Bosnia: trent’anni fa, la guerra

Sono passati trent’anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo. E con esso, una guerra durata quattro anni che, come scrive Azra Nuhefendić, nessuno tra i cittadini si aspettava, ma che in realtà era stata programmata per dividere il paese

05/04/2022, Azra Nuhefendić -

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Sarajevo, 1993 - © Northfoto/Shutterstock

Noi a Sarajevo andammo a dormire con la pace e il giorno dopo ci svegliammo con la guerra.

Così, 30 anni fa, la notte tra il 5 e il 6 aprile 1992 cominciò la guerra in Bosnia Erzegovina (BiH).

Il giorno prima l’allora presidente bosniaco Alija Izetbegović ci aveva detto: “State tranquilli, per la guerra bisogna essere in due a volerla. E noi non la vogliamo”.  

Ma poi, cominciarono a colpirci con le granate, a entrare nelle nostre case per ucciderci, per cacciarci e derubarci, per stuprarci, ci chiudevano l’acqua, ci privavano del cibo, ci lasciavano al freddo staccando il gas e l’elettricità, i cecchini ci freddavano per strada, ci rinchiudevano nei campi di concentramento. Allora capimmo che quella era la nostra guerra e che noi, gente comune e pacifica, eravamo i bersagli principali e le vittime più numerose.

La guerra in BiH non è stata fatta perché nei Balcani “c’era gente bellicosa”, né perché ci vivevano “tribù che si odiavano e uccidevano da sempre”, il mantra che spesso e volentieri ripetevano i politici e i mediatori stranieri.

La nostra guerra era stata ben pianificata dagli aggressori, preparata ed eseguita secondo gli accordi dell’allora presidente della Croazia Franjo Tuđman e del presidente della Serbia Slobodan Milošević.

Dopo la disgregazione della Jugoslavia avevano intenzione di dividere la BiH e annettersi le sue parti per costruire la grande Serbia e la grande Croazia.

Per quattro anni l’Europa ha esitato, ci diceva che “era complicato capire quello che stava succedendo” e tutte le proposte per la pace partivano dalla divisione del paese; gli aggressori e le vittime erano trattati alla pari, come “parti coinvolte”.

Ci avevano imposto l’embargo alle importazioni di armi e così, disarmati, combattevamo contro l’Armata Popolare Jugoslava (JNA), un tempo la quarta potenza militare in Europa; facevano finta di non sapere dell’esistenza dei campi di concentramento, e una volta “scoperti” ne rimandavano la chiusura perché anche allora i paesi dell’UE non riuscivano mettersi d’accordo sui profughi bosniaci, chi avrebbe dovuto accoglierli e in che numero, e nel frattempo la gente continuava a essere torturata e uccisa; non ci credevano quando, già nel novembre del 1992, offrivamo le testimonianze delle violenze sessuali di massa; non ci sentivano quando urlavamo che a Srebrenica era stato commesso un genocidio.

Dopo quasi quattro anni di combattimenti, più di centomila morti, il genocidio di Srebrenica, due milioni di profughi, cioè la metà della popolazione prima della guerra, l’intero paese in macerie e la pulizia etnica, la guerra venne conclusa dagli Accordi di pace di Dayton nel 1995.

E qui la prima lezione della guerra in BiH: tutte le guerre finiscono con le trattative.

Il 6 aprile 1992, giorno in cui Sarajevo, la capitale di un paese europeo riconosciuto e indipendente, fu messa sotto assedio, è la data ufficiale dell’inizio della guerra in BiH.

Ma l’aggressione da parte della Serbia e della ex JNA era cominciata già nei primi mesi del 1992, quando tutta la parte orientale della BiH, lungo la sponda sinistra del fiume Drina che ci separa dalla Serbia, fu attaccata, occupata e ripulita dai non serbi.

Città e villaggi furono attaccati con un piano preciso che si ripeteva sistematicamente in ogni luogo: prima venivano bombardati con l’artiglieria pesante, poi entravano in azione i paramilitari che ripulivano il suolo dai non serbi uccidendo i civili, o portandoli nei campi di concentramento, stupravano in massa le donne e le ragazze, caricavano i sopravvissuti nei camion e sui treni e li trasportavano, attraverso la Serbia, al confine con l’Ungheria e da là venivano espulsi oltre il confine per non tornare mai più.

All’epoca queste informazioni ci arrivavano tardi e tramite gli stranieri, oppure ce le raccontavano i rari sopravvissuti che erano riusciti a scappare e a raggiungere Sarajevo.

Nei primi mesi dell’aggressione, infatti, furono distrutti o occupati tutti i trasmettitori radio-televisivi, tranne uno vicino a Sarajevo. Lo scopo era preciso: mandare in onda solo le notizie e “la verità” dell’aggressore.

E qui la seconda lezione della guerra in BiH: il ruolo criminale dei media al servizio dei nazionalisti per preparare la guerra in anticipo.

Ancora prima che cominciasse la guerra, i media e i giornalisti diffondevano e propagandavano l’odio, incitavano la gente a guardare al prossimo come nemico, convincevano le persone della necessità della guerra e dell’impossibilità di una convivenza pacifica, dell’inevitabilità di un conflitto armato, avevano lanciato lo slogan “la guerra per la pace”, glorificavano la guerra con il falso pretesto di difendere “la bandiera, la patria, l’identità”.

Con gli Accordi di pace di Dayton nel 1995 si è fermata la macchina di morte, e quello è stato un risultato storico.

Ma il paese così come è stato disegnato a Dayton non va avanti. La divisione tra la gente in BiH è più profonda oggi rispetto alla fine della guerra.

La colpa non è solo di quel contratto per la pace che impedisce e ostacola la vita politica più che facilitarla.  No, non è quello il principale ostacolo. Lo sono i partiti nazionalisti, gli stessi che avevano preparato e provocato la guerra. Quei partiti sono rimasti al potere e stanno cercano di realizzare, attraverso politiche nazionaliste, gli obiettivi della guerra: la divisione del paese.

In questo sono sostenuti dai paesi vicini: la Serbia e la Croazia che, come documentato presso il Tribunale dell’Aia, sono responsabili dell’aggressione in BiH dal 1992 al 1995.

La Russia da anni, apertamente, sostiene la Serbia e i serbo-bosniaci nella loro politica di divisione della BiH.

In questo processo distruttivo anche l’Unione europea non è del tutto innocente. Per anni con il suo non fare, e ultimamente con il rifiuto di imporre sanzioni al leader dei serbo-bosniaci Milorad Dodik per la sua politica e azioni anti costituzionali.

E ancora l’UE, cedendo alle pressioni dei paesi membri come Croazia, Ungheria e Slovenia, e per conto del partito nazionalista dei croato-bosniaci HDZ (L’Unione Democratica Croata di Bosnia), insiste sulle modifiche della costituzione, il che porterà sicuramente a un’ulteriore divisione della Bosnia Erzegovina.  

Oggi molti temono che la guerra in Ucraina possa riattivare lo scontro armato in BiH. Poco probabile, per due motivi: là non ci sono più armi necessarie per fare la guerra, ma soprattutto non ci sono le persone pronte a sacrificare, ancora una volta, la vita per la patria, per la bandiera, per l’identità.

E qui ancora una lezione dalla guerra in BiH: al primo sparo bisogna scappare, perché quelli che eroicamente combattevano trenta anni fa non ci sono più, oppure da invalidi sono dimenticati e abbandonati e vivono in miseria.

I leader dei maggiori partiti politici HDZ, SNSD (L’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti), SDA (Partito d’Azione Democratica), non hanno combattuto 30 anni fa con un fucile in mano.

Hanno beneficiato della guerra, sono diventati ricchi e oggi tengono la Bosnia nella stretta mortale del nazionalismo, della corruzione e del crimine.

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