Capire i confini d’Europa: un seminario

Pubblichiamo un breve resoconto dell’edizione 2003 dell’Academy of European History, sessione estiva dell’Università Europea di Fiesole. Tema dell’incontro una disamina storica dei confini e delle politiche ad essi legate

31/07/2003, Redazione -

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Un'immagine dell'Istituto Europeo

Un’immagine dell’Istituto Europeo

Via Boccaccio è un serpente d’asfalto ombreggiato che striscia tra Firenze e Fiesole. Alti muri di pietra e siepi d’alloro separano giardini e fabbricati dalla strada, impedendo alla vista curiosa di scoprire quello che sta dietro. Così, quando varchi il cancello di Villa Schifanoia, sede insieme alla Badia Fiesolana dell’Istituto Universitario Europeo, hai subito l’impressione che il parco, curatissimo nelle geometrie, e gli edifici in esso contenuti siano luoghi per pochi, spazi "altri" rispetto alla città che qualche chilometro a valle si agita nell’afa di luglio. A sciogliere questa sensazione è la babele di lingue che improvvisamente rompe il silenzio. Un gruppo di persone si dirige verso la cappella della villa. L’Academy of European History, sessione estiva dell’Università Europea giunta quest’anno alla seconda edizione, è riservata a giornalisti e docenti di storia. Una quarantina i partecipanti: si va da due reporter di San Pietroburgo ad alcuni insegnanti italiani di scuola superiore, ad una giovane professoressa che arriva dall’ex Jugoslavia, passando per ungheresi, belgi, rumeni, ciprioti, tedeschi, cechi, polacchi, francesi, spagnoli, portoghesi e slovacchi.

Scopo ambizioso dell’incontro, della durata di una settimana, è di esaminare i processi di esclusione e inclusione che nel corso dei secoli hanno interessato la definizione dei confini europei come risultato di precise opzioni ideologiche, militari, politiche, economiche, religiose e culturali. Obiettivo comune di storici e giornalisti: imparare a parlarsi e ascoltarsi, nonostante i codici differenti, superando i preconcetti e definendo una strategia comune utile a comunicare la storia europea. È un tema che acquista particolare interesse se si mette in relazione con l’attuale spostamento verso est dei confini dell’Unione e, in prospettiva, con la possibile e auspicata inclusione dei Balcani occidentali in Europa, nel frattempo già dilatata a venticinque paesi.

Ad introdurre il dibattito è Robert Bartlett, brillante medievalista presso l’Università di St. Andrews, cui è affidato il compito di relazionare su: "La questione delle frontiere nell’Europa medievale". È proprio il Medio Evo, intervallo che vale mille anni di storia mondiale, il più importante periodo di invenzione dell’Europa. Le frontiere sono zone fluide o precise linee di demarcazione? Soprattutto, riflettono una separazione "naturale" e sincronica, come un corso d’acqua, che in realtà molto spesso avvicina e non divide i popoli stanziati lungo le sue sponde, oppure sono un prodotto "artificiale" e diacronico pilotato dagli stati, frutto ad esempio di particolari politiche dinastiche o del processo di decision-making?

Pur ammettendo la dicotomia tra frontiere puramente politiche e frontiere culturali, religiose o etniche, Bartlett propende per la seconda ipotesi, rilevando come i segni di riconoscimento di una frontiera vadano ricercati principalmente nella sua definizione tramite l’uso della forza: quindi la militarizzazione dell’area attraverso lo schieramento dell’esercito e l’imposizione a chi transita da una parte all’altra del pagamento di una tassa. Benché non in maniera deterministica, frontiera e costruzione dello Stato sono quindi due processi storicamente correlati.

Appassionante e molto apprezzato dai partecipanti è il contributo di Mohammed-Salah Omri, docente all’Università di Exeter, su "Il Mediterraneo come frontiera". Il suo intervento parte da uno studio comparato del mito di fondazione di Cartagine, così come raccontato prima da Virgilio nell’Eneide e poi dallo scrittore tunisino Fawzi Mellah nel suo romanzo Elissa, la regina vagabonda (1988). Secondo Omri, il Mediterraneo è storicamente luogo di ri-appropriazione e scambio di miti e di movimento di idee e lingue, tuttavia – il riferimento è alle attuali politiche europee nei confronti dei migranti – è anche – o sta diventando progressivamente e pericolosamente – muro invalicabile di divisione.

Per il migrante clandestino i confini esistono solo per essere superati. C’è forse una contraddizione insita nello stesso processo europeo? L’Unione Europea apre le frontiere interne e contemporaneamente rinforza le misure per tenere lontani i non europei. Senza dare risposte ad una domanda che suona quasi ingenua, Mohammed-Salah Omri si chiede perché l’Unione Europea tenda a liberalizzare il movimento di persone fra i suoi stati membri e contemporaneamente a localizzare, vale a dire delegare ai singoli stati, le questioni riguardanti la migrazione dall’esterno, il diritto d’asilo e i rifugiati.

Rada Ivekovic, docente all’Università di Parigi 8 e autrice, tra gli altri, dell’illuminante saggio La balcanizzazione della ragione (pubblicato in Italia da Manifestolibri), si sofferma sul concetto di "traduzione fra culture", inteso come processo militante di negoziazione fra differenze e di resistenza all’omologazione, che si distingue dall’arrogante e abusato "dialogo fra culture" proposto dal tradizionale approccio "multiculturale". Poiché la "traduzione" non è un’uscita dalla violenza ma una conversione di essa, quando c’è assenza o comunque carenza di "traduzione", rileva Rada Ivekovic, si scatena il conflitto. Un esempio storico è rappresentato dalle recenti guerre nell’ex Jugoslavia, dove, venuti a mancare con il crollo del comunismo un sistema di regole e una cittadinanza condivisa, gran parte dei mass media e degli intellettuali hanno lavorato proprio per interrompere ogni possibilità di "traduzione". Per una politica attiva di "traduzione" si richiede ovviamente che le rispettive culture siano capaci di mettersi in discussione riconoscendo che non esiste un grado zero della "traduzione".

Insomma, sostiene Rada Ivekovic, ci deve essere "partage" della ragione senza che la ragione sia "partagée" in maniera definitiva. Se si mantiene viva una costante e dinamica tensione, i territori di frontiera possono ancora rappresentare un laboratorio ideale di "traduzione": gli esperimenti già avviati sono numerosi.

di Massimo Gnone

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