Bulgaria rurale: tra abbandono e riscatto
Bulgaria nord-occidentale: la regione più povera dell’UE, colpita da uno spopolamento feroce delle aree rurali. Eppure, nonostante le difficoltà del presente, c’è chi non si arrende. E riparte, a piccoli passi, dai tesori di una tradizione culturale e culinaria secolare
Nel cielo terso e frizzante di una fredda mattina di novembre, la catena dei Balcani regala il meglio del suo fascino senza tempo. Le fitte macchie di faggi, vestite dall’autunno avanzato di rosso, giallo e arancio acceso, s’alternano al verde severo dei pini, le cui cime sottili svettano altere, appena mosse dal vento. Due strette valli, appena accennate, s’incuneano sinuose tra i boschi, e proprio là dove i due ruscelli s’incontrano, dove acqua lucente si mischia ad acqua lucente, spuntano i primi tetti quadrati di Gorna Bela Rechka.
Il villaggio sembra addormentato, sospeso in un silenzio riempito soltanto del gorgoglio onnipresente della corrente e dall’eco solitario di un abbaiare lontano. Per strada nessuno: solo alla fermata dell’autobus, tappezzata di annunci mortuari vecchi e nuovi, alcuni anziani discorrono a ritmo cadenzato, facendo oscillare lentamente i propri bastoni.
“C’è chi viene in paese per trascorrere l’estate, ma ormai d’inverno non rimaniamo in più di venti o trenta persone. Tutti anziani, o quasi”. A parlare, di fronte ad un bicchiere di rakija, l’aspra acquavite balcanica, è “zio” Kiro Milanov. Dopo aver ravvivato il fuoco nel ventre arroventato della cucina economica che scalda la cucina – piccola ed essenziale – sua moglie Danche, una vita spesa come negoziante nell’alimentari del paese, fa una contabilità inusuale, ma efficace, di quanto si sia svuotata Gorna Bela Rechka.
“Quando ero al lavoro, vendevamo più di quattrocento pagnotte al giorno. Oggi, se tutto va bene, arriviamo ad una quarantina. E bisogna prenotare in anticipo, perché il pane viene da fuori. Il forno del paese ha chiuso da anni, come quasi tutto, del resto”.
Gorna Bela Rechka si trova in Bulgaria nord-occidentale, non lontano dal confine con la Serbia. Secondo le statistiche ufficiali, questa è oggi la regione più povera non solo della Bulgaria, ma dell’intera Unione europea. Qui il crollo del sistema socialista ha trascinato nella polvere l’intero sistema produttivo, pianificato e centralizzato, sviluppato negli anni del regime intorno ai settori dell’industria pesante ed estrattiva.
Un crollo senza redenzione: da inizio degli anni ’90 disoccupazione di massa, povertà crescente, mancanza di prospettive, hanno dato il via ad una inarrestabile spirale di emigrazione, che ha spopolato paesi e città. Nella vicina provincia di Vidin, tanto per fare un esempio, nell’ultimo decennio il numero degli abitanti è crollato del 25 percento. Molti hanno cercato fortuna nella capitale Sofia. Ancora di più quelli che hanno deciso di andare all’estero, destinazione Grecia, Spagna o Italia.
“Qui non c’era nessuna prospettiva. Nessuna. Mi sono spostato prima in varie città bulgare, poi ho deciso di tentare in Italia”. Georgi “Gosho” Georgiev è tutto intento a spaccar legna nel suo cortile, proprio al centro del villaggio, in attesa dell’inverno.“All’inizio, per trovare lavoro, ho dovuto pagare, affidarmi ad una specie di mafia che sfrutta chi, come me, non aveva contatti né amicizie”. In Italia “Gosho” ha trascorso dodici anni, prima lavorando nell’edilizia in Calabria, poi in una cava in Abruzzo. “Alla fine la crisi è arrivata anche da voi”, dice con un sorriso largo, solcato di ironia sottile e un forse po’ amara, “e allora sono tornato a casa. Cos’altro avrei potuto fare?”
La sua, da queste parti, è una storia comune. E l’emigrazione da questa regione della Bulgaria, molto spesso, racconta storie al femminile. Un toccante documentario del noto regista Stefan Komandarev, intitolato “La città delle badanti” racconta la sorte della vicina cittadina di Varshetz (una decina di chilometri a valle di Gorna Bela Rechka), dove centinaia di donne hanno lasciato i propri cari per l’Italia, per accudire anziani ed anziane.
“Per i villaggi montani come Gorna Bela Rechka, però, la storia è molto più lunga e complessa. Qui il trauma dello spopolamento è iniziato molto prima, già negli anni ’50 e ’60, causato in prima battuta dal processo forzato di collettivizzazione della terra, che ha spezzato il rapporto millenario tra i contadini e la propria terra”.
Mariana Asenova, a lungo reporter della televisione nazionale bulgara, e oggi presidente dell’associazione culturale “Nova Kultura”, ma anche del convivium Slow Food di Gorna Bela Rechka, ripercorre le tappe più importanti che hanno portato alla difficile situazione del presente.
“Privati della terra e delle greggi, contadini e pastori hanno dovuto lasciare i villaggi, e trasferirsi nei centri più grandi e industrializzati. Oggi, la maggior parte di quelli che sono tornati a Gorna Bela Rechka, l’hanno fatto da pensionati, dopo aver trascorso buona parte della propria vita in città. Eppure, nonostante tutto, conservano ancora elementi preziosi di quel sapere ereditato da generazioni lontane, che nasce dal vivere ed amare la propria terra”.
Un legame che oggi sopravvive in un simbolo mite e minimalista, ma vitale: il latte di capra e la speciale izvara, una ricotta densa e corposa, che a Gorna Bela Rechka assume un sapore e una consistenza unici.
Non a caso, “Goatmilk” (Latte di capra) è il nome scelto da Mariana e dalla collega Diana Ivanova per il “festival dei ricordi”, manifestazione che ha ormai un decennio di vita, e che ogni 24 maggio porta nel villaggio una comunità variegata di artisti, giornalisti, ambientalisti, semplici curiosi provenienti dalla Bulgaria, ma anche da molti altri paesi. Un’occasione per riflettere sul passato e sul futuro, e al tempo stesso un laboratorio per esplorare strategie di rilancio e ripensamento della Bulgaria nord-occidentale.
“La tradizione di allevare le capre per i bisogni familiari non si è mai interrotta, neppure durante il periodo comunista. Allora in ogni casa si producevano yogurt, sirene (formaggio fresco) e, naturalmente, izvara. Anch’io, come tanti, ho imparato il processo da mia nonna”. Siyka Petrova, membro del convivium di Gorna Bela Rechka, ci invita nella sua casa, in fondo al villaggio. Una casa che parla al tempo stesso di ristrettezze economiche, ma anche di profondo amore per la propria terra e il proprio vissuto. Su una parete pendono lunghe trecce di peperoni essiccati, pronti per essere consumati durante l’inverno, sull’altra campeggia una vecchia stampa di natura morta, con le foto di figli e nipoti che fanno capolino dalla spartana cornice color argento.
“Il periodo migliore per l’izvara è luglio-agosto, quando il latte è più denso e saporito. Ma la cosa più importante è il processo di lavorazione. Oggi, con sole tre capre, mi ci vuole una settimana per riempire di latte un bidone da venti litri”. E’ proprio la lentezza, però, a rendere unica l’izvara di Gorna Bela Rechka: il lungo processo di fermentazione e bollitura porta ad una naturale caramellizzazione degli zuccheri del latte, che conferisce al prodotto finale un colore brunito ed una consistenza ed un sapore unici. “Basta una breve scottatura finale e l’izvara può essere conservata in barattoli di vetro, anche per anni”, conclude Siyka, che non resiste alla tentazione di aprirne uno seduta stante, per provare con i fatti che “di izvara ce ne sono tante, ma nessuna come quella di Gorna Bela Rechka”. E all’izvara aggiunge presto in tavola un piatto fumante e speziato di “sparzha”, specialità preparata con interiora, fegato e cuore di maiale.
“La situazione in Bulgaria nord-occidentale oggi è drammatica. Inutile sperare in soluzioni miracolose. Ma bisogna ricominciare a costruire prospettive e speranza”, è la posizione convinta di Mariana.
“Noi crediamo nei piccoli passi: ogni elemento di conoscenza e cultura locale salvaguardato è un seme che può dare frutti. Per prima cosa, però, bisogna convincere gli abitanti della regione che le loro conoscenze, i loro ricordi, le loro ricette sono importanti. Non solo come memoria storica, ma come eredità viva che ha un senso nel presente e nel futuro. Il rilancio passa anche attraverso la lotta per salvare l’izvara di Gorna Bela Rechka: un simbolo umile, ma profondissimo, del legame che ci lega a questa terra”.
Questo reportage è stato pubblicato sulla rivista "Slow", di Slow food editore