Bosnia: l’agonia di Dayton
Il percorso europeo della Bosnia Erzegovina è interrotto fino a quando il Paese non adeguerà la propria Costituzione a quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Sarajevo tra diritti umani e diritti etnici, il vuoto politico e il fattore Komšić
La Bosnia Erzegovina (BiH) ha tempo fino al 31 agosto per emendare la propria Costituzione, uniformandola a quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Finci-Sejdić. Altrimenti, ha stabilito la Commissione Europea , il percorso di integrazione del Paese nell’Unione resterà bloccato. L’ultimatum è giunto mentre la BiH sta attraversando l’ennesima crisi, di fatto senza un governo né a livello centrale né a livello della Federazione, la maggiore delle due entità che compongono il Paese. Un momento in cui, secondo l’autorevole centro studi International Crisis Group (Bosnia’s Gordian Knot: Constitutional Reform ), “il sistema di governo della Bosnia Erzegovina ha raggiunto il punto di rottura”.
Stagnazione
Le ultime elezioni in BiH si sono tenute nell’ottobre 2010. Il governo però è stato formato solo 14 mesi dopo, al termine di lunghe consultazioni tra le diverse forze politiche. L’esecutivo, guidato da Vjekoslav Bevanda, è durato solo 5 mesi, fino al maggio scorso, quando si è verificata la rottura tra Partito Socialdemocratico (SDP) e Partito di Azione Democratica (SDA), apparentemente per divergenze sulla legge di bilancio.
La crisi, dal livello statale, si è riversata su quello federale. Anche la coalizione che sosteneva il governo dell’entità, formato a seguito di un controverso intervento dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante 5 mesi dopo le elezioni, è saltata dopo il divorzio tra SDP e SDA.
I socialdemocratici hanno annunciato nuove coalizioni, con il partito SBB del magnate dei media Fahrudin Radončić e con i due partiti croato bosniaci HDZ e HDZ 1990. Non è ancora chiaro però se riusciranno a governare a livello statale o della Federazione, dove le procedure per il rimpasto governativo si stanno dimostrando complesse anche per la scontata opposizione del Partito di Azione Democratica.
La situazione è di stallo, con il Paese di fatto senza guida in una fase di delicate, e necessarie, riforme istituzionali.
Dayton o Strasburgo
La Costituzione della Bosnia di Dayton e la Convenzione Europea per i Diritti Umani e le Libertà Fondamentali, di cui la Bosnia Erzegovina è firmataria, sono incompatibili. I giudici di Strasburgo lo hanno stabilito nel 2009, rispondendo ad un ricorso presentato da un rappresentante della comunità ebraica bosniaca, Jakob Finci, e da un esponente dei rom bosniaci, Dervo Sejdić. Riservare alcune funzioni pubbliche a rappresentanti di determinate etnie, escludendone altri, come prevede la Costituzione redatta a Dayton, viola la Convenzione Europea. La Costituzione va dunque cambiata e ora, dopo quasi 3 anni di discussioni inconcludenti, la Commissione Europea ha stabilito un termine.
Le principali forze politiche bosniache sembrano orientate a modifiche “cosmetiche”, che permettano di accogliere la decisione della Corte mantenendo l’impianto di Dayton. Il problema, però, non riguarda solamente le due istituzioni finite sotto la lente dei giudici europei, cioè l’ufficio di presidenza (riservato a un serbo, un croato e un bosgnacco) e la Camera dei Popoli (formata da 5 rappresentanti dei 3 “popoli costitutivi”).
In Bosnia Erzegovina esiste tutto un sistema di quote etniche che, formalmente e informalmente, riguardano non solo il settore pubblico ma anche quello privato, almeno per le aziende nelle quali lo Stato detiene una qualche forma di partecipazione. Recentemente, inoltre, un cittadino bosgnacco residente in Republika Srpska, Ilijaz Pilav, ha presentato un ulteriore ricorso alla Corte Europea chiedendo perché, pur facendo parte di uno dei tre “popoli costitutivi”, non potesse candidarsi alla presidenza del Paese (1).
L’intero assetto, fondato sull’orientamento “razzista” prevalso al tavolo di pace di Dayton, mostra da tempo le proprie crepe. Già nel 2005 la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa aveva parlato di “indispensabilità della riforma costituzionale”. Dopo le bordate dei giudici di Strasburgo, ora è lo stesso percorso europeo ad essere messo in discussione. Toccare il sistema di Dayton, però, equivale ad aprire un vaso di Pandora.
Diritti etnici o umani
A Dayton è stata adottata una definizione chiusa di identità. Un cittadino può essere solo serbo, croato, bosgnacco o “altro”, la categoria residuale che comprende tutte le minoranze. Se è problematico in generale accogliere una concezione talmente esclusiva di identità, questo lo è ancora di più per la Bosnia Erzegovina, Paese con una lunga tradizione di matrimoni misti e conseguentemente di identità multiple. Inoltre, molte persone in Bosnia rifiutano una qualsivoglia etichetta etnica e preferiscono essere considerati semplicemente come cittadini bosniaci (opzione civica), senza ulteriori specificazioni. Anche questi, i bosniaci, oggi in Bosnia Erzegovina sono paradossalmente una minoranza e fanno parte degli “altri”.
La scelta posta dai giudici di Strasburgo, in altre parole, è quella tra democrazia e democrazia etnica. Non è una questione di poco conto, e saggiamente ICG – che rileva tutte queste contraddizioni – suggerisce alla Commissione di ammorbidire le scadenze, facendo diventare il progetto di riforma della Costituzione parte del processo di adesione all’Unione, e non precondizione per l’adesione stessa. Il rischio è infatti di trovarsi con soluzioni affrettate, peggiorative della situazione attuale.
La variabile Komšić
Il 23 luglio scorso Željko Komšić, rappresentante croato nella presidenza del Paese e vice presidente dei socialdemocratici, ha lasciato il partito. Komšić sarebbe in disaccordo con l’alleanza tra SDP e HDZ e con il tipo di modifiche costituzionali da introdurre per applicare la sentenza di Strasburgo.
Komšić è un politico estremamente popolare in Federazione. Croato, ma di Sarajevo, decorato come eroe di guerra nell’Armija bosniaca, è noto per le sue posizioni chiaramente orientate a favore di una declinazione civica, e non etnica, dei diritti. Alle elezioni del 2010 ha raccolto più voti del suo partito, 337.065, oltre il 60% del totale. I media locali hanno fatto le ipotesi più diverse, cercando di capire se Komšić avrebbe dato vita ad una nuova formazione politica oppure si sarebbe unito ad un partito già esistente. I dubbi sono stati sciolti dal settimanale Slobodna Bosna, in edicola ieri, secondo cui Komšić darà vita ad un nuovo partito che si chiamerà “Partito dei Cittadini”, Građanska stranka. Secondo le indiscrezioni raccolte da Slobodna Bosna, nel nuovo partito ci saranno anche diversi (ex) funzionari dell’SDP, inclusi alcuni (ex) stretti collaboratori di Zlatko Lagumdžija come Emir Suljagić e Reuf Bajrović.
Unione di minoranze
La Bosnia Erzegovina, come l’Unione Europea secondo la felice definizione di Romano Prodi , è una “unione di minoranze”. Un forte governo centrale, votato con la semplice regola della maggioranza, sarebbe inviso a serbi e croati, le minoranze numericamente più esigue. Al tempo stesso, non è possibile continuare ad imporre al Paese il sistema razzista elaborato a Dayton dai nazionalisti. Il Partito dei Cittadini, sotto questo profilo, rappresenta una speranza per il futuro.
Il problema, però, non riguarda solo la Bosnia, riguarda l’Europa. È possibile sviluppare un sistema democratico, necessariamente federale, che possa tutelare insieme i cittadini e le diverse comunità che compongono un’unione? Se non è possibile, cos’è l’Europa?
(1) Il rappresentante della presidenza eletto in RS deve essere serbo. Sul caso Pilav v. International Crisis Group, Bosnia’s Gordian Knot: Constitutional Reform, Europe Briefing N°68, 12 lug 2012, pag. 15