e portando dietro di sé l’altro figlio di tre anni. Faceva molto caldo, quindi portava una gonna al ginocchio e e una maglietta leggera a maniche corte. Ma aveva perfino una fascia sui capelli, un velo arrotolato più volte, perché no? All’improvviso, quattro uomini in costume islamico si avvicinarono e cominciarono a gridare, indicando le sue braccia nude e dicendo che si stava comportando in modo indecente e vergognoso. Yakhita era così sorpresa che quasi non sapeva che cosa dire.

Ma poi si ricompose e cominciò a gridare che era sposata con due figli e non aveva mai fatto niente di vergognoso in vita sua, quindi non avevano il diritto di fare quel tipo di commenti. Ripetette che aveva un marito e un fratello e che li avrebbe chiamati immediatamente perché venissero a sistemare le cose. Vedendola prendere in mano il cellulare, gli uomini si ritirarono. Uno di loro disse: “Non c’è bisogno di chiamare nessuno, non fare casino. Abbiamo ordini dall’alto. Dobbiamo farlo, capisci?” Yakhita afferrò il messaggio e non volle rimanere oltre. Il giorno dopo comprò il biglietto di ritorno per Mosca.

Ai fanatici in costume islamico si unirono presto altri giovani aggressivi. Alcuni arrivavano ad afferrare le ragazze per le braccia e a tirar loro i capelli. Anche gli ufficiali della legge presero gran gusto a dare lezioni di moralità alle donne. Fatima ha 19 anni. Sua madre l’aveva implorata di non uscire senza velo, specialmente in centro. “Non provocarli, per favore! Potrebbero anche ucciderti. Ieri una ragazza stava camminando senza velo nel distretto di Chernorechye. L’hanno spinta a forza in un’auto e portata via. Nessuno sa dove sia ora!” Fatima indossò il velo per non turbare la madre, ma una volta fuori lo ripose nella borsa. Era troppo umiliante coprirsi la testa solo perché le era stato detto di farlo. Era proprio l’inizio del Ramadan. Aveva i capelli sciolti e un vestito lungo, ma abbastanza aderente. Era nuovo e Fatima lo aveva ammirato un po’ allo specchio, quella mattina.

All’angolo della strada c’erano due auto con gli uomini di Kadyrov: sette od otto giovani barbuti, in uniforme nera e armati. Le gridarono qualcosa, cercando evidentemente di abbordarla. Lei li ignorò e cominciò ad accelerare. Loro saltarono giù dalle auto e le corsero dietro, circondandola con parole oscene. Lei cercò di liberarsi di loro, gridò: “Lasciatemi stare!” Loro si infervorarono ancora di più, dicendo che se fosse stata vestita decentemente e avesse portato il velo nessuno l’avrebbe importunata. Era vestita in modo da attirare l’attenzione degli uomini, era una tentazione. Le dissero che era una puttana e il suo posto era il letamaio. La presero per le mani e cominciarono a trascinarla verso un cassettone della spazzatura.

Fatima piangeva e faceva resistenza mentre la tiravano per i capelli. C’era gente per strada, ma nessuno intervenne. Solo una donna di circa quarant’anni perse la pazienza e corse verso Fatima e la afferrò gridando “Cosa state facendo? Lasciatela andare!” Gli uomini cercarono di scrollarla via, ma lei non mollava la presa e continuava a gridare sempre più forte. Alla fine lasciarono Fatima e se ne andarono. La ragazza continua a pregare per la sua salvatrice, che non capisce nemmeno come sia riuscita a non perdere il proprio sangue freddo.

La donna aveva probabilmente perso la testa. L’orrore e la compassione erano stati più forti dell’istinto di auto-conservazione. Lei il velo lo porta, perché pensa sia giusto. Lo porta da molti anni, ma ora a volte vorrebbe toglierselo. “Vedi, questo tipo di comportamento fa sì che anche una donna che vuole portare il velo comincia a sentirsene soffocata”.

Tanya Lokshina è ricercatrice di Human Rights Watch  per la Russia

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