Bulgaria: Kapka Kassabova, narratrice d’identità molteplici

Nel suo romanzo "Confine" Kapka Kassabova esplora le terre di confine tra Bulgaria, Grecia e Turchia. In quelle foreste i Traci cercavano l’oro, i naufraghi del blocco sovietico tentavano un approdo ad ovest e ora, i pochi rimasti, provano ad immaginare una sostenibilità futura

19/02/2020, Laurent Geslin -

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Kapka Kassabova

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 13 febbraio 2020)

Kapka Kassabova è scrittrice e poetessa, nata in Bulgaria nel 1973, paese che ha poi lasciato con i genitori per la Nuova Zelanda negli anni ‘90. Ora vive in Scozia. Il suo libro “Confine” ha raccolto i commenti positivi della critica internazionale ed è stato tradotto già in quindici lingue.

Qual è la sua definizione della parola “identità”?

È una parola comune, ma spesso mal utilizzata. È una parola politicizzata, ma che contiene esperienze umane piene di paradossi. In teoria, l’identità dovrebbe essere qualcosa di immutabile, stabile, ma in realtà è in continua evoluzione e molto dipendente dal contesto. Tutti portiamo dentro qualcosa che non cambia ma che si modifica con l’ambiente in cui viviamo.

È questo che i Balcani possono insegnare all’Europa occidentale, che è possibile portare identità multiple?

Dalla fine dell’Impero ottomano si vuole portare la recita dell’identità monolitica anche nei Balcani… Ma le esperienze umane sono ovviamente molto lontane dall’essere monolitiche. L’Europa occidentale ha esportato i suoi concetti in maniera colonialista e questi sono stati adottati dai nuovi stati indipendenti nel sud-est del continente. Non credo che i Balcani insegnino nulla all’Europa occidentale, perché rifiuto questo tipo di prescrizioni. Quello che so è che i Balcani non capiscono se stessi e che le conseguenze di questo malinteso sono molto dannose. Tuttavia, è incredibile la resistenza delle persone alle esperienze traumatiche che derivano da questo malinteso. Occorre lasciare che si scoprano ed è per questo che lavoro con i silenzi, per sviluppare i cerchi della narrazione, una forma circolare che si trova ovviamente anche nella struttura del testo, perché quest’ultimo deve corrispondere organicamente all’esperienza ed ai luoghi. I capitoli sulla Strandja sono pieni di mistero perché la Strandja è un posto del tutto insondabile.

Cosa resta della tradizione del buon vicinato nei Balcani?

Resta sempre qualcosa. Anche quando tutto affonda, anche in villaggi fortemente colpiti dallo spopolamento. È quasi un miracolo ma è anche semplicemente una questione di sopravvivenza, perché nessuna comunità può sopravvivere senza spirito di vicinato. È il contrario delle frontiere.

Come si spiega che le comunità dei Balcani sembrano avere una memoria molto lunga ed amano ricordarsi delle storie e leggende dei loro antenati?

Non è un’eccentricità mentale esclusiva delle popolazioni dei Balcani, che salta fuori dal nulla. Dipende dall’esperienza traumatica della fine dell’Impero ottomano. Il suo affondamento è, nei fatti, storia recente di cui si ricordano i nonni o i bisnonni di chi vi vive attualmente. Le guerre balcaniche e la Prima guerra mondiale sono state, nella regione, guerre fatte ai civili, hanno causato massicci spostamenti di popolazione e i discendenti di questi rifugiati ne conservano memoria. Penso anche che i balcanici coltivino un certo culto della sofferenza e che proviamo una certa gioia a tornare con la memoria sugli antichi momenti traumatici, e tutto questo poggia su una cultura della frontiera più recente.

Ha lasciato la Bulgaria agli inizi degli anni ’90 ma, leggendola, sembra che la regione abbia continuato ad accompagnarla…

Certo. Come diceva Agnès Varda indossiamo tutti dei paesaggi, che non sono per forza edenici. Per quanto mi riguarda sono le montagne della Bulgaria e la costa del mar Nero. Non è un’identità politica, ma un’identità legata alla geografia.

Cosa si aspettava dalle sue esplorazioni della Standja, dei Rodopi e della Tracia?

Tutti i veri viaggi ti trasformano. Io cerco sempre di ascoltare, di mettermi a disposizione dei miei interlocutori, di assorbire l’energia dei luoghi dove sosto. Molte domande trovano la loro risposta nell’esperienza, l’esperienza porta alla verità umana e non la didattica o le questioni accademiche. Molti libri sono stati scritti sulle frontiere ma in pochi hanno realmente sperimentato questi luoghi ambigui.

I territori da lei raccontati erano in passato attraversati da filo spinato e torrette di guardia. Dalla fine della guerra fredda le frontiere sono molto più porose ma ciononostante le comunità che vivono in queste zone non sembrano stare meglio. Si sente ovunque un senso di nostalgia…

Credo che la tristezza sia inevitabile nel mondo dove viviamo. Abbiamo già perso molto e le risorse naturali di assottigliano. Un giorno, una donna, in Albania, mi ha detto: “Sotto Enver Hoxha eravamo poveri e divisi dai nostri vicini che stavano sull’altro lato della frontiera. Oggi continuiamo ad essere poveri e siamo ancora separati dai nostri vicini, che sono emigrati”. Un fenomeno, quello dell’emigrazione, riscontrabile non solo nelle campagne e nelle zone più remote ma anche nelle grandi città della regione.

Sarebbe stato possibile scrivere questo libro tra vent’anni, dato che la memoria e le leggende sembra non si trasmettano più dato che manca la gente sul posto affinché ciò avvenga?

Tutto è possibile. Si diceva sicuramente la stesa cosa vent’anni fa. Le cose e le persone spariscono, ma lo spirito resta. Chi lo sa, magari queste zone verranno ripopolate da europei dell’ovest in cerca di aree dove ricaricarsi, per stare più vicini alla natura… Il problema è che in queste zone le risorse naturali vengono saccheggiate da organizzazioni criminali. Si costruiscono ovunque nuove strade, nuove miniere, si toglie la sabbia dalle spiagge e si tagliano le foreste, e questo di solito in modo illegale.

Queste aree di confine sono state a lungo protette in quanto vi era negato l’accesso ed erano controllate dagli eserciti bulgaro, greco e turco. Da parte turca, rispetto all’attuale saccheggio, c’è resistenza dei cittadini, un po’ meno da parte bulgara, anche se la mobilitazione contro l’espansione della stazione sciistica di Bansko ha avuto una certa risonanza internazionale. La regione di Strandja, d’altro canto, sfugge a ogni controllo grazie al suo isolamento. Nessuno sa come sarà la situazione tra 20 anni, ma il potere rigenerativo della natura non dovrebbe essere sottovalutato. È stato sicuramente un buon momento per scrivere questo libro.

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