Bosnia Erzegovina, materie critiche e appetiti neocoloniali
Grazie ad un enorme affare minerario, la Bosnia Erzegovina ha attratto il più importante investimento estero della sua storia recente. Lo stato continua a promuovere “l’estrattivismo verde”, pur non essendo capace di proteggere le proprie risorse naturali e la popolazione dagli effetti dannosi dei progetti minerari

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© Reyhan Reynardot/Shutterstock
A solo un anno dall’apertura della miniera di Rupice e dai primi ricavi derivanti dalla lavorazione e dall’esportazione dei minerali estratti, la compagnia britannica Adriatic Metals ha deciso di vendere l’intero capitale azionario del complesso minerario di Vareš alla società canadese Dundee Precious Metals (DPM) per 1,25 miliardi di dollari.
Oltre alla valutazione dei guadagni sul mercato dei metalli, la decisione dei vertici di Adriatic Metals con ogni probabilità è legata ad enormi perdite subite dopo la distruzione della rete ferroviaria di Jablanica. Le alluvioni dello scorso anno hanno infatti provocato l’interruzione delle principali vie di comunicazione nell’area, in precedenza utilizzate per l’esportazione dei minerali estratti.
Ad accomunare le due aziende coinvolte in questa transazione “storica” sono anche altri progetti controversi avviati nei Balcani occidentali.
L’azienda canadese DPM è nota per i suoi progetti “d’oro” in Serbia, ma anche per la forte resistenza della popolazione locale che denuncia il prosciugamento delle sorgenti e la distruzione dell’area boschiva di Homolje, nell’est del paese. In questa zona, la DPM da anni ormai sta esplorando i grandi giacimenti d’oro nella località di Čoka Rakita .
Come nel caso di Vareš, anche in Serbia gli ambientalisti si sono impegnati per salvare la straordinaria biodiversità e le fonti di acqua potabile in un’area, come quella di Homolje, dove le risorse naturali dovrebbero essere protette dalla legge per evitare le conseguenze dannose dell’attività esplorativa ed estrattiva.
Nel frattempo, entrambe le compagnie minerarie vanno avanti con i loro progetti, nonostante le molteplici critiche e denunce.
Il progetto Vareš
Se da un lato gli analisti evidenziano le potenziali criticità normative e geopolitiche nell’implementazione del nuovo progetto della Dundee Precious Metals in Bosnia Erzegovina, dall’altro l’azienda vede questo affare come un passo strategico per un’ulteriore crescita. Per la DPM, il progetto Vareš è un’opportunità straordinaria per aumentare la produzione di oro, attività per cui la compagnia canadese è conosciuta in tutto il mondo.
Uno studio pubblicato nell’aprile di quest’anno – commissionato dalla DPM in conformità alle norme canadesi sulla pubblicazione dei dati relativi ai progetti minerari – prevede che la miniera di Vareš rimanga attiva per quindici anni producendo circa 168mila once equivalenti d’oro (GEO) all’anno. È previsto anche un ampliamento di attività esplorativa, attualmente circoscritta ad un’area di 4.400 ettari.
Sin dall’inizio il progetto Vareš è stato accompagnato da polemiche. In un primo momento, la popolazione aveva accolto con entusiasmo l’annuncio di una rivitalizzazione definitiva della vecchia miniera che per decenni, insieme all’acciaieria, ha fornito linfa vitale a questo piccolo comune della Bosnia centrale.
Le autorità hanno dichiarato lo sfruttamento di argento, piombo, zinco e oro a Vareš un progetto di interesse nazionale, presentando Adriatic Metals come un’azienda capace di salvare uno dei comuni più poveri della Bosnia Erzegovina.
D’altra parte, gli attivisti locali da anni evidenziano gli effetti negativi del progetto, rilevati già nella prima fase esplorativa, sulla qualità dell’acqua potabile a Vareš e nel vicino comune di Kakanj. Gli ambientalisti denunciano anche la distruzione di una foresta durante i preparativi per l’attività estrattiva nella miniera di Rupice.
L’ong Bankwach, che monitora gli investimenti nel settore energetico e i loro effetti sulle comunità locali, in un commento pubblicato nel luglio 2023 si chiede perché le ambasciate di Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti a Sarajevo – i cui rappresentanti si sono recati a Vareš per ribadire il loro sostegno al progetto minerario – “facciano orecchie da mercante” e perché la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERD) continui a tacere di fronte alle conseguenze disastrose che il progetto comporta per l’ambiente e per la comunità locale.
È chiaro quindi che il nuovo proprietario della miniera di Vareš, oltre ad un’attività redditizia, ha ereditato anche una moltitudine di problemi riguardanti le autorizzazioni, le procedure di cambio di destinazione d’uso dei terreni, le denunce e le critiche avanzate da attivisti e organizzazioni.
Nonostante la questione dell’utilizzo delle proprietà dello stato non sia mai stata risolta, la leadership della BiH sembra pronta a scendere a compromessi e a sostenere in maniera incondizionata investimenti esteri. Una dinamica che, in ultima analisi, rischia di danneggiare un’azienda, come Dundee Precious Metals, che si è pubblicamente impegnata a rispettare i principi ambientali, sociali e di governance.
Resistenza ambientalista vs opportunismo politico
Alla fine del 2024, a seguito di una segnalazione presentata dall’azienda idrica di Kakanj – che ha denunciato un forte aumento della concentrazione di cadmio in un fiume che fornisce acqua potabile alla popolazione locale – è stata annullata l’autorizzazione rilasciata ad Adriatic Metals per lo sfruttamento minerario. Il permesso è stato revocato in modo da poter sciogliere alcune perplessità sull’utilizzo dei terreni non inclusi nell’area estrattiva della miniera di Rupice.
Tuttavia, una decina di giorni dopo, l’autorizzazione è stata rinnovata, grazie al tempestivo intervento del ministero dell’Energia, delle Miniere e dell’Industria della Federazione BiH. I responsabili dei danni causati alle risorse idriche non sono mai stati identificati.
In precedenza, la Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina aveva sospeso la decisione con cui il governo della Federazione BiH – violando la legge sul divieto temporaneo di uso dei beni statali – aveva consentito alla compagnia britannica di “utilizzare temporaneamente”, o meglio di disboscare 7,24 ettari di terreno forestale di proprietà statale.
Adriatic Metals non solo non ha rispettato la decisione della Corte costituzionale, ma – come denuncia la Direzione per le foreste del cantone di Zenica-Doboj – ha abbattuto illegalmente un’altra foresta demaniale, estesa su una superficie di 3000 metri quadrati nell’area di Vareš. Nermin Nikšić, primo ministro della Federazione BiH, ha reagito definendo gli alberi distrutti “una foresta brulla e inutile” che avrebbe messo a repentaglio un investimento allettante.
Il Comitato della Convenzione di Berna, reagendo alla denuncia sporta dall’attivista Hajrija Čobo, ha esortato la Bosnia Erzegovina a sospendere l’attività esplorativa ed estrattiva a Vareš fino a quando non verranno accertate le accuse contenute nella denuncia.
Nel documento presentato da Hajrija Čobo si afferma che nell’area data in concessione ad Adriatic Metals si trova una foresta vergine ricca di biodiversità, che rappresenta un habitat unico di numerose alghe, pesci e crostacei e un’importante rotta migratoria per gli uccelli. Un ecosistema che, secondo l’attivista, rischia di essere gravemente danneggiato da un progetto minerario, come quello di Vareš, che comporta la deforestazione e l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e del suolo.
Nella risposta fornita dal governo della Federazione BiH, tutte le accuse relative alla violazione delle disposizioni della Convenzione di Berna sono state respinte come errate e infondate. La Bosnia Erzegovina ha scelto di ignorare la Convenzione di Berna e il progetto Vareš è proseguito senza intoppi.
Nel frattempo, Adriatic Metals ha intentato una causa per diffamazione contro Hajrija Čobo, ben presto però decidendo di ritirarla.
I boschi lungo le sponde dei fiumi Trstionica e Bukovica, in particolare una foresta vergine che si estende sui pendii del rilievo interessato dalle attività minerarie, costituiscono il fulcro del progetto del parco naturale Trstionica-Boriva.
Anche se il consiglio comunale di Kakanj, già nell’autunno del 2023, aveva deciso all’unanimità di istituire un’area protetta, devono ancora essere completate diverse procedure riguardanti le analisi, la stesura della documentazione e la definizione dei migliori modelli di gestione.
Gli attivisti che si battono per proteggere questo particolare ecosistema sperano che la creazione di un parco naturale possa fermare il progetto di espandere le attività minerarie nell’area di Vareš. A sfavore agli ambientalisti, oltre ai mega-affari conclusi di recente, gioca però il fatto che in questa zona è già stata avviata la ricerca per esplorare altri giacimenti minerari potenzialmente redditizi, compresi alcuni depositi di cromo.
Le voci critiche
Un altro aspetto problematico è che Vareš viene presentato come un’area mineraria attrattiva, capace di soddisfare gli appetiti neocoloniali. Così si crea un clima che permette agli investitori stranieri di portare avanti indisturbati i propri progetti, ignorando le critiche fondate e i danni ambientali, ben evidenti, che queste attività lasciano in eredità alle generazioni future in Bosnia Erzegovina.
“La miniera di metalli preziosi più promettente del sud est Europa, quella di Vareš, anziché diventare un pilastro della sovranità economica della BiH, è stata trasformata in un laboratorio che genera guadagni per un’azienda straniera, con canoni demaniali minimi e un caos legale totale”, denuncia Boris Britvar, noto architetto bosniaco-erzegovese.
“L’accordo è stato siglato nonostante la miniera non sia prevista dal piano urbanistico federale né tanto meno da quello cantonale, rendendo così il progetto estrattivo privo di qualsiasi fondamento giuridico. Le istituzioni avrebbero dovuto reagire, però l’intero sistema giudiziario è stato ridotto ad un osservatore passivo oppure ad un complice attivo”, sottolinea Britvar.
Il Regolamento europeo sulle materie prime critiche incoraggia ulteriormente l’attività esplorativa legata ai minerali strategici e prevede diversi meccanismi per accelerare le procedure per ottenere i permessi necessari. Gli ambientalisti temono che, considerando l’atteggiamento delle élite politiche locali, l’intera area dei Balcani occidentali possa diventare una cava di materie prime per il raggiungimento degli obiettivi della “transizione verde”.
“Questo è molto preoccupante, anche perché in Bosnia Erzegovina le procedure sono già veloci. Si tende ad ignorare l’opinione pubblica e l’atteggiamento delle comunità locali, tutto avviene in modo segreto, secondo uno schema ormai consolidato. Ci vogliono dieci, quindici, talvolta anche vent’anni per aprire una miniera nei paesi UE, proprio per via delle procedure per ottenere i permessi e della necessità di includere l’opinione pubblica. Nel nostro paese, invece, questo processo è molto più breve”, spiega l’attivista Majda Ibraković per il progetto PULSE.
Ibraković cita il caso della miniera di Vareš, aperta a soli sette anni dall’avvio delle ricerche, ma anche l’esempio di Majevica, dove l’opinione pubblica a lungo è rimasta all’oscuro dell’attività esplorativa nell’area di Lopare.
L’attivista evidenzia anche alcune decisioni sbagliate prese dalle istituzioni della BiH dopo la guerra, creando così le condizioni per un assetto politico favorevole a “eminenze grigie e investitori controversi”.
“Ci dobbiamo preoccupare di un accordo commerciale, sottoscritto dalla Bosnia Erzegovina già nel 1995 e successivamente ratificato. Il cosiddetto Energy Charter Treaty protegge certi investimenti e investitori. Oggi diversi paesi europei si stanno ritirando da questo trattato dannoso”, spiega Ibraković. “Dopo la guerra, la Bosnia Erzegovina ha adottato anche una legge sugli investimenti esteri, spianando così la strada a privatizzazioni deleterie e un’ulteriore svendita delle nostre risorse”.
Anche l’attivista Anes Podić è dello stesso parere.
“Negli ultimi trent’anni, i nostri beni sociali e naturali sono stati oggetto di continui saccheggi. Prima hanno distrutto le nostre aziende, poi tutto il resto. In questo contesto, la normativa in materia di concessioni svolge un ruolo molto importante essendo concepita in modo da agevolare un processo decisionale lontano dagli occhi e senza alcun coinvolgimento dell’opinione pubblica. Stiamo svendendo le nostre risorse senza ottenere nulla in cambio”, ha dichiarato Podić a OBCT.
Per l’architetto Boris Britvar, il modo in cui è stata concepita la legislazione nazionale in materia di concessioni – che si traduce in un atteggiamento servile nei confronti degli investitori stranieri – la dice lunga sull’effettiva sovranità della Bosnia Erzegovina, come ben dimostra anche il caso di Vareš.
“La Bosnia Erzegovina non guadagnerà un soldo bucato con questo accordo stratosferico. Volendo fare un confronto, secondo l’organizzazione Eko Akcija, nella Repubblica Democratica del Congo, dilaniata da guerre, la legge prevede che lo stato detenga una quota del 20% di ogni progetto minerario [avviato sul suo territorio]. Se Vareš si trovasse in Congo, questa compravendita frutterebbe allo stato oltre quattrocento milioni di marchi [poco più di duecento milioni di euro]. La Bosnia Erzegovina invece riscuote canoni demaniali miseri, pari a 3,9 marchi per tonnellata di minerale, una delle imposte sugli utili più basse d’Europa. Nel 2024, il concessionario ha registrato un utile di 46 milioni di marchi convertibili, mentre lo Stato ha incassato 77 volte meno dalle concessioni, ovvero 569.400 di marchi convertibili [circa 230.000 euro].”, denuncia l’architetto.
“Anziché di uno sviluppo, come lo presentano le istituzioni e i media allineati, si tratta di un colonialismo economico legittimato dal consenso interno. Il paese è stato derubato per l’ennesima volta, con tanto di sorrisi dei politici, titoli sugli ‘investimenti esteri’ e silenzio delle istituzioni. […] Quando qualcuno nel cantone di Zenica-Doboj vi dice che la Bosnia Erzegovina è uno stato sovrano, mostrategli la miniera di Vareš”, conclude Britvar.












