Bosnia Erzegovina, storia di un’agonia
Il braccio di ferro tra il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik, le istituzioni centrali della Bosnia Erzegovina e l’Alto rappresentante Christian Schmidt, nonché i ripetuti tentativi di divisione della Bosnia, stanno facendo scivolare il paese in una situazione preoccupante

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Aleksandar Trifunović, direttore del magazine Buka
(Originariamente pubblicato da Buka, il 24 aprile 2025)
Il fiasco dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (SIPA), dimostratasi incapace di attuare la decisione del tribunale anche nel proprio cortile, a Istočno Sarajevo, mentre la polizia della Republika Srpska (RS) proteggeva Milorad Dodik, è una sconfitta istituzionale, ma anche esistenziale della Bosnia Erzegovina.
Molti anni fa, in un’intervista, Josip Pejaković, attore che con il suo monodramma “On meni nema Bosne” [E lui mi dice che la Bosnia non esiste] aveva girato tutto il paese, mi disse con rassegnazione che la Bosnia Erzegovina esisteva solo “sulla carta”. Se allora questa considerazione mi sembrava pessimistica, oggi è diventata una dolorosa verità.
È chiaro come il sole: i furti di guerra hanno lasciato spazio ad un saccheggio sistematico che si protrae ormai da decenni e al disgregarsi postbellico di tutti i principi fondamentali dello stato. In questo processo, guidato dall’avidità, il desiderio di un potere politico personale – e capace di sfuggire ad ogni controllo a tutti i livelli – ha ormai distrutto questo paese.
Da tempo la Bosnia Erzegovina esiste soltanto sulla carta. Dodik ora sta solo consegnando il conto finale, con una “mancia” superiore all’importo da pagare, e se riesce a farlo con arroganza è grazie non tanto al suo potere quanto alla profonda debolezza della Bosnia, come emerso anche in passato durante le inondazioni, le frane e gli incendi.
L’interesse della comunità internazionale e della popolazione locale è ormai ridotto al mantra della maggioranza, cupo e pericoloso allo stesso tempo: “Basta che non ci sia la guerra”.
La conferenza stampa di Schmidt denota una sensazione di vacuità, lontana da un potere e un sostegno autentico. Non ci sono più carri armati alle spalle dell’Alto rappresentante, solo tiepidezza diplomatica e illusioni. Quella che un tempo era un’autorità, oggi non è che un’ombra burocratica, un’istituzione che, come lo stato, esiste solo sulla carta.
I primi funzionari a ricoprire la carica di alto rappresentante arrivavano in BiH accompagnati dalle forze SFOR ed EUFOR e le loro decisioni venivano attuate senza polemiche. Poi i dodici anni di silenzio di Valentin Inzko, un silenzio interrotto dalla codarda decisione sui poteri di Bonn, presa il giorno prima di lasciare l’incarico. La sua patetica lettera era priva di qualsiasi significato, come anche il suo mandato. Solo dopo essersene andato, Inzko ha iniziato ad esprimersi “francamente” sulla Bosnia, al pari di tutti i suoi predecessori e successori.
Christian Schmidt è giunto in BiH in un momento di profondi cambiamenti geopolitici in Europa e nel resto del mondo. Inizialmente sembrava un portavoce dell’ex ambasciatore americano, in un periodo in cui l’interesse dell’UE per la Bosnia Erzegovina era pari a zero e anche l’America non aveva più alcun vero interesse strategico nel paese. Ora Trump ha compiuto un cambio di rotta così drastico che la domanda principale è se in Bosnia Erzegovina possa ancora esserci un’ambasciata degli Stati Uniti o forse solo un consolato!
Il paradosso è che, nonostante tutto, Schmidt si comporta come se alle sue spalle ci fossero ancora ventimila soldati e l’intera amministrazione americana come ai tempi di Madeleine Albright, la donna che lanciò Dodik sulla scena politica definendolo un riformatore.
Sì, Milorad Dodik, durante la sua ascesa, fu appoggiato fortemente dalla comunità internazionale. Oggi, quando cercano di fermarlo nella sua campagna distruttiva, lo fanno con dichiarazioni che assomigliano alle recensioni negative di alloggi su Trip Advisor: “Dodik non è stato particolarmente cortese, il cibo era discreto, la vista stupenda, le minacce all’ordine costituzionale esagerate. Tre stelle”.
Mentre Schmidt convoca conferenze stampa, Dodik convoca il popolo e la polizia armata. Mentre l’UE offre documenti privi di senso, la Republika Srpska sta spianando la strada ad una nuova Costituzione e all’indipendenza.
E i cittadini? Ormai abituati a una crisi permanente, preparano le valigie seguendo la situazione politica come le previsioni meteo: forse avranno bisogno di un giubbotto antiproiettile o semplicemente di una maglietta a maniche corte per uscire di casa.
La verità è una sola: la Bosnia Erzegovina sopravvivrà nella misura in cui noi stessi saremo pronti a trovare un accordo su questo pezzo di terra che abbiamo, terra che non sparirà e non può sparire.
C’è posto per tutti, gli stranieri sono indifferenti di fronte a questa agonia, è la popolazione locale a decidere e deve finalmente alzare la voce. Nessun “orso” verrà a sistemare le cose per noi. O troveremo la nostra strada o ci dissolveremo. Sia noi che la nostra terra.
Contesto
Lo scorso 23 aprile alcuni membri dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (SIPA) si sono recati davanti alla sede amministrativa del governo della Republika Srpska a Istočno Sarajevo con l’intento di arrestare Milorad Dodik, presidente della RS, sulla base di un mandato di cattura emesso a marzo dal Tribunale della BiH. Il tentativo di arresto è stato ostacolato dalla polizia della RS, che ha impedito ai membri della SIPA di entrare nell’edificio, suscitando forti polemiche e tensioni in tutto il paese. Dodik è accusato di attentato all’ordine costituzionale della Bosnia Erzegovina.
Il giorno dopo il fallito tentativo di arresto, l’Alto rappresentante in BiH Christian Schmidt ha convocato una conferenza stampa, facendo sapere di aver deciso di sospendere tutti i finanziamenti pubblici all’Unione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD) di Dodik e al partito “La Srpska unita”, guidato da Nenad Stevandić, presidente dell’Assemblea popolare della Republika Srpska, anch’egli ricercato dal Tribunale della BiH. Dodik, come di consueto, ha reagito attaccando l’Alto rappresentante, lasciandosi andare a insulti e minacce.
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