Calcide e i flussi alterni della storia
Le suggestive palìrrie di Calcide sono un fenomeno che suscita interesse e curiosità, perfino Aristotele se ne occupò. Il reportage del nostro esperto di archeologia da una regione dove acque, storie e persone da secoli sanno invertire il senso del proprio corso
Vengono lentamente ma costantemente trascinate dal risucchio, le barche dei pescatori così come le meduse, nel portentoso canale di Calcide chiamato Euripo. Chissà perché, quasi tutte le guide riportano che qui c’è un ponte girevole, se non addirittura levatoio: eppure è dagli anni ’60 che i precedenti modelli sono stati sostituiti da un ponte syrtarotì, come si dice in greco, cioè retrattile o a scomparsa. Quasi ogni sera, sotto il vigile controllo degli addetti portuali, l’intenso traffico stradale tra l’isola Eubea (la sesta per grandezza del Mediterraneo) e il continente viene bloccato: si chiudono le barriere metalliche alle due estremità e si arrestano in paziente attesa i numerosi pedoni, le moto, le auto e i pesanti camion; a quel punto i due bracci del ponte iniziano prima ad abbassarsi di circa un metro rispetto al livello stradale, poi a ritrarsi ciascuno entro la sua sponda. Il rumore dei motori cessa e quasi per incanto tornano ad udirsi, come una volta, solo i gorghi e i risucchi della corrente marina. La precedenza passa alle imbarcazioni, che attraversano ordinatamente l’Euripo prima in un senso, poi nell’altro. Per una buona mezz’ora l’Eubea sembra tornare ad essere, come è in natura, un’isola.
Risucchiati insieme alle meduse
In realtà di naturale nel senso di regolato da ferree e prevedibili legge fisiche c’è ben poco nel fenomeno che si verifica da millenni su questo stretto braccio di mare (meno di una quarantina di metri), e che è detto palìrria. Parrebbe di assistere al moto di un fiume, poiché la corrente scorre compatta in una stessa direzione; questa però si inverte quattro volte al giorno, cioè ogni sei ore: si dirige da nord verso sud, si arresta per qualche minuto come indecisa, e poi si rivolta andando a nord; e viceversa. Ma la cosa strana è appunto che queste fasi non sono regolari né pronosticabili, a differenza di quelle delle maree. Ad esempio, all’alba per vari giorni di seguito la si vede sempre correre a sud, ma poi un bel mattino capita di vederla orientata al contrario. E non è che la forza dei flussi e riflussi sia poco intensa: anch’essa varia di giorno in giorno, di ora in ora, ma può raggiungere velocità tali da sconsigliare il passaggio delle imbarcazioni. Quelle più piccole, da diporto, non hanno talvolta nei motori forza sufficiente per avanzare quando la contrastano, mentre verrebbero ‘sparate’ attraverso il canale come palle da biliardo se andassero nel suo stesso senso. Le navi più grosse, più potenti, rischierebbero per le loro stesse dimensioni di ‘toccare’ da un lato o dall’altro le pareti dello stretto passaggio, poiché il flusso, non rigorosamente parallelo alle rive, potrebbe farle deviare sia pur di poco.
Ovviamente il turista che è di transito per qualche ora o per una notte, come spesso accade qui a Calcide, nulla vede di tutto questo, se non un flusso di acqua marina sotto un ponte. Ma se si segue il fenomeno per alcuni giorni o settimane, anziché esserne assuefatti se ne viene sempre di più attratti, quasi come se il nostro cervello di umani indagatori venisse anch’esso lentamente risucchiato, assieme alle meduse, in quei gorghi avvolgenti e imprevedibili. Non per nulla sul lungomare di Calcide, proprio dinanzi al Dimarchìo, il bell’edificio in stile neoclassico del Comune, troneggia un busto di Aristotele; che morì qui nel 322 a.C. – dice una storiella – suicida per la disperazione e la vergogna di non essere riuscito a comprendere, lui che si applicava a tutto spiegare, le cause scientifiche del fenomeno. Si tratta certo di un falso aneddoto, in quanto anzi lo stesso filosofo pubblicò un lavoro sull’argomento. Ma il fatto è che ancor oggi il funzionamento della palìrria non è ben chiaro. Sicuramente ha un legame con le fasi lunari, è una marea. Ma nessuno è tuttora in grado di prevedere con esattezza se e quando la navi potranno passare, e quindi la grande Eubea tornare a sembrare un’isola.
Spinti verso la Sicilia
Però un fenomeno ben più grandioso e importante, e che ha coinvolto l’intera Europa, la capricciosa palìrria potrebbe a sua volta spiegarlo. Ed è il perché da questa cittadina di Calcide, e da altre a lei vicine, la civiltà sia sciamata da oriente a occidente, ponendo le basi di quella cultura europea di cui facciamo parte. In particolare, una serie grandiosa di eventi investì lungo un paio di secoli sopratutto la nostra penisola. E’ dall’Eubea che vennero i coloni che nell’VIII sec. a.C. fondarono per primi città degne di questo nome in Italia: a Cuma, a Naxos di Sicilia, a Reggio Calabria, a Catania, a Napoli… Ciò significò introdurre nel Mediterraneo occidentale una vita civilmente ordinata, regimi politici costituzionali, codici delle leggi, e anzitutto l’alfabeto. Sì, i segni che ancor oggi usiamo per capirci, sia il lettore sia io che scrivo, sono figli dei particolari caratteri grafici usati dai Calcidesi, trasmessi da quei navigatori e colonizzatori ai popoli italici che ancora non ne conoscevano: prima agli Etruschi, poi da costoro ai Latini. Ma come mai proprio queste piccole cittadine greche (Calcide, la vicina Eretria e la poco più lontana Cuma euboica), e non altre, svilupparono capacità marinare tanto eccellenti da consentire una migrazione così vasta e di tal portata da porre le basi culturali stesse dell’Occidente? Non sarà forse che gli Eubei divennero abilissimi navigatori proprio perché si erano allenati da sempre, nelle acque di casa propria, all’imprevedibile, dura scuola delle palìrrie?
Fa impressione vedere questi caratteri cui tanto dobbiamo incisi nelle epigrafi del Museo archeologico di Calcide, assieme ad altri splendidi reperti: come un ritratto di Antinoo, il favorito dell’imperatore Adriano, e quello di Polideuce, il pupillo del retore antico Erode Attico, uno dei più impressionanti ed espressivi di tutta la scultura greca. Il Museo è ospitato in un bell’edificio dei primi Novecento lungo viale Venizelos. Il bigliettaio-custode mi accoglie con entusiasmo. Ne capirò il perché scorrendo l’elenco dei visitatori nel libro delle firme: sono il primo negli ultimi due giorni.
Ma la cosa più emozionante è ritrovare il padre del nostro alfabeto nei caratteri incisi sulla roccia, a dimensioni ben maggiori, in una iscrizione alla periferia dell’attuale città. Soffocata da grossi magazzini di materiali di autoricambi, con i camion parcheggiati fin quasi davanti, l’epigrafe è segnalata solo da un pressoché invisibile cartellino stradale arrugginito, e perciò non facile da trovare. Il suo contenuto ammoniva semplicemente di non oltrepassare il confine della terra cittadina. Delle erbacce la nascondono: ed è quasi per un gesto di pietas che la ripulisco prima di fotografarla.
Per il tempio di Artemide, più avanti
Non ha infatti tutti i torti, nel suo sconforto, il greco che mi indicherà, il pomeriggio successivo, come riuscire a visitare quanto resta del vicino tempio di Artemide Aulidea. La baia di Aulide, di fronte a Calcide sul lato del continente, è un altro dei luoghi fondanti della storia e della cultura: qui si sarebbero radunate le navi dei condottieri achei pronte a salpare per la guerra di Troia. Siamo in pratica all’antecedente dell’Iliade, segnato dalla bella vicenda di Ifigenia raccontata in una tragedia di Euripide. La flotta greca, infatti, non riusciva a partire a causa della calma dei venti, una bonaccia inspiegabile in un tratto di mare come questo. L’indovino Calcante svelò che l’impedimento era effetto di una vendetta divina: causata da un affronto compiuto nei riguardi della dea Artemide dal condottiero della spedizione, Agamennone. Quel peccato, disse, andava espiato in modo terribile: il re avrebbe dovuto chiamare sua figlia Ifigenia da Micene, dove si trovava, per sacrificarla sull’altare della dea. Solo così gli Achei sarebbero potuti partire, e la grandiosa spedizione non sarebbe finita sul nascere con un disastroso fallimento, tra liti e accuse reciproche.
Euripide trasse da questo mito un dramma avvincente; che parte dall’animo sconvolto del padre, combattuto tra la ragion di Stato e l’affetto del genitore; si sviluppa con l’inganno – un matrimonio fittizio prospettato con il bell’Achille – per mezzo del quale attirò la giovinetta nella spiaggia di Aulide; e con lo sdegno di Achille stesso e lo sgomento di Ifigenia alla scoperta dell’orrenda verità; si concluderebbe con la marcia indietro di Agamennone di fronte ai rimorsi, se a quel punto non si verificasse una doppia sorpresa: il mutamento d’animo della ragazza che, da vergine ingannata, si trasforma in eroina dell’impresa accettando volontariamente e con orgoglio il sacrifico per il bene comune dei Greci. E infine, proprio sul quel fatale altare che io lì stavo cercando, ecco la miracolosa trasformazione, da parte della dea, della vittima pronta ad immolarsi in una cerva, sicché l’empio gesto viene evitato proprio all’ultimo. Un ‘sacrificio di Isacco’ in chiave pagana, insomma.
Era appunto questo il tempio che cercavo seguendo esili indicazioni viarie. Finché, su una stradina isolata che bordeggia la baia, spunta il cartello che mi avvisa che sono giunto al santuario di Artemide Aulidea. Peccato però che in quel punto non si veda nulla: né un cancello, né un sentiero che si addentri nella fitta vegetazione ai lati dell’asfalto. Abituato a simili difficoltà, inforco gli stivaloni per difendermi dai rovi e mi inoltro speranzoso nella macchia per decine di metri. Nulla di nulla. Tra l’altro, poco oltre, ammassi di terra nera di scarico ricoprono il suolo per un vasta estensione. Possibile che abbiano cancellato il tempio? In giro non c’è nessuno: non sapendo che altro fare mi dirigo per una strada sterrata su un colle sovrastante la baia, fino ad averne una panoramica completa. Niente: per quanto aguzzi lo sguardo, non riesco a intravedere nulla che abbia a che fare con l’archeologia.
Fermi nello sconforto
Risolverò il dilemma solo una volta ridisceso a valle e procedendo in auto, ormai scoraggiato, lungo la stessa strada del cartello. Oltre un chilometro più avanti arrivo in vista di un enorme cementificio grigio con numerosi comignoli, che sembra inattivo: lì, oltre una recinzione metallica e un cancello serrato, con l’indicazione di ‘zona archeologica’, ecco le sospirate fondamenta, con i resti di alcune colonne. A un greco dall’aspetto dimesso e del tutto incolpevole del disguido, ma che aveva la sola sventura di passare di lì proprio in quel momento (primo ed unico essere umano incontrato nell’escursione) mi rivolgo con un tono seccato:"Ma il tempio di Artemide è questo qui? E allora perché hanno messo un cartello che lo colloca un chilometro più indietro?". Mi guarda prima sorpreso, poi sconfortato, quasi lasciando cadere le sporte che teneva nelle due braccia: "Di dov’è lei? E’ straniero? Sì, è questo il tempio di Artemide. E per il resto, che cosa vuole, ha proprio ragione. Ecco, guardi: questa è oggi la Grecia": e indica con un moto ampio del braccio il sito del tempio. E, in un colpo d’occhio, capisco quello che vuole dire. La zona è chiusa, trascurata, sepolta dalle erbacce fin dentro le rovine. Tutt’intorno, abbandono, nessuna spiegazione, nessuna vigilanza. E serpenti, aggiunge lui, in quantità. Tanto che, quando mi svela che dalla spalle del tempio, dove scorre una strada ferrata, vi è comunque un varco da cui è possibile accedervi, si rifiuta di accompagnarmi perché ha i pantaloni corti. "Nessuno in Grecia si occupa più di luoghi come questi", si lamenta. "Abbiamo perso la consapevolezza di quel che siamo, ed ecco il risultato". Ma poi si riprende: "Stasera c’è una rappresentazione teatrale qui vicino, una commedia di Aristofane: se vuole, le faccio avere un ingresso gratuito!". Ah – penso – l’immarcescibile filoxenìa dei greci, il loro eterno senso dell’ospitalità..!
La ragioni del povero passante mi parranno indirettamente confermate da una notiziola che leggerò poi in un quotidiano locale, uno di quelli a diffusione gratuita, che prelevo da un fornaio. Si chiama Tà Nèa tis Erètrias, Aliverìou, Kymis (cioè, ‘Le notizie di Eretria, ecc. e di altre località della regione), e riferisce che il Presidente dell’Associazione delle aziende turistiche locali lamenta che "…i turisti escono dal traghetto (ovviamente l’isola è collegata, oltre che dal ponte di Calcide cui se ne è aggiunto recentemente fuori città un altro più alto e moderno, anche da numerosi traghetti, N.d.A.) e non sanno dove andare perché non ci sono cartelli informativi in inglese. Faticano, perché non sanno dove si trovano!". L’avevo notato pure io. Ma certo è il colmo arrivare a non farsi capire, per una terra che ha dato l’alfabeto a metà del globo! E dire che lo stesso giornale riporta, in altre pagine, come secondo analisi effettuate da un ente del ministero per l’Ambiente "le spiagge di Eretria siano pulitissime e ideali per i bagni in mare"…
Rientrando a Calcide mi sono ritrovato davanti al cementificio intravisto da Aulide: un vero ecomostro, specie in un incrocio di cultura e bellezze naturali come questo. E’ silenzioso e vuoto, e alla sommità dei comignoli sventolano bandiere nere. E’ un segnale di disperazione e di protesta, perché, scoprirò poi, il complesso è fermo da qualche mese, i lavoratori inattivi ed angustiati. Tengono un presidio in un angolo del lungomare con un gazebo pieno di cartelli, da dove un video trasmette le scene di una loro manifestazione di piazza, coi rulli dei tamburi e gli slogan ritmati. Il giorno dopo, dal castello che sovrasta la città, con di fronte il panorama di quelle meraviglie e del cementificio, un giovane di Calcide che studia all’estero mi conferma quel che già temevo. E cioè che il complesso industriale affligge, a seconda della direzione del vento, la città di un odore sgradevole come di plastica bruciata, e a volte riversa addirittura polveri su di essa. Mi dice che sono stato fortunato a fermarmi qui proprio quando non è più in funzione, altrimenti… Vagamente ricordo che una decina d’anni fa passai proprio da Calcide, ma rinunziai a soggiornarvi, pur avendo lo stesso interesse di oggi per le origini della cultura europea e per le strane palìrrie. Chissà, forse fu proprio a causa di questo sgradevole e poco naturale fenomeno.
I lavoratori in agitazione accusano ovviamente il ‘capitalismo’ della compagnia proprietaria; ma è certo che, da quando la crisi fa sentire i suoi effetti, l’edilizia e quindi il consumo di cemento hanno subìto un tracollo, che del resto è in atto anche da noi in Italia. E se nessuno più costruisce, anzi molti addirittura mettono in vendita le case senza trovare acquirenti (nella città non sono pochi i cartelli di ‘affittasi’ o ‘vendesi’, anche se certo ve ne sono di meno che nella non lontana Atene), è chiaro che ha poco senso tenere ancor oggi attivo un mastodonte che produce quantità enormi di materiale edilizio.
Ma, a parte la crisi in atto, è davvero ancora il caso di continuare a cementificare Paesi come questi? Non sono già abbastanza costruite le coste e le pendici dei monti, così da noi come qui in Grecia? Ed è proprio impossibile trovare altre risorse, altri sbocchi economici e quindi occupazionali per gli sventurati lavoratori rimasti incolpevolmente senza prospettive, in terre che sono e saranno sempre straordinarie per il loro significato e la loro bellezza, non solo per i turisti e i viaggiatori locali, ma per quelli di tutto il globo?
A pochi decine di chilometri da qui, del resto, come riportava lo stesso giornalino dell’Eubea, la vecchia centrale dell’azienda elettrica ellenica, la DEI, con una sua nuova unità sta passando dal produrre energia con l’inquinante lignite e il petrolio, come accadeva in passato, al più ecologico gas naturale.
Viene da chiedersi se si sia ben compreso qual è il vero ‘cemento’ sul quale valga la pena poggiare il futuro, anche economico, di certe nazioni.
C’è da sperare che la politica e la storia, non diversamente dalle suggestive palìrria di Calcide, riescano almeno qualche volta ad invertire il senso del proprio corso.