Cecenia: da Grozny alle gole di Argun

Un viaggio in Cecenia, tra le sorprese offerte dalla città di Grozny e la tormentata storia dei suoi abitanti, fino ai maestosi monti del Caucaso e le gole di Argun. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

16/06/2020, Valentino Broccoli -

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Piazza Kadyrov con la grande moschea “il Cuore della Cecenia” e le torri di Grozny- foto di V.Broccoli

Allah akbar! Dai minareti della grande moschea il muezzin richiama i fedeli cantando così, Dio è grande. Alcuni abbandonano le macchine in doppia fila ed entrano di corsa per una delle cinque preghiere giornaliere. Altri abbandonano il lavoro, srotolano un tappeto persiano e si inginocchiano dentro al proprio negozio. Altri ancora non abbandonano niente perché non hanno niente da abbandonare e tirano dritto per la propria strada. Io rimango più o meno a 40 gradi al centro di piazza Kadyrov. A Grozny. In Cecenia.

Mentre provo a combattere il caldo facendo qualche risvolto ai miei pantaloni cargo, tra le onde dell’asfalto rovente di viale Putin mi viene incontro avvolta nel suo chador Nigora, la mia guida. Mi tiro su gli occhiali specchiati e le allungo la mano per presentarmi, ma lei fa un passo indietro. Qui si vive seguendo la sharia. Un uomo non può toccare una donna a meno che non la sposi. E insomma, visto il mio feeling particolare con i matrimoni, per stare sul sicuro faccio un mezzo passo indietro anche io.

Attraverso la strada ed entro nell’ufficio di Visit Chechnya, il tour operator che mi aiuterà a scoprire “The land of heroes”. Così chiamano la Cecenia da queste parti perché chi ci vive è un eroe e a quanto pare anche chi ha il coraggio di capitarci. Mi mettono davanti all’insegna e mi scattano una foto.

Nigora si guarda il polso, poi controlla un paio di volte lo smartphone. È arrivato il fuoristrada. Lo UAZ Patriot bianco e rosso ci porta al museo Akhmat Kadyrov, dove mi accoglie in tutto il suo splendore uno di quei carri armati che hanno combattuto le due guerre cecene dal 1994 al 2009. E dove, sotto un gigantesco obelisco dorato con la forma della tipica torre cecena, è conservata la storia di un popolo che mai si è arreso, mai è stato sottomesso, e che alla fine ha ottenuto la propria indipendenza.

Il museo Akhmat Kadyrov, il presidente ucciso in un attentato il 9 maggio 2004.

Il museo Akhmat Kadyrov, il presidente ucciso in un attentato il 9 maggio 2004. foto di V.Broccoli

Fuori nemmeno il caldo pare arrendersi. E ora capisco cosa intendesse la mia maestra quando alle elementari ci parlava del clima continentale. La jeep ci dondola un po’ verso il centro poi ci scarica davanti al “Cuore della Cecenia”, la moschea Akhmat Kadyrov. All’ingresso un militare con una certa faccia e un certo Kalashnikov mi fa capire a gesti di srotolare i risvolti e coprirmi le caviglie. Mi tolgo le scarpe e calpesto il bellissimo tappeto verde rosso e bianco che richiama i colori della bandiera cecena. Faccio una foto al gigantesco lampadario di cristallo e alle splendide decorazioni dipinte sulle volte. Poi faccio finta di ricordarmi l’arabo che ho studiato all’università e leggo qualche parola qua e là.

Mi rinfilo le scarpe e gli occhiali scuri. Nigora mi fa notare che non ci sono alberi alti perché, quando nel 2009 finì la seconda guerra, qui attorno erano tutte macerie. Due mamme giocano con i loro bimbi sotto il tunnel a forma di cuore. Nigora mi fa incontrare il ministro del Turismo ceceno. Io gli racconto da dove vengo e lui, indicandomi il cantiere di quello che sarà il grattacielo più alto d’Europa, di come si sono rialzati dopo circa quindici anni di guerra.

Piano piano il sole cala dietro al Caucaso, laggiù. Mi sistemano in un hotel e mi dicono che il centro è più o meno a 1 km. Devo cercare qualcosa da mangiare. Così mi avventuro tra il buio e tra qualche ceceno che mi squadra dalla testa ai piedi. Probabilmente è il chilometro più lungo della mia vita. Un po’ di corsa e un po’ in affanno trovo la piazza, ma non trovo niente da mangiare. Lì c’è la luna. Velata. A fianco delle torri della città colorate dalla scritta “amiamo Grozny”. Alcune coppie passeggiano raccontandosi la giornata che sta per finire. Qualche bambino si fa spingere sulle grandi altalene sognando di diventare un astronauta. Io mi faccio coraggio e fermo un ragazzo per chiedere una foto. Parla inglese perché vive e lavora in Svezia. È qui con la fidanzata. Le fa vedere da dove viene e dove forse un giorno tornerà. La mia faccia invece mi fa vedere che è ora di una bella doccia e una bella dormita. Nigora mi scrive che domani la mia guida sarà Sham. Poi mi scrive mia mamma e chiede se sono vivo. Sì mamma. Ho mangiato. Sto bene. Sono vivo. A domani.

Alle 9:00 suona la sveglia. E io suono la carica verso la colazione. Dopo un paio d’ore suonano un po’ tutti. La Nissan di Sham si rompe all’improvviso lasciandoci in mezzo alla strada e in mezzo a venditori ambulanti di pecore e pomodori. È saltata la pompa della benzina. Così ci dice il padre di Sham che è al volante.

La riparazione della Nissan in mezzo a venditori ambulanti di pecore e pomodori. Foto di V.Broccoli

Dopo averla riparata tra molta polvere e molto gas di scarico, ripartiamo e raggiungiamo il museo etnografico Dondi Yurt. Qui conosco il fondatore Adam e le radici della cultura caucasica. Perché al di là di ogni fatto accaduto e di ogni opinione che uno si è fatto guardando la TV tra un boccone e l’altro, credo che sia impossibile interpretare il presente e farsi un’idea del futuro senza conoscere il passato.

Adam era un famoso lottatore di wrestling. Nella stretta di mano sento ancora tutta la sua forza. Mi accoglie con grande ospitalità e con addosso i tradizionali indumenti circassi. Non capisco il russo, ma da ogni parola percepisco la sua passione per quello che racconta. È incredulo e forse anche emozionato nel vedere un italiano venire fino a qui per ascoltare la sua storia. Mi fa sedere a tavola con lui e sua moglie per pranzo. Mi servono dodici manti, cioè ravioli ripieni di carne di agnello, cavallo o manzo speziata e cotti al vapore. Prima di andare mi fa girare un breve video che gli servirà da spot e io gli prometto che un giorno parlerò di lui in un mio racconto.

Adam e il museo etnografico Dondi Yurt. Foto di V.Broccoli

Durante il ritorno la nostra Nissan ci tradisce ancora. Mentre il padre di Sham fa l’autostop e va a comprare il pezzo di ricambio, noi due rimaniamo seduti sul ciglio della strada. Sham ha 22 anni. Nato qui tra una guerra e l’altra, poi scappato e cresciuto in un campo profughi dell’Inguscezia. Ora è insegnante e innamoratissimo di una ragazza che presto vuole sposare. Suo padre esce da una macchina col pezzo nuovo. Zoppica un po’. Durante la guerra ha perso un dito e quasi la gamba intera, ma non le sue grandi abilità di meccanico.

Superando senza problemi qualche posto di blocco dove bisogna dire chi si è e dove si va, arriviamo nella mia nuova sistemazione. Lo splendido hotel Tiynalla. Situato qualche chilometro fuori dalla città, si affaccia sul lago Groznenskoye More. Nel giardino principale circumnavigo una grande Rubʿ al-Hizb, la stella islamica dalle otto punte. Nella hall invece circumnavigo una folta schiera di militari ceceni che proteggono i tanti compatrioti tornati dalla Giordania per qualche giorno di ferie. Questa notte posso dormire tranquillo.

Una leggenda narra che tutte le mattine alcune giovani donne si incamminassero verso la sorgente Chanty-Argun per prendere l’acqua. E che ogni mattina qualche bel giovane uomo a cavallo si facesse vedere lì attorno per fare la corte alla propria amata. Io non sono più tanto giovane, non ho un cavallo, né una amata a cui fare la corte. Ma circa alle undici del mattino sono lì con la mia bottiglietta sotto la sorgente e sotto a quei giovani con le anfore e i cavalli scolpiti nella pietra. Risalgo in macchina e risalgo la strada inghiaiata che costeggia il fiume. Poi arrivo alle famose e tanto attese gole di Argun. Il vento sibila fortissimo tra le rapide. Mi sporgo e laggiù vedo le due torri incastonate nella roccia che sorvegliano ancora attente quello che una volta era un sentiero di mercanti, pionieri e briganti. Continuo a salire fino ai piedi del monte Tebulomsta e fino alla fine della Cecenia. Visito il museo di Itum-Kale. Prima di uscire mi infilano un papaq caucasico in testa e mi fanno una foto. L’imam canta ancora “dio è grande” e io rimango da solo seduto su una panchina ad ascoltare. Dio deve essere proprio grande per aver fatto delle montagne così belle.

Le torri di guardia alle gole di Argun. Foto di V.Broccoli

Mentre il sole scende, io scendo verso valle. È ormai sera quando arrivo in hotel. Dal mar Caspio soffia una brezza piacevole. Faccio le scale che portano al lago. L’acqua increspata sbatte sorda contro le rive erbose. Mi siedo su una panchina per prendere un po’ di fresco, ma prendo solamente le urla dei bambini. Così mi incammino ascoltando le onde e i miei pensieri. E arrivo ad un semaforo dove scattano quei famosi 57 secondi per non potermi innamorare di una cecena.

Il lago Groznenskoye More. Foto di V.Broccoli

Domani sarà l’ultimo giorno. Poi un tassista che in 34 anni di vita non è mai uscito da Grozny mi porterà in Georgia. E mentre dal finestrino della Kia Rio correranno via l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord, io mi volterò indietro spesso. Questa volta sono davvero andato fino alla fine del mio pensiero.

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