Bulgaria e sicurezza: tra Usa, Nato ed Ue
La Bulgaria rinnova il suo impegno in Iraq e Afghanistan, senza riuscire a definire una strategia complessiva di sicurezza. La società civile, intanto, sembra disinteressata, e preoccupata più dei costi economici delle missioni che di quelli politici e civili
Nuove missioni
Nel giro di poche settimane la Bulgaria ha deciso di prolungare la propria presenza militare in due delle regioni più travagliate del pianeta. Il 21 febbraio scorso il parlamento di Sofia ha votato con una maggioranza schiacciante (146 sì di maggioranza e opposizione, e il voto negativo del solo movimento Ataka e di pochi dissidenti) l’invio di 155 tra soldati e personale di supporto in Iraq, che avranno il delicato compito di sorvegliare il campo profughi di Ashraf, riconfermando così, sotto forma di "missione umanitaria" la presenza nella "coalizione dei volenterosi" a fianco degli Stati Uniti nel paese.
Nella prima metà di marzo, inoltre, il governo ha deciso di aumentare di 335 unità il numero dei soldati attualmente impegnati in Afghanistan (attualmente circa 80), rispondendo così alle richieste della Nato di un maggiore impegno nella missione ISAF, considerata da molti di cruciale importanza non soltanto per il futuro del paese, ma anche per quello della stessa Alleanza atlantica. Le truppe dovrebbero essere dislocate a Kabul e a Kandahar, località ritenuta particolarmente rischiosa in caso della prevista offensiva primaverile dei talebani, dove avrebbero il compito di curare la sicurezza all’interno dell’aereoporto, rimpiazzando le truppe rumene che se ne occupano al momento.
I due provvedimenti potrebbero sembrare parte di una stessa strategia, ma lasciano intravedere un problema di fondo.
A tutt’oggi, nonostante il fatto che siano passati più di quindici anni dal crollo del regime comunista,e che la Bulgaria sia entrata a pieno titolo nel cosiddetto "blocco occidentale", la classe politica locale non è riuscita a individuare una visione complessiva della propria politica di sicurezza e oscilla, spesso rispondendo in modo disorganico ai momenti di crisi che vengono a crearsi di volta in volta, tra una stretta collaborazione bilaterale con gli Stati Uniti e un’azione legata invece agli impegni nell’ambito, più ampio, degli interventi Nato.
Sullo sfondo rimane la terza opzione, quella cioè di contribuire al tentativo di creare una politica di sicurezza europea, giudicata al momento poco più che un’ipotesi di lavoro, vista l’ormai cronica incapacità dell’Unione Europea di assumere una politica unitaria in questo campo. Ma soprattutto, sullo sfondo, rimane la società civile bulgara, che sembra aver rinunciato ad influenzare direttamente le decisioni prese dai propri governanti quando si tratta di spedire l’esercito in missioni oltre confine.
Riformare un dinosauro: tra Bruxelles e Washington
Il crollo del blocco sovietico, e della sua espressione militare, il Patto di Varsavia, ha significato per la Bulgaria ereditare un vero e proprio dinosauro, un esercito sovradimensionato, che contava circa130mila effettivi. "Grazie ad un’indagine durata due mesi, poco dopo la fine del regime, ci accorgemmo che per mantenere un esercito di quel tipo non sarebbe stato sufficiente l’intero budget dello stato" racconta il professor Dimitar Ionchev, ex presidente della commissione parlamentare sulla sicurezza e oggi professore di geopolitica alla "Nov Balgarski Universitet" di Sofia.
La riforma del settore ha portato prima alla riduzione dell’organico, che oggi conta circa 44mila unità, e poi alla professionalizzazione dell’esercito, processo che al momento è in fase di realizzazione. Il primo passo per riformare l’esercito è, naturalmente, stabilire a che cosa serva, cioè a quale tipo di impegni debba essere pronto a rispondere, anche considerato il limite delle risorse a disposizione. Il dibattito politico, però, non ha portato in questi anni ad una visione condivisa.
Se da una parte veniva supportato l’ingresso nelle strutture della Nato (idea che, inizialmente, riscontrava molti dubbi da parte del Partito Socialista Bulgaro) inteso come "scelta di civiltà", ingresso avvenuto poi ufficialmente nel 2004, dall’altra alcuni settori della classe dirigente hanno puntato invece soprattutto su una stretta collaborazione con la superpotenza americana. Questo atteggiamento ha portato la Bulgaria prima a sottoscrivere la dichiarazione del "Gruppo di Vilnius" in appoggio all’intervento americano in Iraq, e poi ad inviare truppe nel paese all’interno della "coalizione dei volenterosi". Il contingente bulgaro, stanziato a Kerbala, è stato poi ritirato a fine 2005 dopo aver subito tredici vittime militari (oltre alle sei civili).
Un ulteriore passo verso il rafforzamento dei rapporti con gli Usa è stato segnato dal Defense Cooperation Agreement, firmato nel 2006 tra Sofia e Washington, che prevede l’utilizzo di quattro basi sul suolo bulgaro da parte dell’esercito americano, basi da cui, secondo indiscrezioni giornalistiche apparse recentemente in Gran Bretagna, potrebbero partire attacchi diretti all’Iran nel caso dello scoppio di un conflitto. L’arrivo delle prime truppe americane è previsto per il prossimo autunno, e il loro numero complessivo dovrebbe aggirarsi sulle 2500 unità.
La sindrome del "Grande Fratello"
La volontà d rispondere ai desideri americani, se da una parte risponde alla limitata libertà di manovra di un paese piccolo e relativamente povero come la Bulgaria, dall’altra mette in luce riflessi di una mentalità dalle radici profonde.
"In Bulgaria esiste una forte sindrome da "Grande Fratello", che nel corso dei secoli ha legato il paese a Istambul, a Mosca, a Berlino, ancora a Mosca e quindi a Washington", dice ancora il professor Ionchev. "Questa sindrome, oltre ad avere conseguenze sul piano internazionale, ha diviso la società bulgara in due strati profondamente divisi. Il primo è formato dall’elité politica, che funge da intermediario con la potenza lontana e che, anche in base a questa funzione, esercita il potere. Ai tempi dell’impero ottomano questa elité era formata dai cosiddetti "chorbadzhii", durante il regime comunista dalla nomenclatura. Il resto della popolazione, invece, non ha voce, è tagliata fuori dai processi decisionali".
Le decisioni, che rispondo innanzitutto ai bisogni di questa elité, vengono poi fatte passare per priorità nazionali. "Se vogliamo sicurezza, dobbiamo essere pronti a fornire sicurezza", ha dichiarato il ministro degli Esteri Ivaylo Kalfin per giustificare l’invio di nuove truppe bulgare in Iraq. Quanto quest’intervento contribuisca ad aumentare il grado di sicurezza per la Bulgaria, però, è una questione che rimane controversa.
Lo stesso atteggiamento da "signorsì", in realtà, sembra essere presente anche nei confronti degli impegni con la Nato. Agli alleati socialisti che insistevano nel legare l’invio di nuove truppe in Afghanistan all’acquisto di macchine blindate, che potessero aumentare il grado di sicurezza dei militari in missione, il ministro della difesa Veselin Bliznakov (del partito di Simeon Sakkskoburggotski, l’NDSV) ha fatto capire che la decisione ha a che fare con il rispetto degli impegni presi in campo internazionale, più che con la definizione di una strategia o dottrina sul medio-lungo periodo.
Insieme alla pesante eredità storica, la frustrazione di percepire il proprio impegno come privo di qualsiasi influenza reale ha allontanato sempre di più la società civile dal dibattito sulle scelte da effettuare nel campo della sicurezza. Le proteste contro l’intervento in Iraq sono un ricordo sbiadito, e nel 2006 il governo è riuscito, senza suscitare particolari malumori, a far passare una legge per cui la decisione di inviare truppe all’interno di missioni Nato, come quella in Afghanistan, non è soggetta ad approvazione da parte del parlamento.
L’unica preoccupazione che sembra esprimere la società nel suo complesso è quella relativa ai costi di tali operazioni. La sola operazione in Afghanistan avrà un costo di 45-50 milioni di leva (22-25 milioni di euro), quella in Iraq 8,5 milioni di leva (4 milioni di euro). Questo in un paese in cui, ormai da mesi, i pensionati protestano ogni settimana per avere un aumento, seppur minimo, delle loro spesso misere pensioni.