Brezza primaverile all’Università di Sarajevo
Lunedì 23 aprile alcuni studenti si sono riuniti nell’atrio della Facoltà di Filosofia dell’Università di Sarajevo per manifestare contro la censura e le discriminazioni nei luoghi di studio. All’origine del gesto l’aggressione subita da tre di loro per aver criticato un questionario rivolto ai donatori di sangue che discriminava le persone omosessuali. La cronaca
Giovedì 19 aprile il Dipartimento per le trasfusioni della Bosnia Erzegovina (BiH) ha organizzato una campagna di raccolta sangue presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Sarajevo. Ai donatori è stato distribuito un formulario che sotto la frase “Persone che non devono donare il sangue” riportava un breve elenco: “Persone che occasionalmente o regolarmente consumano droghe; persone che si occupano di prostituzione; persone che hanno contatti sessuali, occasionali o abituali, con omosessuali; persone che cambiano spesso partner sessuale senza protezione; persone HIV positive o che hanno avuto rapporti sessuali con persone HIV positive”.
Una studentessa del terzo anno di Letteratura comparata e bibliotecaria, Lamija Topčagić, sentendosi discriminata dal terzo punto, ha deciso di chiedere spiegazioni in merito. A Lamija si sono uniti altri due studenti, Amar Numanović e Nedžmina Šeta. I tre hanno tentato di interloquire con il rettore, ma non sono stati ricevuti. Dal rettorato non hanno ottenuto altra risposta se non che il tema non è di competenza della Facoltà, fatta arrivare loro tramite una docente. I ragazzi hanno dunque deciso di porre il problema agli altri studenti in fila per donare il sangue, chiedendo loro di non firmare il formulario se non si sentivano d’accordo con il contenuto, o di firmare dopo aver sbarrato il passaggio discriminatorio in modo da dichiarare in qualche modo la propria contrarietà.
“Le risposte – racconta Amar Numanović – sono state diverse. Qualcuno è rimasto indifferente, altri hanno riconosciuto che effettivamente il passaggio risulta discriminatorio.”
Ciò che i ragazzi proprio non si aspettavano è stata la reazione di uno degli operatori del Dipartimento per le Trasfusioni, che prima ha tentato di cacciarli a male parole poi, di fronte alla loro tranquilla risposta, che discutere pubblicamente di una questione pubblica è un diritto di tutti, a maggior ragione degli studenti all’interno della propria Facoltà, si è fatto sempre più aggressivo, tanto che un collega è intervenuto a trattenerlo nel momento in cui ha attaccato fisicamente Amar.
A quel punto un’operatrice della biblioteca della Facoltà ha minacciato i tre studenti di chiamare la polizia poi, rivolgendosi a Lamija, che tentava di spiegarle come si stesse semplicemente battendo per un proprio diritto, ha chiesto: ”Quali sono i tuoi diritti? Che sei drogata e non puoi dare il sangue?”.
La ragazza ha risposto di non fare uso di sostanze, ma di essere lesbica e di trovare discriminatorio un passaggio del formulario. A questo punto l’impiegata è esplosa in un “se fossi mia figlia ti ucciderei sul posto”, raggelandola. Ha poi minacciato gli studenti di “aspettarli fuori dalla Facoltà”.
Le prime reazioni
I tre studenti, preoccupati per la propria incolumità, hanno sporto denuncia presso la vicina stazione di polizia per violazione della legge che in BiH vieta la discriminazione diretta o indiretta sulla base del genere/orientamento sessuale, incontrando, come tengono a precisare, “inaspettata apertura”.
Decisi a non tacere, Lamija, Amar e Nedžmina si sono poi rivolti ai media, esponendosi personalmente, con nomi e cognomi, perché “stufi del gioco delle iniziali e degli pseudonimi dietro cui chiunque è in grado di nascondersi”.
Già nella serata di giovedì un comunicato è stato pubblicato sul portale di oKvir . Venerdì un’intervista ai tre studenti è stata pubblicata sul sito diskriminacija.ba. Anche il portale di Radio Sarajevo ha ripreso la notizia per seguirne accuratamente ogni evoluzione nei giorni successivi. Nessun interessamento, in prima battuta, da parte degli altri media.
Un intenso dibattito si è sviluppato in rete. Dalla pagine di depo.ba un anonimo giornalista, nell’articolo dal titolo Quello che gli studenti “discriminati” non sapevano, ha tentato di etichettare gli autori del gesto come un gruppo di attivisti omosessuali disinformati, citando una statistica che riguarda gli Stati Uniti (senza indicare l’anno) insinuando poi che gli stessi attivisti temano il confronto pubblico sui dati medici che li riguardano. Lamija, Amar e Nedžmina hanno reagito pacatamente anche a questo attacco, con una risposta circostanziata e precisa affidata alla pagina web di Radio Sarajevo. Innanzi tutto hanno smentito di essere tutti membri della comunità LGBTIQ, ribadendo che solo una di loro si è dichiarata in questo modo.
La precisazione, ben lungi da una smarcatura, è stata essenziale per porre l’attenzione sul punto cruciale della vicenda, cioè la reale libertà che i singoli cittadini, non inquadrati in categorie di nazionalità e/o appartenenza, abbiano nell’esprimere le proprie opinioni e rivendicare i propri diritti. Confutare l’accusa di essere disinformati è stato molto più semplice, è bastato loro citare una statistica riguardante la BiH, cogliendo l’occasione per affermare come qualunque dibattito riguardante il Paese possa e più spesso dovrebbe essere basato su un’analisi della situazione interna, e non rifarsi astrattamente allo stato delle cose in altri Paesi, considerati aprioristicamente più meritori, dunque da imitare.
Solidarietà è giunta, in forma scritta e firmata, da due docenti della Facoltà. Sostegno anche da altri studenti, non solo di filosofia, molti dei quali, come racconta Amar “hanno fatto sapere, di persona, via mail e sms, di condividere il gesto ma di non avere lo stesso coraggio di esporsi in situazioni analoghe”. Silenzio dalle alte cariche dell’università che, a diversi giorni dall’incidente, ancora non hanno preso posizione, né si sono pronunciate in merito.
Mezz’ora di silenzio per rompere la censura
I ragazzi hanno deciso di uscire nuovamente allo scoperto, invitando “le persone che si considerano libere di pensiero a prendere parte a un raduno nell’atrio della Facoltà di Filosofia il 23 aprile”, con lo scopo di attrarre l’attenzione sul divieto di espressione nei luoghi di istruzione superiore.
Alle 11 di lunedì è iniziata la distribuzione di foglietti bianchi con la scritta “Facoltà di Filosofia” da attaccare sulla bocca in segno di contrarietà al silenzio e alla censura. Lentamente, con crescente fiducia, l’atrio si è riempito di ragazze e ragazzi, studenti di filosofia e di altre facoltà, qualche attivista di associazioni LGBTIQ e non, semplici cittadini, due studentesse col velo, rapidamente a loro agio nella piccola folla di individualità che si sono trovate fianco a fianco.
I pochi giornalisti presenti hanno a loro volta dovuto contestare il divieto, posto da un usciere, di effettuare riprese e fotografie all’interno dei locali dell’Università. “E’ luogo pubblico, non serve nessuna autorizzazione, se ci sono problemi chiami il rettore”, poche parole e nessuno ha più fatto cenno a restrizioni. L’unica giornalista televisiva presente sbotta raccontando come abbia già dovuto litigare col suo capo per seguire la vicenda.
Dalle 11.30 alle 12.00 il silenzio di circa cento persone, in piedi, verso il corridoio che porta alla biblioteca e le scale che conducono all’ufficio del rettore. Il flusso di studenti in ingresso e uscita dalla facoltà non è stato interrotto, ma è rallentato sensibilmente. Chi non ha preso parte ha osservato, qualcuno ha posto domande. Pochi commenti, nessuna particolare provocazione da chi, ancora una volta, è rimasto indifferente.
I commenti a caldo
Il silenzio è stato rotto da due docenti di Filosofia che, accolti da un applauso, hanno solidarizzato apertamente. Gli altri professori sarebbero invece stati trattenuti da un consiglio di Facoltà convocato in contemporanea alla protesta. Il rappresentante dell’associazione degli studenti di Filosofia, intervistato, non ha saputo dire molto, se non di essere stato colto di sorpresa dai fatti. Lamija, Amar e Nedžmina hanno ritenuto di intervenire a loro volta, per raccontare anche alla televisione come si sono svolti i fatti e quale sia il punto centrale della questione. Alla fine, il lungo applauso dei presenti è stato tutto per loro.
Al termine della mattinata gli studenti si sono dichiarati soddisfatti, “per quella che è la situazione in BiH i numeri sono incoraggianti, ci aspettavamo meno persone”. Sanno che è difficile avviare un dibattito concreto e porre questioni scomode al di fuori di campagne e forme di espressione istituzionalizzate. Il rischio di manipolazione è alto, i media possono essere degli ottimi alleati come dei temibili nemici. Loro vogliono poter contare prima di tutto come individui, senza per forza dover rientrare in qualche categoria. Non si fermeranno e, da lunedì, sanno di non essere soli.