Caucaso fuori controllo

Il coinvolgimento della Russia nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan rischia di far più male che bene. Un editoriale

22/10/2015, Thomas De Waal -

Caucaso-fuori-controllo

una famiglia che vive nella città di Agdam in Nagorno Karabakh - foto di Angelo Emma

(Pubblicato originariamente il 10 ottobre 2015 da POLITICO  con il titolo Losing control in the Caucasus , tradotto da OBC)

La guerra del Nagorno Karabakh, il conflitto più antico e pericoloso dell’ex Unione Sovietica, si sta risvegliando. L’accordo di cessate il fuoco del 1994 tra Armenia e Azerbaijan è messo a dura prova. Mentre due anni fa c’erano occasionali scambi a fuoco, oggi sparano i mortai. Razzi piovono sul confine armeno-azerbaigiano e sulla linea del cessate il fuoco ad est del Karabakh. Solo nella scorsa settimana ci sono state circa una dozzina di vittime.

E’ ancora prematuro parlare di un ritorno di quella guerra su vasta scala che imperversava tra 1992 e 1994. Ma i leader di Azerbaijan e Armenia sembrano ormai trincerati su posizioni bellicose da cui sarà difficile fare retromarcia.

Non si tratta della “mano di Mosca” – anche se il comportamento della Russia non è d’aiuto. Il pericolo per il Caucaso è che nessuno ha pieno controllo della situazione. La questione Karabakh sta diventando un altro anello della catena di disordini che si estende dall’Ucraina alla Siria, in cui la Russia si intromette ma della quale non tiene le redini.

Il conflitto del Karabakh non si è mai realmente “congelato”, da quando i combattimenti sono conclusi nel 1994. E la Russia non ha mai avuto una vera posizione di controllo. Le sue dinamiche di base, risalenti al 1988 e all’era Gorbaciov, sono sempre state locali, derivanti dalla collisione di due accaniti movimenti nazionalisti sul territorio del Nagorno Karabakh. Quando l’URSS è crollata, le due nuove nazioni si sono dichiarate guerra. Nel 1994, dopo oltre 20.000 morti1 da entrambe le parti e più di un milione di profughi, gli armeni hanno ottenuto una vittoria sul campo ed è stato firmato un cessate il fuoco.

Da quel momento, il conflitto irrisolto ha impedito lo sviluppo democratico sia in Armenia che in Azerbaijan, e tuttavia nessuno dei due paesi è disposto a scendere a quei dolorosi compromessi che porterebbero alla pace. Per i leader semi-democratici dell’Armenia e per quelli autoritari dell’Azerbaijan, la priorità assoluta è la sopravvivenza del regime. Essi temono il cambiamento e trovano utile giocare periodicamente la carta del Karabakh per mobilitare la nazione intorno alla bandiera.

Negli ultimi due anni, il Presidente Ilham Aliyev ha trasformato l’Azerbaijan nello stato più autoritario di tutta Europa, con una escalation di retorica bellicosa e chiamando gli armeni “fascisti” e “t[]isti”. Il 26 settembre, il presidente armeno Serzh Sargsyan ha replicato l’escalation retorica, lasciando cadere le precedenti ambiguità e dichiarando categoricamente il Karabakh “una parte inseparabile dell’Armenia”.

La Russia cerca di plasmare questa pericolosa situazione, ma non regge le fila. In generale, Mosca ha un interesse strategico nella risoluzione del conflitto e ha talvolta svolto il ruolo di pacificatore – da ultimo attraverso la mediazione di Dmitri Medvedev nel 2011. Ma ha anche utilizzato periodicamente il conflitto per ottenere vantaggi tattici sull’Armenia e sull’Azerbaijan e per mantenere un punto d’appoggio nel Caucaso meridionale.

Durante la guerra degli anni ’90 ha giocato con entrambe le parti prima di sostenere gli armeni nell’ultima fase del conflitto.
Più di recente, la Russia ha rafforzato la sua alleanza a lungo termine con l’Armenia, estendendo il contratto di affitto della base militare di Gyumri [in Armenia, a 12 Km dal confine turco, ndr] fino al 2044 e invitando Erevan a far parte dell’Unione economica eurasiatica. Allo stesso tempo, si è avvicinata all’Azerbaijan e ha iniziato a vendere al paese armi pesanti.

Accanto alla Francia e agli Stati Uniti, la Russia è uno dei tre mediatori nel conflitto, nel cosiddetto Gruppo di Minsk dell’OSCE. Recentemente il Gruppo di Minsk è divenuto un mero esercizio di gestione dei conflitti, con poca ambizione o capacità di raggiungere una piena risoluzione della controversia.

La disputa tra la Russia e l’Occidente sull’Ucraina ha portato nuovo pessimismo riguardo al processo di pace. Come in Siria, le due parti possono condividere diversi obiettivi, ma evidentemente hanno idee diverse su come raggiungerli – e poca fiducia reciproca.
Sarebbe paradossalmente più facile gestire la situazione se la Russia avesse un chiaro disegno imperiale; ma se c’è un piano russo nel Caucaso e in tutto il vicinato post-sovietico, questo non sta funzionando. In tutta l’area, le recenti azioni russe sanno più di reazione, improvvisazione e autopromozione, che di grande strategia. Ovunque, Mosca lascia il disordine nella sua scia.

Guardiamo le carte in tavola. Il Presidente Putin ha segnato una vittoria tattica nell’annettere la Crimea nel 2014, ma questo era un luogo dove aveva già molteplici leve di controllo e un ampio sostegno, e in quel momento non c’era praticamente nessuno al governo a Kiev.

Putin ha fallito nel suo più ampio progetto di “Novorossiya” in Ucraina e il Donbass si è trasformato in un brutto pasticcio, gestito da estremisti criminali di cui il Cremlino non si fida.

Le regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, che la Russia ha riconosciuto piuttosto frettolosamente come paesi indipendenti nel 2008, costituiscono una palla al piede politica e finanziaria per Mosca e continuano a sfornare sorprese imbarazzanti. Nel 2011 il Cremlino non è nemmeno riuscito a fare eleggere il suo candidato alle elezioni presidenziali in Ossezia del Sud (popolazione 30.000) al primo tentativo. Il riconoscimento di questi due territori, non condiviso da nessun altro grande Paese, ha impedito ogni riavvicinamento con la Georgia, che avrebbe dovuto essere una priorità di gran lunga maggiore.

Nella regione post-sovietica ben poco sta andando secondo i piani di Putin. L’Ucraina vuole tagliare i ponti con la Russia. Alcuni leader, come quelli dell’Uzbekistan e dell’Azerbaijan, stanno facendo dei loro paesi delle fortezze autocratiche. Altri fanno la spola tra Mosca e l’Occidente, compresi i due principali membri del progetto Unione Eurasiatica, Nursultan Nazarbayev del Kazakistan e Alexander Lukashenko della Bielorussia, il quale, lo scorso mese, è stato ritratto in una foto con Obama all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Il presidente azero Aliyev si è arroccato al potere, con un giro di vite contro la società civile, i media e ciò che resta dell’opposizione. Ciò ha spinto l’Azerbaijan ancor più lontano dall’Occidente e più vicino alla Russia – ma l’Azerbaijan, con i suoi interessi nel campo dell’energia ed i forti legami con la Turchia, non sarà mai del tutto un alleato russo. L’Armenia, come la Bielorussia e il Kazakistan, si tiene in equilibrio, restando un alleato formale della Russia e nel contempo cercando di mantenere buone relazioni con la Georgia, l’Unione Europea, la NATO e gli Stati Uniti.

Il punto è che Mosca non può imporre la sua volontà su entrambi i paesi, in particolare su una questione di vitale importanza per l’interesse nazionale come il Karabakh. Eppure, armando entrambe le parti e cercando di metterle l’una contro l’altra, la Russia sta mettendo a rischio la quiete permessa dai suoi stessi mediatori nel 1994.

Il Caucaso sembra più instabile e imprevedibile di quanto sia stato per molti anni. Gli ultimi scontri armeno-azeri aumentano il rischio che un incidente sprofondi le parti, per []e di calcolo, in una nuova guerra che nessuno vuole, ma da cui nessuna delle due parti sarebbe disposta a indietreggiare.

Il comportamento della Russia rende difficile impedire ciò – ma nessun altro ha attualmente la capacità di porre fine a questo scenario da incubo.

 

[1]
Altre fonti  parlano di 30.000 perdite.

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