Bosnia Erzegovina: un’altra storia, o forse no
Un ritorno a Prijedor, nord della Bosnia Erzegovina, sei anni dopo l’ultima volta. E 19 anni dopo quel marzo del 1996, con la città segnata dalla pulizia etnica. Lo sguardo reciproco che la distanza propone
Ritorno a Prijedor dopo sei anni di assenza. Non nascondo l’emozione di essere di nuovo qui, in questa città un tempo “maledetta” per l’ingorgo che la travolse negli anni ’90.
Sarà per la stagione ancora fangosa, per la pioggia che spesso mi accompagna in questo luogo o, ancora, per il degrado che segna gran parte dell’ambiente circostante… ma ho l’impressione che con quell’ingorgo ancora questa città debba fare i conti.
Sì, certo. Molte cose sono cambiate da quel marzo 1996 quando per la prima volta nella mia vita la guerra e i suoi effetti si materializzavano intorno a me attraverso le macerie annerite dal fuoco, l’odore rancido che non ti levavi di dosso, la polvere che ti entrava nelle viscere, lo sguardo vuoto di chi incrociavi per strada.
Se una persona si trovasse ora per caso a passare di qui, in una delle strade del centro o della città vecchia ricostruita dopo essere stata rasa al suolo per la storia che rappresentava, probabilmente farebbe fatica ad immaginarsi nel luogo dove riapparvero dopo mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale i campi di concentramento e lo spettro della pulizia etnica.
Tutto qui è terribilmente normale. Lo sono le banche dai loghi conosciuti, i negozi con il loro portato di plastica e di omologazione, i botteghini con l’insegna “compro oro”, le sale del gioco d’azzardo o del bingo, l’infinità di farmacie che ti spieghi solo con il vuoto del sistema sanitario, i centri commerciali che incontri nelle periferie… Così normale da chiedersi quali anticorpi avremmo avuto in Italia nei luoghi dello spaesamento nostrano.
Tutto questo ci racconta del tratto saliente di questo infinito dopoguerra, nell’accentuarsi dei fenomeni che nei nostri contesti ci appaiono ancora incerti o sfumati, confermando i Balcani come una sfera di cristallo sulla postmodernità. Penso alla deregolazione, al turbocapitalismo, alla criminalità organizzata, alla corruzione… o, per altro verso, all’esclusione di chi non sa adeguarsi, all’andarsene dei giovani che non trovano margini di speranza verso il futuro, all’imbarbarimento delle relazioni sociali, all’irresponsabilità di classi dirigenti che tengono alta la tensione nazionale per rimanere al potere. Tanto da riuscire ancora ad inverare l’inganno, nella totale assenza di elaborazione di quel che è accaduto nell’ingorgo seguito alla fine del comunismo.
Mi chiedo che cosa ne sia della primavera politica che lo scorso anno, partendo da Tuzla, attraversò l’intero paese. Da queste parti, per la verità, era stata ben poca cosa, così forti erano e sono ancora le rappresentazioni “etniche” e la distanza con cui i cittadini guardano alla politica. Eppure migliaia di persone, soprattutto giovani e lavoratori dei centri urbani, mettendo da parte ogni riferimento identitario tradizionale, avevano ripreso la parola, si erano organizzati attraverso i forum civici (interessante notare come era stata proprio questa la forma che dieci anni fa cercammo di dare a Prijedor al percorso di elaborazione del conflitto), istituzioni parallele di un cambiamento che si voleva nonviolento.
Si trattò, in verità, di una stagione molto breve, metaforicamente spazzata via dalla tragica inondazione che aveva di nuovo messo in ginocchio questo martoriato paese e della quale – ad un anno di distanza – vedi ancora tracce vistose anche qui, nelle prossimità di fiumi di nuovo rigonfi d’acqua. E, ciò nonostante, una stagione della quale l’establishment politico (non estraneo ai vecchi apparati di controllo sociale) sembra avere ancora paura, se è vero che bastano anche solo qualche decina di persone in piazza per far scattare minacce e ritorsioni.
Non fosse per la tenuta dei vincoli familiari, laddove precarietà sociale e assenza di welfare trovano compensazione nelle reti lunghe di mutuo aiuto (dalle rimesse alle vie di fuga), la situazione sarebbe ampiamente insostenibile per la stragrande maggioranza delle persone.
Eppure, l’impressione è di essere di fronte ad una società anestetizzata. Anche nell’immaginario degli amici che incontro non emerge un progetto di cambiamento sociale o politico collettivo, come se ciascuno fosse nella propria solitudine in balia di questa situazione, sospesa fra post-modernità ed ingorghi della storia mai elaborati, dalla quale si esce solo per un progetto di vita individuale magari a qualche migliaio di chilometri di distanza.
La cooperazione internazionale o, meglio, quel che ne rimane, da parte sua, si guarda bene dall’immaginarsi come stimolo per la crescita di opportunità partecipative e ancor meno di una nuova classe dirigente, più attenta a curarsi dei partenariati funzionali alla propria sopravvivenza che dei processi di cambiamento. Che nessuno (o quasi) immagina se non appunto come progetto individuale.
All’encefalogramma piatto corrisponde ancora l’arma dell’ironia. Nella Galleria d’arte contemporanea (che immaginammo nel 1998 contro schiere di benpensanti afflitti dalla “banalità del bene”) una mostra di satira contro le derive nazionalistiche – che qui può trovare cittadinanza solo perché proveniente da Belgrado – testimonia che sotto l’apatia qualcosa di interessante ancora vive. Che la cultura rappresenti una forma di resistenza non l’ho mai dubitato e non a caso i nuovi barbari vi si accaniscono contro. Con Annalisa Tomasi, che a questa città ha dato in termini di intelligenza e di vissuto personale molto di più di ognuno di noi, ci scambiamo uno sguardo d’intesa e di soddisfazione nel vedere questo luogo agito ed elegantemente curato.
L’ironia non basta, occorre un progetto sociale e politico: era questo, del resto, l’obiettivo che ci eravamo dati nel costruire una forte relazione fra comunità, immaginandone la reciproca utilità. Ed ora, nell’evidenziarsi delle contraddizioni e dell’insostenibilità di un sistema di potere costruito sulle macerie (e sulle fortune) della guerra, dovremmo poter misurare l’efficacia delle azioni e delle relazioni costruite nel tempo.
Quando me ne andai dal Progetto Prijedor avevo posto essenzialmente questo nodo, la ripetitività e l’inessenzialità degli aiuti umanitari da un lato e, per altro verso, l’urgenza di lavorare sulla formazione di nuove classi dirigenti. Anche su questo piano, la buona cooperazione è quella che guarda alla reciprocità. E infatti…
Troppo avanti, mi dissero. Voli pindarici rispetto alla materialità dei bisogni… Tant’è che l’obiettivo ambizioso di un progetto che mobilitava le migliori energie anche della nostra terra si è progressivamente ritratto fino a dover prendere atto che la reciprocità ha funzionato all’incontrario… qui, con i nostri stessi interlocutori che preferiscono un basso profilo, meno problematico, meno responsabilizzante, più protettivo e rassicurante. Da noi con l’evidenziarsi di una crisi della politica che non investe solo i partiti ma l’insieme dei corpi intermedi. E che preferisce a sua volta il basso profilo travestito da concretezza. E il cerchio si chiude.
Con i nostri interlocutori proviamo a tenerlo aperto, ma non è facile. Richiede incrocio di sguardi, non l’assillo della sopravvivenza.
Tornarmene qui, anche solo per pochi giorni, significa immergermi in questo tempo senza qualità e non credo sia affatto casuale che una parte della conversazione con Annalisa durante il viaggio di andata verso il cuore bosniaco dell’Europa la dedichiamo al grande romanzo del “non più” e del “non ancora”, quell’affresco sulla fine dell’impero e sull’inizio del secolo breve che è rappresentato dal capolavoro di Robert Musil “L’uomo senza qualità”.
Utilizziamo queste giornate per non chiuderlo il cerchio, per tornare a costruire relazioni virtuose se ancora ne avremo la forza. Parlando di culture materiali, di sementi e di pane, di olio e di vino, insieme agli amici del Convivium di Slow Food del Kozara e del Grmec. Di quel che si è perduto e di quello che potrebbe rinascere dal profondo di una terra. Un’altra storia, o forse no.
* Michele Nardelli è stato tra gli iniziatori del Progetto Prijedor